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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 56 (Nuova Serie), aprile 2020

La claque del libro: storia della pubblicità editoriale da Gutenberg ai nostri giorni / Giorgio Borsani

Di quale raccolta intimità viva l'atto del leggere e con quale segretezza si svolga, sulla pagina scritta, l'incontro tra impulso a raccontare e istinto ad ascoltare, ciascuno di noi sa per personale e privata esperienza. E così anche sa che è solo nel silenzio dell'interiorità che la lettura autentica compie il suo miracolo conoscitivo: al di fuori di questo habitat, infatti, nessuna empatia, nessuna rottura verso il 'caos' del diverso, nessuna rifrazione del magma dell''altro' in noi, in definitiva, nessuna comprensione primaria del mondo, dell'uomo e delle infinite alternative dell'esistenza potrebbe mai avere luogo. Se, dunque, il libro è una fondamentale vicenda interiore, in cui scrittura e sua ricezione esigono uno sforzo bilaterale che è innanzi tutto spirituale, per circolare, tuttavia, e raggiungere il suo lettore, ha anche bisogno di un'esteriorità che lo renda percettibile o che, anzi, lo trasformi da soggetto comunicante a oggetto comunicato: nato da un'intimità e destinato a un'altra, il libro transita, dunque, nello spazio intermedio un po' in forza di paradosso, sospinto da sempre come materia di mercato dal chiasso di avvisi e dai clamori di réclames.

È proprio in questo frastuono attraverso i secoli che Ambrogio Borsani, pubblicitario di fama (tra l'altro, è stato direttore creativo per la Doyle Dane Bernbach e docente di comunicazione presso varie università italiane), fine amante del libro (ha fondato e diretto la rivista per bibliofili Wuz), nonché scrittore produttivo (di romanzi, di libri di viaggio e di letteratura per ragazzi), ha 'infilato' l'orecchio, isolando le intricate frequenze in un vivace, piacevolissimo e gustosamente documentato volumetto dal titolo La claque del libro: storia della pubblicità editoriale da Gutenberg ai nostri giorni (Neri Pozza, 2019; 187 pagine).

Pubblicità editoriale, ma non solo. La rete lanciata da Borsani è, infatti, ampia e dai molteplici risvolti, e se, innanzi tutto, recupera dal fondo la 'lettera' della réclame in quanto comunicazione del libro nel tempo - il mutare delle forme, dei mezzi, degli attori e delle strategie -, va poi agganciando specchi rovescianti, in cui il libro si mostra lui stesso contenitore di réclame, lo scrittore testimonial di prodotti molto distanti dal libro, la promozione madre del libro in quanto testo. Il percorso offerto da Borsani, pertanto, ben lungi dall'essere mono-lineare, indaga in modo complesso la trama di tutti i possibili rapporti tra scrittura e pubblicità. Inoltre spia, attraverso la storia di un caso, la storia della pubblicità in generale, dentro cui l'industria del libro, con le sue soluzioni, fu spesso centro di innovazione e poi, imitata, di diffusione.

Una piccola rassegna di casi emblematici (organizzato in 15 capitoli, il libro è ricco di fatti e di aneddoti, accompagnati da efficaci illustrazioni) aiuta a mettere a fuoco alcuni nuclei nell'evoluzione di questo importante canale attraverso i secoli.

Nel 1469, Peter Schöffer, ormai ex socio di Gutenberg, stampa un foglio con 19 titoli dai suoi torchi e lo affigge in bottega e in giro per la città («Chiunque vuole procurarsi gli scritti sotto elencati … venga a casa mia a vederli»): è il primo atto di promozione editoriale e il primo prodotto pubblicitario tout court dell'èra della carta stampata. Semplice e diretto ma efficace, l'avviso pubblicitario e la pubblicità in generale sono nati con i libri, geneticamente legati a chi ne possedeva tecnologia e mezzi di produzione («Gli imprenditori più bisognosi di pubblicità sono gli editori»).

Denis Diderot, da poco uscito di prigione grazie all'intervento interessato dei suoi editori e sponsor, mette in distribuzione nel 1750 il cosiddetto Prospectus, un libretto destinato a raccogliere le sottoscrizioni (crowdfunding ante litteram) all'Encyclopedie. Scrittura colta finalizzata alla vendita di un prodotto squisitamente culturale ed evoluzione della comunicazione del libro verso forme di promozione complesse e pianificate, quell'opuscolo è anche un capolavoro di marketing e anticipatore di tecniche poi reinventate e codificate in America due secoli più tardi (dalla unique selling proposition alla competition analisys, dalla reason why al benefit).

Nel luglio del 1836, Èmile de Girardin, direttore del foglio parigino La Presse, inizia a pubblicare sul suo giornale pubblicità a tutta pagina di libri e non solo. L'operazione, commerciale, ha enorme risonanza e seguito di polemiche: Armand Carrel, editore di Le National, addirittura ne morì, sfidando lo spregiudicato concorrente a duello. Pur mantenendo ancora la forma del semplice avviso, il salto di livello fu epocale: la pubblicità, quella editoriale in testa, si era organizzata fino a quel momento in autonomia su ephemera quali plaquettes, locandine e manifesti (di affissioni si saturarono i muri di Parigi, e non solo, tra Sette e Ottocento, dominante il genio grafico di Cheret, e sul mestiere di attacchino fu creata una pseudo-autobiografia a nome - e omen - di tal Simon Collat); ora, invece, invadeva, simbionte, altri media circolanti, diffusi quanto la società civile («i prodotti migrano dove trovano più occhi»).

Agli inizi del Novecento, l'editore parigino Fayard commissionò a Pierre Souvestre e Marcel Allain la realizzazione di un seriale. Si trattava di scrivere un libro al mese per il grande pubblico. Per garantire ciò, i due impiegarono una tecnica di scrittura molto avanzata: costruivano la trama insieme, ciascuno si occupava poi separatamente di un capitolo, dettandolo a una segretaria, infine li 'cucivano'. Il primo volume della serie Fantômas uscì nel 1911. È il primo esempio della progettazione a monte di un successo e della costruzione di un libro come prodotto pensato per soddisfare le richieste del mercato, identificate prima che il libro venga scritto («il marketing è l'orchestra che dirige il direttore», Frédéric Beigbeder). Anche il lancio avvenne con grande battage, una vera, affinata, allargata campagna pubblicitaria in senso moderno. Contemporaneamente, dal libro derivarono gadget e la sua trasposizione in altre arti (cinematografica, innanzi tutto): nacque, insomma, un'industria parallela a sfruttamento di quel successo e il prodotto editoriale si pose al centro di altri mercati ricavando nuova pubblicità dall'indotto. Sulle tracce di Fantômas, i casi planetari di Gone with the wind e di The Little Prince sono solo di pochi anni posteriori.

«Ritroverai quel comunicato in tutti gli indirizzi fisici ed elettronici che hanno segnato il tuo passaggio terrestre, perfino nella casetta di legno in cima all'albero … E alla fine recensirai il libro con servile entusiasmo» (Guido Vitiello, Uffici stampa vi amo, "Internazionale", 4 dicembre 2013). Nata con il Journal des savants sulle Maximes di La Rochefoucauld e dotata di peccato originale, l'addomesticabilità, è dal Novecento che la recensione si afferma come via comune e ricercatissima di propaganda del prodotto editoriale, dapprima programmata sui giornali, poi in rubriche e salotti televisivi, infine, con moto incontrollato, dilagata sui social nella rete, spazio aperto a critici quotati o improvvisati e alle più svariate gamme espressive, dai blog, ai like, ai tweet. La rivoluzione, anche qui, è copernicana (e molto legata agli alti prezzi della pubblicità tabellare): l'avviso del produttore cede spazio al (buon) giudizio del consumatore, la promozione non solo è veicolata per il tramite dei media, ma dai media stessi viene interamente prodotta in delega. Questa ricerca della visibilità a costo zero marca il passaggio della pubblicità alla publicity. Gli uffici stampa e le PR delle case editrici lavorano indefessamente per questo: stimolare l'interesse dei mezzi di comunicazione di massa verso editori e libri che gli editori scelgono di 'spingere', ottenendo recensioni favorevoli gratuitamente («gli editori investono poco in pubblicità»).

Rupi Kaur è ultima creatura della rete: poetessa di origini indiane, vive in Canada, pubblica su Instagram i suoi testi, fa dei reading di poesia, ha quasi 4 milioni di follower. La popolarità non le arriva, tuttavia, con le poesie: ha 'solo' centomila follower nel 2015, quando posta sui social delle proprie foto, scandalose, che le vengono censurate. Lei ne monta una campagna per la libertà di parola in tema di fragilità femminile. Da qui il balzo clamoroso, che la trasforma in una influencerimportante, mentre continua a postare poesie («la pubblicità va dove vanno i numeri»). Nel 2016 pubblica il suo primo libro a stampa, in gergo tecnico un libroide (nel rapporto dilemmatico tra generato e generante, è chiaro in questo caso che qualunque notorietà sul web venga prima, e poi segua il resto), che vende oltre un milione e mezzo di copie, cifra inimmaginabile persino qui in 'terra di poeti'.

Quest'ultimo esempio introduce un altro tema, oltre quello evolutivo, che attraversa ogni tempo e tutto il libro di Borsani: quello del rapporto, diviso, degli scrittori con la pubblicità e dello sfruttamento, consapevole o passivo, dei meccanismi di questa. Se, da un lato, una distaccata autosufficienza (agli occhi di un pragmatico, inadeguatezza) sembra essere stato l'atteggiamento dei più, dall'altro,ci furono molte e varie complicità non imbarazzate.

Gabriele D'Annunzio e Guido Da Verona, ad esempio, furono straordinari promotori di se stessi e inarrivabili coordinatori del proprio successo per la capacità di auto-generarsi publicity (dove lo scandalo è un fattore sempre benevolo) e di controllare i propri editori; Depero e Marinetti posero spregiudicatamente le loro estetiche e le loro capacità al servizio diretto della réclamecome dell'auto-réclame(«L'arte pubblicitaria è fatalmente necessaria», Fortunato Depero, Manifesto dell'arte pubblicitaria; e: «Se l'artista attende la celebrità e la riconoscenza dell'opera propria per mezzo altrui ha tempo di morire 5000 volte», Id., Depero futurista); Massimo Bontempelli, ancora, accettò per la FIAT di dedicare un intero romanzo al lancio del modello 522 e ne nacque per Mondadori 522. Racconto di una giornata, esaltazione 'macchinista' in cui descriveva le sensazioni al volante della nuova vettura nell'arco delle ventiquattrore (l''Accademico d'Italia' guadagnò la berlina per compenso, insieme a una Torpedo); infine, se, con maggiore indeterminatezza, Jan Fleming mette un Martini in mano a James Bond o gli fa prediligere le sole Morland tra le sigarette, sta usando la marca in ossequio alla legge, tutta interna all'arte, della denotazione del personaggio secondo realtà, o sta strizzando, fuor di letteratura, un occhio complice e favorevole a qualche ricambiante imprenditore?

Ma non solo la pubblicità entra nei testi, gli scrittori stessi entrano nella pubblicità come testimoniale copywriter, con ritorni raramente immateriali: così, negli anni Cinquanta, la birra Ballantine Ale si fregiò di immagine e bodycopy di Ernest Hemingway e, poco dopo, di John Steinbeck; Bret Easton Ellis prestò la sua figura per una marca di occhiali, la Luxottica (tra l'altro, nel suo American Psycho descrive il vuoto esistenziale moderno riempiendo parole e apparenze del protagonista con un'orgia di marchi di lusso); il secolo prima, un sorridente Mark Twain dentro una nuvola di fumo fu utilizzato per pubblicizzare tabacco da pipa, che lui certo amava.

Molti altri, infine, il mestiere del copywriter lo fecero davvero, abbandonandolo i più fortunati per l'altra arte: il paradosso di Fernando Pessoa, fertile pubblicitario ma geniale scrittore morto senza recensioni, è tra i più emblematici.

Esaminato, dunque, con intensa attenzione, nel tempo e nell'affinarsi progressivo delle strategie, il principale canale organizzato attraverso cui autori, editori, promotori, uffici stampa, agenzie di pubblicità, direttori di marketing, recensori, blogger e influencer si ingegnano attivamente per garantirne la vita, cioè la propagazione, Borsani alza, infine, il velo sui fattori incontrollabili del successo di un libro. Quelli 'veri', si è tentati di dire. Il caso, imprevedibile, viene per primo (fortuna, se si è in grado di coglierlo, come fece il martinicano Aimé Cesaire). Ma il secondo è qualcosa che ci impegna come esseri umani e solidali: è il passaparola. E su questo potente brusio, educatore alla buona scelta, si chiude questo libro sapido, franco, curioso e rivelatore che, scoprendo i mezzi, non dimentica tuttavia i fini intrinseci del suo oggetto: «La passione per la lettura non è una tecnica che si insegna o si apprende. È una malattia. Per fortuna una malattia contagiosa. Il virus non passa attraverso i media. Si trasmette da persona a persona. … One to one, così si sono diffuse le più grandi epidemie della storia. Un insegnante preparato, una brava madre, un nonno intelligente, una bibliotecaria illuminata, un caro amico, una sorella affettuosa… sono tutte persone che possono infettare un bambino e salvarlo dall'insopportabile prospettiva di una vita sana». Sì, perché, sollevando dall'insipiente dissipazione del tempo e indicando l'autenticità nelle relazioni, unica «la malattia della lettura salva la vita».

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