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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 34 (Nuova Serie), agosto 2016

Natalia Ginzburg

Abstract

Scrittrice, traduttrice, saggista, animatrice culturale e consulente editoriale, Natalia Ginzburg ha attraversato la cultura italiana del secondo dopoguerra, contribuendo in larga misura, con il suo incessante lavoro quotidiano, alla sua costruzione. Nell'ultimo decennio della sua vita questo lavoro si è svolto direttamente al servizio dei cittadini che l'avevano eletta in parlamento: non casualmente, ma a coronamento di un impegno che attraversa l'intero arco della sua vita. Ripercorriamo, come di consueto in questa rubrica, alcuni dei tratti più significativi della sua figura.

Cogliendo l'occasione del centenario della nascita, caduto il 14 luglio scorso, rendiamo omaggio a Natalia Ginzburg, dedicandole l'approfondimento che segue.

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ritratto1. Una breve biografia

2. Natalia Ginzburg a Montecitorio

3. Dentro le opere

4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

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1. Una breve biografia

Ultima di cinque fratelli, Natalia Levi nasce il 14 luglio 1916 a Palermo da Giuseppe Levi, ebreo triestino professore di anatomia comparata, e Lidia Tanzi, figlia di Carlo, avvocato socialista amico di Turati. La famiglia si stabilisce nel 1919 a Torino («Furono, i primi anni di Torino, per mia madre, anni difficili, era appena finita la prima guerra mondiale; c'era il dopoguerra, il caroviveri, avevamo pochi denari.» Ginzburg 1963a, p. 30), dove la piccola Natalia completa il primo ciclo di studi privatamente («Io non andavo a scuola, benché fossi nell'età di andarci, perché mio padre diceva che a scuola si prendono i microbi. Anche i miei fratelli avevano fatto le elementari in casa, con maestre, per la stessa ragione. A me, dava lezioni mia madre.» Ivi, p. 50) iscrivendosi poi al liceo-ginnasio Vittorio Alfieri.

La famiglia Levi fece parte di quell'ambiente torinese ostile al nascente regime fascista:

Quanto alla politica, si facevano in casa nostra discussioni feroci, che finivano con sfuriate, tovaglioli buttati all'aria e porte sbattute con una violenza da far rintronare la casa. Erano i primi anni del fascismo. Perché discutessero con tanta ferocia, mio padre e i miei fratelli, non so spiegarmelo, dato che, come io penso, eran tutti contro il fascismo.

(Ivi, p. 35).

In questi anni si annodano le amicizie che accompagneranno tutta la vita di Natalia: quella con Adriano Olivetti, sempre presente nei momenti più importanti e tragici, che sposa la sorella maggiore Paola; quella con Vittorio Foa, amico del fratello Alberto, e quella con Leone Ginzburg, amico del fratello Mario e fondatore insieme a Giulio Einaudi dell'omonima casa editrice torinese, cui Natalia aveva fatto leggere le sue prime prove letterarie. Nel marzo del 1934 il fratello Mario viene trovato in possesso di opuscoli antifascisti: riesce a fuggire in Svizzera, ma a Torino vengono arrestate diverse persone, tra cui il padre e il fratello Gino, presto scarcerati, e Leone.
Natalia e Leone si scrivono lettere per i due anni che lui passa nel carcere di Civitavecchia: nel 1938 si sposano e Natalia porterà il nome del marito per il resto della sua vita, "perché ormai con quel nome aveva pubblicato libri, traduzioni e articoli, e cambiare nome di nuovo le sembrava una complicazione" (Autobiografia in terza persona, in Natalia Ginzburg, Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di Domenico Scarpa. Torino, Einaudi 2001, p. 180).

Mi sposai: e immediatamente dopo che mi ero sposata mio padre diceva, parlando di me con estranei: "mia figlia Ginzburg". Perché lui era sempre prontissimo a definire i cambiamenti di situazione, e usava dare subito il cognome del marito alle donne che si sposavano.

(Ginzburg 1963a, p. 134).

Leone Ginzburg lavora per l'Einaudi e propone a Natalia di tradurre la Recherche di Proust; nascono tra il 1939 ed il 1940 i due figli, Carlo e Andrea. Nel 1940, con l'inizio della guerra, Leone viene inviato al confino a Pizzoli con la famiglia. Nel 1942 Einaudi pubblica La strada che va in città, che Natalia dovrà firmare con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, per via delle leggi razziali. A L'Aquila nasce la terza figlia di Leone e Natalia, Alessandra, nel 1943. Alla caduta del fascismo, Leone è a Roma e riprende le attività editoriali e politiche: viene raggiunto dalla famiglia nel novembre del 1943. Alla fine dello stesso mese viene però arrestato e morirà il successivo mese di febbraio in seguito alle torture dei tedeschi.

Leone fu arrestato in una tipografia clandestina. Avevamo quell'appartamento nei pressi di piazza Bologna; ed ero sola in casa con i miei bambini, e aspettavo, e le ore passavano; [...] e la mattina dopo, venne da me Adriano, e mi disse di lasciar subito quell'alloggio, perché Leone infatti era stato arrestato, e là poteva venire, da un momento all'altro, la polizia. M'aiutò a fare le valige, a vestire i bambini; e scappammo via, e mi condusse da amici che acconsentivano ad ospitarmi.
Io ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era così familiare, che conoscevo dall'infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, [...]. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno.

(Ivi, p. 174).

Saputo della morte di Leone, Natalia raggiunge una zia a Firenze e, dopo un breve soggiorno a Roma senza i figli, nel 1945 torna a Torino, nella casa paterna, diventando, con Cesare Pavese, Felice Balbo e Massimo Mila, redattrice fissa della casa editrice Einaudi.
Scrive il romanzo breve È stato così, dedicato a Leone Ginzburg, in cui sfoga tutta la sua malinconia, e pubblica per Einaudi, con il titolo La strada di Swann, i primi due volumi della Recherche di Proust.
Nel dopoguerra si era iscritta al Partito d'Azione, collaborando anche al quotidiano L'Italia libera: nel 1947 Felice Balbo la convince ad iscriversi al Partito Comunista Italiano, che abbandonerà dopo cinque anni. Alla fine degli anni Quaranta conosce l'anglista Gabriele Baldini, con cui si sposa nel 1950: si trasferisce a Roma con i figli, città in cui resterà tutta la vita - ad eccezione di un paio di anni trascorsi a Londra quando Baldini dirige il locale Istituto Italiano di cultura.
Nel 1954 nasce la figlia Susanna, affetta da una grave malformazione.
Nel 1963 pubblica il romanzo che la porta all'attenzione del grande pubblico, Lessico famigliare, che vince il premio Strega di quell'anno: «un romanzo di pura, nuda, scoperta e dichiarata memoria [...] scritto in assoluta libertà» (Prefazione, in Ginzburg 1964, p. 17). Tra il 1965 e il 1971 scrive 8 commedie, su impulso dell'amica attrice Adriana Asti; inoltre, dalla fine degli anni Sessanta, collabora con diversi giornali, soprattutto "La Stampa", "Corriere della Sera" e "L'Unità".
Nel 1969 muore Gabriele Baldini. Negli anni Settanta pubblica in volume alcuni saggi e articoli apparsi su quotidiani e riviste, ha qualche dissapore con l'Einaudi, con cui però si riconcilia verso il 1977, tornando a lavorare come consulente per la casa editrice.

Nei primi anni Ottanta, su incarico di Gino Pampaloni, si occupa con l'amica Clorinda Gallo dell'allestimento di un'antologia di letture per la scuola media, intitolata La vita: collabora nella scelta dei brani (la lunghezza dei quali determinerà probabilmente l'insuccesso dell'antologia che non verrà adottata da molti istituti) e alla stesura delle note introduttive.
Nel 1983 pubblica La famiglia Manzoni, frutto di una lunga ricerca sulla famiglia del grande romanziere, che vince il premio Bagutta. In quegli anni si occupa inoltre di riunire presso Mondadori le sue opere per la collana "I Meridiani": i due volumi usciranno tra il 1986 ed il 1987.
Il PCI le aveva chiesto di candidarsi alle elezioni politiche del 1983 alla Camera dei Deputati: eletta a Torino, entra a far parte del gruppo della Sinistra indipendente. Resterà alla Camera anche nella successiva legislatura e fino alla morte, avvenuta a Roma nell'ottobre del 1991.

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2. Natalia Ginzburg a Montecitorio

Nilde Iotti, Presidente della Camera dei Deputati, raggiunge personalmente Natalia Ginzburg presso la sede romana dell'Einaudi per proporle la candidatura alle elezioni del 1983:

Conoscevo, già da molti anni, Natalia Ginzburg e le dissi, con molta semplicità, quale era la ragione della mia visita e il fatto che i miei compagni mi avevano chiesto di andare da lei per chiederle di accettare la candidatura nelle nostre liste [...].
Natalia mi parve spaventata di queste proposta e mi disse subito: "Ma no! Non mi sono mai occupata di politica, non saprei; io faccio la scrittrice, la consulente editoriale: questo è il mio lavoro ed io sento, in questo lavoro, di poter dare qualcosa. Che cosa farei sui banchi di Montecitorio?".

(Nilde Iotti in Ricordo di Natalia Ginzburg 1997 p. 26).

Natalia, probabilmente presa alla sprovvista, come lei stessa scrive, «ha esitato molto prima di accettare, perché ritiene di non avere per nulla una testa politica. [...] Viene eletta, e lascia il lavoro nella casa editrice» (Autobiografia in terza persona, cit., p. 182), segno anche questo della serietà con cui affronta questa nuova prova della sua vita; ricorda infatti un collega deputato:

[...] l'onorevole Levi Baldini - con questo nome stava fra noi - aveva preso terribilmente sul serio il suo nuovo mestiere. Non soltanto credo che non vi sia stato deputato o deputata della Repubblica che abbia raggiunto così alte percentuali di presenza in Aula, ma anche mi commuoveva la sua attenzione ad ogni dibattito, persino quello che poteva essere giudicato lontanissimo dai suoi interessi. Questa attenzione e le riflessioni che ne derivavano si traducevano poi in grande libertà e autonomia di giudizi, sia pure nella rigorosa lealtà al contesto politico in cui aveva scelto di militare. Si può dire sorridendo che le si confaceva davvero stare in un gruppo che si chiamava Sinistra indipendente. E credo che in nessun altro avrebbe accettato di stare.

(Ettore Masina in Ricordo di Natalia Ginzburg 1997, p. 14).

Entrata, dunque, nel gruppo della Sinistra Indipendente, farà parte nella IX legislatura della II Commissione (Affari della Presidenza del Consiglio - affari interni e di culto - enti pubblici) e nella X legislatura della VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici). I suoi interventi, sebbene rarissimi, possedevano però

una grande forza retorica, data anche dalla massima semplicità e chiarezza della sua esposizione. Nella chiarezza del parlare si poteva rintracciare un'idea di democrazia come rispetto di ogni interlocutore e come rifiuto di una politica oscura ed elitaria. [...]
I temi sui quali volle intervenire furono il prezzo politico del pane e il costo delle case, l'aiuto ai bambini palestinesi e la violenza sessuale, l'intervento italiano nella guerra del Golfo, al quale si oppose fermamente. Fare politica, diceva, significava schierarsi "dalla parte di quelli che stanno male", abbandonare le astrazioni del politichese per scendere sul terreno della realtà.
Nell'affrontare questioni tra loro diversissime, Natalia Ginzburg ebbe sempre presente i valori primari della libertà e della pace e riuscì a rappresentare nel modo più alto l'impegno dell'intellettuale che fa politica. Riuscì cioè a sintetizzare, con la sua presenza discreta ma forte nella vita parlamentare, un'autentica indipendenza di giudizio con l'adesione ad un impegno politico collettivo; riuscì dunque, senza isolarsi, a trasmettere le proprie convinzioni personali in un più ampio disegno di sviluppo civile e democratico.

(Luciano Violante in Ricordo di Natalia Ginzburg 1997, pp. 2-3).

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3. Dentro le opere

Nel romanzo Lessico famigliare la vita quotidiana della famiglia Levi si intreccia con la storia dell'Italia di quegli anni. Il ricordo del lavoro quotidiano all'Einaudi con Pavese e Ginzburg è inscindibile, in una determinata primavera, da quello dell'inizio della guerra:

Pavese, quella primavera, era solito arrivare da noi mangiando ciliege. Amava le prime ciliege, quelle ancora piccole e acquose, che avevano, lui diceva, «sapore di cielo». Lo vedevamo dalla finestra apparire in fondo alla strada, alto, col suo passo rapido; mangiava ciliege e scagliava i noccioli contro i muri con un tiro secco e fulmineo. La sconfitta della Francia, per me, rimase legata per sempre a quelle sue ciliege, che arrivando ci faceva assaggiare, traendole a una a una di tasca con la mano parsimoniosa e scontrosa.
La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l'era cavata con poco e non ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte, né fughe o persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi. E non c'era più uno che potesse far finta di niente, chiuder gli occhi e tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c'era. In Italia fu così la guerra.

(Ginzburg 1963a, pp. 152-153).

Finita la guerra, l'iniziale euforia lascia il posto ad una nuova, faticosa, ricerca stilistica, in ragione del mutamento avvenuto nella realtà:

Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d'essere dei politici; tutti s'immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. [...] Nel tempo del fascismo, i poeti s'erano ritrovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c'erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l'idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio tra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme. Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là dal vetro, e l'illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera. [...]
Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione. Era dunque necessario, se uno scriveva, tornare ad assumere il proprio mestiere che aveva, nella generale ubriachezza, dimenticato. E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all'ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell'altro, ingannati e traditi: sia quelli che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano, o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla.

(Ivi, pp. 171-173).

In uno dei primi discorsi nell'aula di Montecitorio Natalia Ginzburg si sofferma sui problemi del paese:

Ma è noto che oggi in Italia chiunque pensi o decida di iniziare un'attività anche modesta e umile subito incontra delle forze oscure che gli chiudono il passo. Là dove nasce un'idea creativa, un progetto utile, mafia e camorra insorgono a chiudere il passo, ed ogni idea, ogni impresa, grande o piccola, ne è subito strangolata. Erano mali antichi, ma adesso sono diventati immensamente più forti e si sono estesi in ogni luogo. Diffondono ovunque un senso costante di insicurezza e paura. Si sa che a pagare saranno sempre i più deboli, i più sprovveduti ed anche i più onesti e limpidi, coloro che vogliono pensare, agire, vivere nella gran luce del giorno.
Quando si è saputo della loggia P2 ci si è resi conto che eravamo circondati da forze occulte, le quali si muovevano in ogni punto della vita del nostro paese e che il loro potere occulto mirava a devastarlo nel profondo. Esiste dunque ancora un'altra separazione, in Italia, fra la gente: quelli che agiscono e vogliono nella gran luce del giorno e quelli che si muovono nella notte. Molti fra quelli che agiscono e vogliono agire nella gran luce del giorno e molti fra quelli che vogliono veder chiaro nella notte e avventurarvisi con torce e fiaccole e parlare a voce alta e chiamare a voce alta la giustizia, ben sovente, come si sa, vengono trovati morti. Mafia, camorra, terrorismo, sequestri di persona, corruzione pubblica, traffico di droga e di armi: questi sono i mali dell'Italia. Come siano sorti e come siano diventati così rigogliosi, così pericolosi e così diffusi è difficile dirlo. Certo, covavano nel paese da tempo e sono esplosi negli ultimi anni. Secondo quelle parole attribuite ad Agnelli, "tutto ciò che deve morire in Italia, muore molto lentamente". Ma in verità noi abbiamo visto invece in Italia nascere, crescere e proliferare un mondo di cose spaventose, e l'Italia trasformarsi e deturparsi con una rapidità straordinaria, e fulmineamente sparire alcuni suoi connotati che ritenevamo indistruttibili.

La carrellata non si esaurisce, ma tocca anche un problema fondamentale, quello dell'uso del linguaggio, in politica come nel giornalismo, non tralasciando un accenno alla letteratura:

Eppure, le leggi dovrebbero essere fatte dello stesso linguaggio che si adopera per parlare dell'acqua e del pane: ma, d'altronde, l'oscurità, la tortuosità del linguaggio l'incontriamo spesso oggi non soltanto nei decreti-legge, ma anche nei romanzi e nei giornali. È sempre un linguaggio ricattatorio, intimidatorio, è il linguaggio che tacitamente dice al prossimo: «se non mi capisci, è perché sei imbecille»! E ancora tacitamente aggiunge: «io sono più forte di te, sono in una sfera superiore alla tua, fra me e te corrono distanze incommensurabili. Io ho in mano il tuo destino e la tua vita, io sono tutto e tu non sei nulla»! È vero che, per quanto riguarda i romanzi, la poesia, il teatro, è necessario ogni volta distinguere fra la oscurità, che nasce da una ricerca ardua, da una reale complessità di pensiero, e l'oscurità, che nasconde puramente e semplicemente il vuoto; comunque, per quanto riguarda i romanzi o la poesia o il teatro, il discorso è lungo e porterebbe lontano. Ma i giornali, i giornali dovrebbero essere chiari: la gente li compra e legge ogni giorno per sapere e capire che cosa succede, e devono essere chiari. E il linguaggio dei politici dovrebbe essere chiaro, accessibile a tutti, immediatamente intelligibile, limpido come uno specchio perché la gente vi si possa specchiare! I decreti-legge devono essere chiari. Fra le molte battaglie da combattere, una è certamente questa: la battaglia per un linguaggio chiaro, concreto, intelligibile a tutti, in rapporto diretto con le cose. Io credo che la vita del nostro paese diventerebbe migliore e più limpida se ognuno di noi si studiasse di vincere, almeno, intanto, l'oscurità del linguaggio, se si studiasse di indirizzarsi al prossimo con ogni parola, di non perdere mai di vista la realtà del prossimo, di non irriderlo, non truffarlo, non umiliarlo, non calpestarlo mai.

(Camera dei Deputati. Assemblea, Resoconto stenografico. IX legislatura, 124° seduta, 7 aprile 1984, pp. 11767-11773).

Di nuovo, dunque, le parole che, rappresentando la realtà in cui viviamo, dovrebbero essere scelte ed adoperate "con giudizio", un giudizio che in Natalia Ginzburg è sempre stato indipendente:

Ci troviamo [...] circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che ne fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo.
Sempre per le stesse motivazioni la società impone di non dire neri o negri ma dire invece "persone di colore". E perché? di quale colore? Nella parola nero o negro c'è forse qualcosa di oltraggioso? [...]
Abbiamo tanta paura della realtà? Abbiamo tanta paura della malattia e della morte, da astenerci dal pronunciare la parola cancro e credere di dover dire sempre "un male incurabile"?
Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono spazzini e i ciechi son ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l'altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava "le parole cadaveri". Per docilità, per ubbidienza - la gente è spesso ubbidiente e docile - ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino. Sembra un problema insignificante ma non lo è. Si tratta invece d'un problema essenziale. Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile tra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo di tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà.

(Natalia Ginzburg, L'uso delle parole, "L'Unità", 28 maggio 1989, p. 2).

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4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

Nell'articolo sono citati per esteso solo i testi non compresi nell'allegata bibliografia: Natalia Ginzburg. Percorso bibliografico nelle collezioni del Polo Bibliotecario Parlamentare.

Si suggerisce inoltre la ricerca nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche delle due biblioteche.

Un ampio ritratto biografico della scrittrice, a cura di Domenico Scarpa, è disponibile al seguente link.

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