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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 32 (Nuova Serie), aprile 2016

Matilde Serao e La conquista di Roma

Abstract

Pioniera del giornalismo italiano, Matilde Serao ha fondato giornali, riviste, ideato rubriche che hanno segnato la storia del giornalismo. In quella fecondissima stagione culturale, letteratura e giornalismo si sono continuamente contaminati, attingendo una dall'altro e viceversa: ha qui origine la breve stagione del romanzo "di ambiente parlamentare". A partire da un profilo biografico, riporteremo alcuni brani de La conquista di Roma, romanzo che si situa a pieno titolo in quella stagione.

foto di Serao1. Cenni biografici

2. Giornalismo e letteratura

3. La conquista di Roma

4. Dentro il romanzo

5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

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1. Cenni biografici

Nata a Patrasso nel 1856 da Francesco, antiborbonico in esilio, e Paolina Borely, discendente da una nobile famiglia di Trebisonda, Matilde Serao trascorre la sua infanzia a Napoli, dove la famiglia si trasferisce poco prima dell'Unità. A quindici anni frequenta, in qualità di uditrice prima e di alunna poi, la Scuola Normale "Eleonora Pimentel Fonseca", ottenendo nel 1874 il diploma di maestra. Lavora come telegrafista alle Poste e scrive articoli, bozzetti, novelle per i giornali locali: nel 1878 pubblica, con lo pseudonimo di "Tuffolina" la prima novella, Opale.

Qualche anno dopo la morte della madre, nel 1882 si trasferisce con il padre a Roma, iniziando a scrivere per le riviste culturali più importanti: dalla "Nuova Antologia" al "Fanfulla della Domenica", dalla "Cronaca bizantina" al "Capitan Fracassa", di cui divenne redattrice fissa. Si occupa di tutto: dalla cronaca rosa alla critica letteraria, alla cronaca parlamentare, frequentatrice assidua dei salotti mondani di Roma: intensa l'amicizia con Giuseppe Primoli, detto Gegé, animatore culturale dei salotti romani e parigini (per un quadro dell'ambiente culturale romano si veda Spaziani 1962).

Nel 1885 sposa Edoardo Scarfoglio: la cronaca dell'evento è redatta, per "La Tribuna", da Gabriele D'Annunzio, amico di Edoardo. Il matrimonio prefigura un sodalizio non solo amoroso, ma anche professionale: i due, infatti, avevano da poco fondato il "Corriere di Roma". Nel 1888, trasferitisi a Napoli, assumono la direzione del "Corriere di Napoli", già "Corriere del Mattino", che pubblicherà diverse opere di Gabriele D'Annunzio. Nel 1892 Matilde fonda con Scarfoglio "Il Mattino", di cui è condirettrice fino alla separazione dal marito nel 1903: la redazione del nuovo giornale conta le firme di Vittorio Pica, Ferdinando Russo, Corrado Ricci, con la corrispondenza da Roma di Riccardo Alt, Luigi Mercatelli e Andrea Cantalupi per la cronaca parlamentare, e si avvale della collaborazione, tra gli altri, di Francesco Saverio Nitti, Gabriele D'Annunzio e Giosue Carducci (per una storia degli esordi del giornale si veda Infusino 1982).

Nel 1904, insieme a Giuseppe Natale, fonda e dirige un nuovo quotidiano, "Il Giorno", che sarà pubblicato fino al 1927, anno della morte dalla Serao.

L'intensa attività giornalistica (scandagliata in De Nunzio Schilardi 1986) non distoglie la Serao dalla scrittura, anzi le fornisce materiale per i numerosi volumi da lei pubblicati, circa 80 tra romanzi, racconti e inchieste, nel corso degli anni.

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2. Giornalismo e letteratura

Già ai tempi del "Corriere di Roma" la Serao aveva creato una rubrica, "Api, mosconi e vespe", che, sotto vari titoli, accompagnerà l'intera sua carriera di giornalista: si tratta di brevi articoli dei più disparati argomenti, dal mondano alla cronaca nera, che ci danno però la misura di quella che sarà la cifra della sua scrittura. Dai racconti giovanili, che trattano soprattutto esperienze vissute in prima persona, come il racconto Telegrafi dello Stato (1884) che rievoca il suo primo impiego, ai romanzi degli anni Ottanta, riferibili al periodo vissuto a Roma, fino alle inchieste giornalistiche: gli ambienti in cui vive e che frequenta diventano per la scrittrice fonte di ispirazione, le esperienze materiale cui attingere per la scrittura. Le opere letterarie partono dal Naturalismo zoliano e attraversano il Verismo, per restituire un quadro dell'Italia, ma soprattutto della Napoli di fine Ottocento (si veda l'articolo di Frattarolo 1989); come lei stessa scrive in una lettera del 1877, a proposito del periodico "Farfalla", organo del verismo e della scapigliatura:

«Non mando nulla alla "Farfalla": il loro esclusivo realismo, non è il mio. Io intendo per realismo, la vita tutta, tutta, tutta con la sua poesia altissima, con la sua modesta prosa, coi suoi slanci generosi e con le sue meschinità reali - intendo la passione tumultuosa e gli amori soavi di Renato e Cherubina. Noi vediamo questi giovani in preda ad uno strano delirio: vogliono la vita e ne vogliono un solo lato, lo sporco, come i romantici ne volevano solo il poetico. Medesimo inganno - questa scuola è già decaduta. Nasce invece il realismo nel suo vero, nel suo ampio senso, lo studio dell'uomo come corpo e come spirito».

(Serao 1938a, pp. 405-406)

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3. La conquista di Roma

Gli anni passati con il padre a Roma, tra il 1882 ed il 1887, permettono alla Serao di frequentarne i diversi ambienti, ambienti che puntualmente, come accennato sopra, ritroviamo nei suoi scritti:

«Il mondo che frequento a Roma - è vero - è molto diverso da quello che frequentavo a Napoli. [...] So stare in silenzio ad osservare: so parlare a tempo, usando lo spirito fatuo dei saloni. Ed intanto in questa testa immobile, dietro questa fronte che rassomiglia a quella di tante fanciulle sciocche, ferve un pensiero profondo ed acuto, cammina, cammina l'idea, si accumulano documenti umani nell'inesauribile tesoro della riflessione. Io me la prendo a poco a poco questa Roma moderna: una parte di essa già mi appartiene. Queste damine eleganti non sanno che io le conosco da cima a fondo, che le possiedo nella mia mente, che le metterò nelle mie opere [...]».

(Serao 1938b, pp. 382-383)

Anticipato alla fine del 1884 sul "Capitan Fracassa" e pubblicato nel 1885 da Barbera, La conquista di Roma si colloca nel filone che viene definito "di ambiente parlamentare" (per una trattazione più esaustiva si veda l'articolo inaugurale di questa rubrica, sul n. 5, n.s. di MinervaWeb, e le relative indicazioni bibliografiche): ve ne ritroviamo infatti i temi principali.

«Il viaggio dell'eroe moderno che si sposta dalla provincia verso la capitale, dalla vecchia alla nuova struttura economica; i tentativi di integrarsi nella nuova società; la scoperta dei brogli elettorali e la corruzione del Parlamento; il giornalismo come quarto potere, sono temi largamente presenti in questi romanzi, arricchiti da tutta una serie di eventi piccoli o grandi, quali l'inaugurazione della Camera con la seduta reale, l'influenza delle donne e dei salotti sulla vita politica, i difficili rapporti tra elettori ed eletti, [...]».

(W. De Nunzio Schilardi, Introduzione, Serao 1997, pp. XVI-XVII)

Francesco Sangiorgio, giovane avvocato ambizioso, si reca a Roma con la medaglia di neoeletto deputato, risoluto a conquistare il potere e la gloria. La realtà però sarà diversa: innamoratosi dell'algida moglie di un ministro, esaurirà tutto il suo entusiasmo e, sconfitto, sarà costretto a dimettersi e a ritornare al suo paese, in Basilicata.

In un articolo del luglio 1885, scritto in risposta ad una recensione apparsa sulla "Cronaca bizantina" la scrittrice parla del suo romanzo:

«[...] Prima di tutto, io non credo che Roma sia conquistabile, da nessuno, per questa semplice ragione che in Roma stanno accampate, e armate l'una contro l'altra, più Rome repugnanti e nemiche. Ce n'è una archeologica [...]. C'è la Roma clericale, con la sua rocca, i suoi signori e i suoi vassalli. C'è la Roma italiana, attendamento tumultuario e provvisorio, bivacco di avventurieri in paese nemico.

Che significa dunque conquistare Roma? Dov'è quella potente e sapiente anima, abbastanza artista da raccoglier lo spirito della Roma morta, abbastanza clericale da imporsi alla Roma moribonda, abbastanza liberale da vincere in Roma neonata? [...] La conquista di Roma [...] poteva dunque essere la pazza presunzione d'un ambizioso provinciale come Francesco Sangiorgio, poteva essere il sogno momentaneo di un uomo mediocre, eccitato da una lunga e solitaria attivazione del proprio egoismo, ubriaco del primo successo o della prima apparenza di successo, e non più. [...] delle tre Rome, per Sangiorgio, non ne esiste che una sola, la più facilmente conquistabile, la Roma della politica, del giornalismo, degli affari. [...] Anche nel più alto furore dell'ambizione e della pazzia orgogliosa, egli non può sognare e non sogna che la conquista del potere e della popolarità politica, delle mogli dei ministri, del favore dei giornali. [...] Roma è stata, e sarà sempre la città della forza, della politica, e degli affari. [...] Ciò che la terrà sotto il piede conquistatore, sarà qualche potentissimo istituto di credito, ove clericali e liberali sederanno fraternamente intorno alla medesima cassa. E siate pur certo che anche l'archeologia verrà a patti coi milioni, se non vorrà vedere i suoi dominii scomparire sotto l'invasione delle Società edificatrici».

(M. Serao, Per la «Conquista di Roma», "Fanfulla della Domenica", 12 luglio 1885, p. 1)

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4. Dentro il romanzo

Il neodeputato Sangiorgio si avvicina a Roma in treno, dopo "dieci anni di battaglie, tenendo Roma nel cuore" che "lo avevano trasformato" (Serao 1997, p. 7):

«Dov'era Roma, dunque? Nulla si vedeva. E la inquietudine era così forte, che quando il treno cominciò a rallentare, l'onorevole Francesco Sangiorgio ricadde sul sedile, il cuore gli batteva sotto la gola, come se gli si fosse allargato per tutto il petto. Passando sul pavimento ferreo degli scambi, quelle scosse forti gli si ripercuotevano dentro, gli davano sul capo come tanti colpi di martello. [...]

Nessuno gli badava, al deputato Sangiorgio, fermo presso il muro; viaggiatori, impiegati, facchini andavano e venivano, senza curarsi di lui. Egli aveva sbottonato il soprabito, con un moto infantile, per mostrare la medaglina; aveva chiamato un facchino, due volte, ma quello era scomparso senza dargli retta».

(Ivi, pp. 10-11)

Nei giorni che precedono l'apertura della Camera, prende confidenza con il palazzo:

«L'onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca. Nel corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sopra il lucernario dell'aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno, scrivevano in certi libroni il catalogo generale delle opere che si conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante; essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava, sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse un'opera introvabile [...], pareva sempre che dovesse scomparire dentro il libro e restarvi schiacciato come un segnacarte. Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l'onorevole Sangiorgio non trovava alcuno; i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai, di matite, per gli studiosi, erano deserti.

In qualche angolo di stanza, innanzi a uno scaffale semivuoto, arrampicato sopra una scala, l'erudito deputato bibliotecario, il dantofilo paziente dalle sopracciglia nere, [...] rovistava fra i libri, furiosamente, con la passione per quella biblioteca che egli aveva tratta dal disordine in cui giaceva. [...]

Come gli amanti che non possono staccarsi dalla donna che amano, subendone il fascino dolcissimo, cercando dei piccoli pretesti per poter restare accanto a lei, così egli si tratteneva nei corridoi a guardare le carte geografiche in rilievo, nell'aula a studiare la distribuzione dei posti, in sala di letture a leggere i giornali, in biblioteca a leggere un libro qualunque, di cui poco o nulla gl'importava».

(Ivi, pp. 16-17)

Il neodeputato non torna a casa per il Natale: si aggira per Roma, incontra un collega e lo ascolta

«[...] lasciandolo discorrere e non parlando, continuando, nel silenzio che serbava da due mesi che era in Roma, quello studio profondo degli uomini e delle cose, che doveva essere una delle sue forze [...]

- Non si vede quel caldaione di Montecitorio - riprese il deputato toscano, con la voce diventata più aspra - è affogato tra le case; noi affoghiamo in esso. Un forno di cartapesta, dentro cui si cuoce lentamente, con una cottura disseccante. Temperatura da bachi che addormenta tutte le audacie e riscalda tutte le timidità che finisce per dare una dannosa cocciutaggine a tutti gl'irresoluti, e che solleva qualche pseudo-idea sotto il cranio dei cretini. Non si vede di qui il paese della politica, color di legno, come il signor Comotto ha voluto che fosse. Tutti gli abitanti di quel tamburone di cartone si agitano, gridano o tacciono, per una legge, per una leggina, per una ferrovia, per un ponte; più della legge, piccola o grande, più di ogni ferrovia e di ogni ponte, esser ministro, portare un'uniforme, sentirsi assordato dalla marcia reale nei paesi dove si arriva, avere per naturali nemici gli amici di prima, sentirsi dare del ladro dai giornali, vedersi aprire le lettere private da un segretario troppo zelante... e altre dolcezze simili. Vi sono dei disgraziati che desiderano di essere segretari generali! Uno di quei disgraziati sono stato io. Oh brutto forno che fai ridurre l'uomo come una fava secca, arso da un desiderio irrefrenato e consumato dalla inettezza di questo desiderio!».

(Ivi, p. 58 e 67)

Arriva finalmente il giorno del primo discorso alla Camera, su una nuova tassa sul sale:

«Un meridionale, avvocato: ecco quello che si sapeva. Dunque avrebbe declamato; la solita rettorica che i piemontesi odiano, i milanesi deridono, e i toscani disprezzano.

Invece l'onorevole Sangiorgio cominciò a parlare lento, ma uno una voce così sonora e virile, che si allargava in tutta l'aula e per cui tutti gli ascoltanti respirarono di soddisfazione. Persino le signore, che quasi dormivano pel calduccio, si riscossero, e nella tribuna della stampa, rimasta vuota dopo il discorso del ministro, i giornalisti cominciarono a ricomparire, riprendendo i loro posti. L'onorevole Sangiorgio preludiava con un esordio pieno di riverenza per lo illustre uomo che dirigeva la finanza italiana, e l'elogio non aveva nulla dell'adulazione brutale, era dato con una forma sobria e delicata. Fuggevolmente il parlatore accennò alla propria giovinezza, alla oscurità di colui che, costretto alla vita provinciale, volge gli occhi sempre verso Roma, dove ferve una continua e nobile lotta politica. Egli esaltò la politica, dicendola più grande dell'arte, più grande della scienza; in essa si compendiava tutta la storia dell'attività umana, e a lui l'uomo politico pareva il tipo supremo dell'uomo, apostolo e operaio, braccio e testa.

[...] quel richiamo alla sublimità dell'idea politica, quella specie d'idealità larga, a cui era portata una cose che nelle mani degli uomini diventa volgare, era piaciuto generalmente, e aveva fatto ringalluzzire una quantità di teste piccole. [...]

Questo discorso, che in altra occasione sarebbe passato come uno squarcio qualunque di letteratura, assumeva oggi una grande importanza; trionfavano con Sangiorgio i modesti e intelligenti deputati di Basilicata, che una strana fatalità teneva sempre lontani dal potere; trionfavano tutti gli avvocati, a cui par solo debba spettare il regno parlamentare; trionfavano tutt'i meridionali, in genere, a cui è sempre un pò lesinato il successo. La Camera, in certe ore di bontà, presa da un abbandono amoroso quasi femminile, si compiace di questi battesimi pieni di superbia e pieni di dolcezza».

(Ivi, p. 75 e 78)

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5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

Nell'articolo sono citati per esteso solo i testi non compresi nel percorso bibliografico.

Matilde Serao. Percorso bibliografico nelle collezioni del Polo Bibliotecario Parlamentare.

Si suggerisce inoltre la ricerca nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche delle due biblioteche

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