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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 10 (Nuova Serie), agosto 2012

Per una geografia storico-economica. L'Italia (parte seconda: il regno d'Italia)

industria1. I tempi del progresso economico dell'Italia

2. L'agricoltura: i vincoli alla crescita degli investimenti

3. L'agricoltura: dal liberismo al protezionismo cerealicolo

4. L'industria: il ruolo dell'innovazione tecnologica

5. L'industria: la domanda privata e pubblica

6. Lo sviluppo industriale dalla grande guerra al fascismo

7. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

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1. I tempi del progresso economico dell'Italia

Come s'è visto nel precedente articolo, l'Italia della prima metà dell'Ottocento costituiva un paese arretrato rispetto alle nazioni dell'Europa nord-occidentale, le quali potevano contare su una serie di condizioni più favorevoli alla conduzione delle attività produttive e mercantili. In epoca unitaria, tale divario è stato progressivamente recuperato dal nostro paese, ch'è giunto a collocarsi, in epoca recente, fra le prime potenze economiche mondiali; in questa seconda parte della trattazione ad esso dedicata vedremo però come sino alla seconda guerra mondiale la sua capacità di progredire sia stata ancora seriamente limitata da fattori di natura sia ambientale, sia economica, sia politica.

2. L'agricoltura: i vincoli alla crescita degli investimenti

Alla povertà dell'Italia ottocentesca molto contribuivano le condizioni in cui si svolgeva l'attività agricola. Come rilevato, tra gli altri, da Paolo Malanima (2002), l'Italia era caratterizzata per un verso da un'elevata densità demografica e per l'altro da una limitata disponibilità di risorse naturali. Questi due fattori facevano sì che il prodotto agricolo per addetto si mantenesse più basso che nei paesi dell'Europa settentrionale. La possibilità di mutare questa condizione sorse soltanto intorno al 1900, quando la comparsa dei fertilizzanti chimici e la crescente meccanizzazione delle attività contadine crearono inedite opportunità di far crescere la produttività del lavoro nei campi; l'applicazione delle innovazioni che stavano divenendo disponibili fu però rallentata dalle stesse condizioni di partenza che la rendevano necessaria, in quanto il basso livello delle rese ostacolava l'accumulazione dei capitali da parte degli agrari e dunque l'elevazione degli investimenti, mentre l'abbondanza e il conseguente basso costo della manodopera induceva i possidenti ad intensificare lo sfruttamento dei suoli soprattutto mediante l'incremento dell'apporto di lavoro alla terra.

Ad ostacolare il compimento di investimenti produttivi contribuì, forse, anche la sottrazione di capitali subita dall'agricoltura ad opera dello stato, che nei primi decenni di vita unitaria la gravò d'una pesante imposta fondiaria e offrì al ceto possidente la possibilità di acquistare i terreni di proprietà dei comuni e quelli confiscati agli enti ecclesiastici. Nel valutare il peso dell'imposta fondiaria, in verità, autori quali Camillo Daneo (1980) negano che esso risultasse eccessivo per la capacità contributiva del sistema produttivo agricolo; lo stesso Daneo ammette però che la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici - quantomeno nel Mezzogiorno, dove si concentrava la quota più consistente dei suoli posti in vendita - possa invece avere effettivamente svolto una funzione negativa sotto tale aspetto.

3. L'agricoltura: dal liberismo al protezionismo cerealicolo

Malgrado i problemi appena menzionati, i primi anni successivi al 1860 videro comunque uno sviluppo dell'agricoltura, favorito dalla politica commerciale liberista seguita dal governo, la quale ampliò le possibilità di commercializzazione delle derrate sui mercati esteri. Già negli anni ottanta, tuttavia, gli agrari vennero a trovarsi in difficoltà, a causa della rapida crescita delle importazioni cerealicole che si verificò a quell'epoca, generata dall'espansione della produzione granaria in alcuni territori extraeuropei. Come ricordano Cohen e Federico (2001), la crisi suscitò da parte del ceto possidente una richiesta di sostegno, che lo stato accordò nella forma di progetti di bonifica (1882), d'un alleggerimento dell'imposta fondiaria (1885) e soprattutto dell'applicazione d'un dazio sul grano (1887). I due autori rilevano che la scelta del protezionismo granario è stata generalmente valutata in termini negativi dagli storici, in quanto promuoveva a scapito di altre una coltura, quale quella cerealicola, che risultando poco redditizia in proporzione alla superficie impiegata e poco esigente dal punto di vista dell'apporto di lavoro non consentiva un'efficace valorizzazione dei fattori produttivi disponibili in Italia, paese povero di superfici coltivabili e ricco di manodopera in cerca di occupazione. D'altronde, va sottolineato che dopo il 1887 per l'Italia divenne difficile perseguire una specializzazione agricola nei settori in cui risultava maggiormente competitiva (le produzioni tipiche mediterranee, come l'olio e il vino), in quanto l'esigenza di proteggere il nascente comparto industriale dalla concorrenza straniera condusse, quello stesso anno, al varo d'una politica protezionista anche in campo industriale, la quale ebbe l'effetto, generando ritorsioni contro le esportazioni nostrane dei paesi da essa danneggiati, di bloccare lo sviluppo proprio di tali settori. In particolare, come spiega Luigi De Rosa (2004), la svolta protezionista determinò la rottura del trattato di commercio con la Francia, facendo venir meno, unitamente alle importazioni di manufatti originari di tale paese, anche il cospicuo flusso di esportazioni agricole diretto verso di esso, con pesanti conseguenze negative soprattutto per la viticoltura e l'olivicoltura meridionali.

Il regime protezionista, per la verità, venne meno agli inizi della prima guerra mondiale; ma dieci anni più tardi venne ripristinato, nell'ambito della più generale politica fascista volta al conseguimento dell'autosufficienza alimentare. A parere di Giuseppe Tattara (1973), all'origine di tale politica vi fu principalmente la volontà di riequilibrare la bilancia commerciale riducendo le importazioni agricole. Queste ultime, infatti, erano andate notevolmente crescendo a partire dai primi anni del secolo: un fenomeno che Rolf Petri (2002) spiega col fatto che in quella fase la produzione e il reddito industriale andarono espandendosi a un ritmo più sostenuto che in passato, determinando una crescita della domanda di beni alimentari e materie prime industriali di provenienza agricola cui l'agricoltura italiana non seppe far fronte con un altrettanto rapido incremento della propria capacità produttiva.

La chiusura alle importazioni doveva ovviamente essere accompagnata da una crescita della produzione interna. Secondo Tattara, l'obiettivo che il regime si pose fu quello di realizzare tale crescita elevando le rese dei suoli; nei fatti, tuttavia, ad essa contribuì in notevole misura l'ampliamento della superficie coltivata a grani, che però ebbe la conseguenza negativa di estendere la cerealicoltura anche su terre poco adatte (con effetti negativi, laddove ciò avvenne, proprio sul livello medio delle rese) e a scapito di colture di maggior valore, quali vino, frutta e ortaggi (con conseguente diminuzione della loro disponibilità, che si rifletté sui consumi alimentari dei ceti popolari e sulle esportazioni agricole).

Stanti questi elementi negativi, appare credibile la valutazione di Giuseppe Orlando (1969), secondo il quale la crescita della produttività agricola nel periodo 1881-1938 avvenne con grande lentezza. In effetti, v'è concordanza di opinioni fra gli storici sul fatto che sino alla seconda guerra mondiale l'agricoltura italiana, quantomeno se considerata nel suo insieme, sia rimasta poco progredita, caratterizzandosi per la modestia delle rese e il limitato impiego di capitali e tecnologie. Soltanto nell'area padana, tradizionalmente la parte del paese più avanzata dal punto di vista agriculturale, questo quadro negativo conobbe diffusamente delle eccezioni. Dal momento che a questa lenta crescita del prodotto agricolo fece riscontro un tasso d'incremento demografico sostenuto, fu inevitabile il sorgere d'un consistente flusso migratorio: stando ai dati forniti da Ercole Sori (1979), nel periodo 1861-1940 si ebbero più di 20 milioni di espatri, che condussero all'abbandono definitivo della madrepatria da parte di quasi 8 milioni di italiani.

4. L'industria: il ruolo dell'innovazione tecnologica

Un serio ostacolo allo sviluppo industriale del paese fu rappresentato in principio dalla carenza di materie prime. Come spiega Malanima, l'industria italiana era obbligata a procurarsi il ferro e il carbone di cui abbisognava per mezzo di importazioni e dunque a pagare per tali risorse un prezzo più elevato rispetto ai propri concorrenti dei paesi nordeuropei (dove esse risultavano invece ampiamente disponibili), risultando così penalizzata sotto il profilo dei costi di produzione. Dagli studi dello stesso Malanima e di Stefano Fenoaltea (2006) si evince però come questo problema si sia avviato a soluzione verso il 1900, per effetto di tre importanti trasformazioni: in primo luogo, l'evoluzione dei mezzi di trasporto consentì un progressivo abbassamento dei costi delle importazioni; in secondo luogo, la crescente influenza della ricerca scientifica sulle forme della produzione industriale (fenomeno di cui abbiamo già dato conto in un precedente articolo) conferì un'importanza sempre maggiore, ai fini dell'ascesa economica d'una nazione, alla capacità delle sue imprese di servirsi delle più moderne conoscenze tecnico-scientifiche, riducendo così l'importanza sino ad allora rivestita dalla dotazione di risorse naturali; in terzo luogo, tra i nuovi comparti industriali che sorsero all'epoca ve ne fu uno, quello idroelettrico, che permise all'Italia di sfruttare per la produzione di energia una risorsa di cui disponeva in quantità elevate, quale era quella idrica, e dunque di affrancarsi almeno parzialmente dalla sua dipendenza dal carbone straniero.

Per poter cogliere le inedite occasioni di sviluppo create dal progresso tecnologico era però necessaria una capacità di investire e innovare non facile da acquisire per la classe imprenditoriale d'un paese povero e arretrato quale era l'Italia del tardo Ottocento. Stando a quanto scrive Michelangelo Vasta (1999), la difficoltà che aveva il paese di produrre autonomamente innovazione fu aggirata tramite l'importazione in notevoli quantità di tecnologia estera, in forma di brevetti e di macchinari; secondo Peter Hertner (1984), un ruolo fondamentale in tale processo fu sostenuto dagli investimenti diretti di imprenditori stranieri, che impiantando attività nel nostro paese vi trasferirono le conoscenze tecniche che avevano acquisito nei paesi di provenienza. Malgrado ciò, Valerio Castronovo (1980) rileva un ritardo del sistema manifatturiero nostrano nell'adozione delle più moderne tecniche di produzione rispetto alle nazioni continentali. È difficile però valutare in quale misura questo ritardo sia scaturito dall'incapacità di tenere il passo dei paesi maggiormente progrediti e quanto sia invece dipeso da decisioni prese liberamente dagli imprenditori: al riguardo, appare interessante la tesi di Renato Giannetti (1998), per il quale l'Italia operò una selezione fra le nuove tecnologie sviluppatesi all'estero, rinunciando a quelle funzionali all'incremento della produttività del lavoro, in quanto l'elevata disponibilità di manodopera connotante il nostro paese, garantendo bassi livelli salariali, rendeva poco redditizi gli investimenti finalizzati alla loro applicazione.

Il ruolo preponderante assunto dall'imprenditoria straniera nell'introduzione di innovazioni tecnologiche testimonia le difficoltà che aveva quella nostrana nel reperire i capitali necessari a tale scopo. Anche sotto questo aspetto, comunque, i progressi non mancarono, grazie allo sviluppo del sistema bancario. In particolare, va segnalata - come fanno Cohen e Federico - la nascita nel 1894 della Banca commerciale e del Credito italiano, per mezzo dei quali le industrie italiane poterono avvalersi per la propria espansione di risorse finanziarie costituitesi all'estero (i due istituti erano infatti a capitale tedesco). Un contributo di pari rilevanza al finanziamento delle imprese, invece, non poté provenire dalla borsa valori, che come rileva Alessandro Aleotti (1989) rimase sempre di piccole dimensioni e dal funzionamento poco trasparente.

5. L'industria: la domanda privata e pubblica

L'espansione dell'apparato manifatturiero nazionale era ostacolata anche dalla ristrettezza del mercato interno. Di questo problema tratta in maniera analitica Franco Bonelli (1978), spiegando come la povertà della popolazione mantenesse bassa la domanda di beni di consumo, con effetti negativi anche sulla richiesta di beni intermedi e di semilavorati, poiché il basso livello dei consumi popolari era causa d'una lenta espansione degli investimenti dei produttori in macchinari e attrezzature, la quale a sua volta frenava lo sviluppo dei settori siderurgico e chimico che effettuavano la prima lavorazione delle materie prime. Lo stesso autore rileva come lo stato abbia cercato di compensare il basso livello della domanda privata tenendo elevato quello della spesa pubblica (in particolare della spesa rivolta alla realizzazione di infrastrutture, che aveva anche l'ulteriore effetto positivo di agevolare la commercializzazione dei prodotti manifatturieri su scala nazionale); è tuttavia da sottolineare come l'attivismo dello stato, richiedendo per il suo finanziamento il mantenimento d'un'elevata pressione fiscale, ponesse un ulteriore freno all'espansione dei consumi privati.

Oltre che per mezzo della spesa pubblica, il governo cercò di ampliare la domanda rivolta ai beni dell'industria nazionale gravando di dazi i manufatti d'importazione. La svolta protezionista fu realizzata in due tempi, fissando una prima tariffa nel 1878 e successivamente, nel 1887, ponendo in essere un regime ancora più restrittivo. Così facendo, l'Italia si adeguò a un indirizzo comune agli altri paesi europei in via di industrializzazione (i quali avevano la necessità di proteggere le proprie industrie nascenti dalla concorrenza di quelle - principalmente quelle inglesi - già affermate): tra chi ha analizzato il sorgere di tale orientamento possiamo citare Paul Bairoch (2003), che ne ha sostenuto la validità. Il modo in cui l'Italia ha concretamente applicato i principi del protezionismo è stato tuttavia criticato da studiosi come Stefano Fenoaltea (1973), per il quale la scelta di proteggere fortemente il comparto siderurgico andò a detrimento dell'espansione di quello meccanico, poiché fece lievitare il costo dei semilavorati di cui si serviva e dunque il prezzo finale delle sue produzioni.

6. Lo sviluppo industriale dalla grande guerra al fascismo

Una periodizzazione generalmente accettata dello sviluppo industriale italiano vede nei primi quattro decenni di vita unitaria una fase segnata da un limitato dinamismo, nel primo quindicennio del XX secolo una fase di relativa accelerazione e negli anni del primo conflitto mondiale il momento del vero e proprio decollo dell'apparato manifatturiero, consentito dalla forte dilatazione delle commesse militari. Una volta cessate le ostilità, tuttavia, le imprese che avevano beneficiato di tali commesse vennero a trovarsi in una condizione di eccesso di capacità produttiva, che le precipitò in una grave crisi, la quale coinvolse anche quegli istituti bancari loro creditori o azionisti. Spiega Petri che il regime fascista affrontò queste situazioni nell'immediato con una serie di salvataggi orchestrati dalla Banca d'Italia e successivamente tramite una politica volta a favorire l'afflusso di risorse finanziarie all'industria. Quest'ultima si concretizzò in un risanamento delle finanze statali che riducendo le possibilità d'investimento nei titoli di debito pubblico stimolò l'allocazione del risparmio nazionale e dei capitali esteri presenti nel paese in azioni e obbligazioni industriali. Alla stabilizzazione del sistema produttivo così conseguita fece seguito una sua successiva nuova crescita, la quale tuttavia fu frenata dalla limitata capacità espansiva della domanda interna, almeno in parte determinata proprio dalla politica fascista di sostegno all'industria: questa difatti fu realizzata anche mediante la compressione dei salari e lo spostamento del carico fiscale dalle imprese ai lavoratori.

A partire dal 1930 l'Italia fu coinvolta nella crisi finanziaria globale (di cui abbiamo trattato in un precedente articolo), che determinò l'arresto del flusso di investimenti esteri di cui aveva beneficiato nel decennio precedente e la chiusura alle importazioni dei principali mercati stranieri. Per effetto di tali avvenimenti, il sistema bancario e industriale venne nuovamente a trovarsi in condizioni di difficoltà, che lo stato affrontò mediante una politica di salvataggi ancora più estesa di quella già posta in essere: nel volgere di pochi anni esso pervenne così, come ricorda Vera Zamagni (2003), ad assumere il controllo delle maggiori banche del paese e ad avere quantomeno una presenza significativa (ma in diversi casi addirittura un ruolo dominante) in tutte le principali attività manifatturiere ed erogatrici di servizi. Le partecipazioni azionarie acquisite dallo stato vennero conferite a un ente appositamente creato nel 1933: l'Istituto per la ricostruzione industriale. Cohen e Federico scrivono che il governo tentò poi di rivendere tali partecipazioni, senza però riuscire a trovare acquirenti; lo stato dovette così trasformare l'IRI in ente permanente. Secondo Zamagni, questo fu un esito inevitabile, poiché la debolezza del capitalismo privato italiano (sviluppatosi tardivamente e dunque in presenza di potenze economiche già consolidatesi) costituiva una fenomeno strutturale, che la grande crisi aveva soltanto amplificato.

Un altro elemento distintivo della politica industriale degli anni trenta fu il ritorno al protezionismo, spinto sino alla ricerca dell'autosufficienza nell'ambito non soltanto dei prodotti manifatturieri, ma anche delle materie prime necessarie per la loro produzione. Studiosi sia liberali - come Ernesto Rossi (1955) - che marxisti - come Pietro Grifone (1945) - hanno giudicato negativamente questa politica, ritenendo che essa abbia ostacolato il progresso dell'economia nazionale. Secondo Petri, tuttavia, per il regime fascista il ritorno al protezionismo industriale costituì una scelta obbligata, in quanto il diminuito grado di apertura dei mercati mondiali, scaturito dal manifestarsi della grande crisi, imponeva di aiutare le imprese nazionali a compensare la perdita di sbocchi esteri accrescendo il proprio controllo del mercato interno e di rimediare allo squilibrio prodottosi nella bilancia commerciale in seguito al calo delle esportazioni riducendo in pari misura le importazioni.

Malgrado gli ostacoli posti alla sua espansione, per l'industria italiana il periodo tra le due guerre rappresentò senz'altro una fase di importante consolidamento. Al riguardo, risultano indicative le serie statistiche elaborate da Daniele e Malanima (2011), stando alle quali proprio allora il PIL industriale del paese superò per la prima volta quello agricolo: ciò sarebbe accaduto nel 1930 e negli anni 1934-43. Questo processo di crescita assunse però portata diseguale nelle diverse regioni, aggravando una situazione già in partenza caratterizzata da forti squilibri interni. In particolare, notevole risultò la frattura che venne a determinarsi tra l'Italia centro-settentrionale e quella meridionale: nel 1943 il PIL pro capite della prima equivaleva al 119 per cento di quello medio nazionale, mentre quello meridionale era pari soltanto al 67 per cento di quest'ultimo. Inoltre la stessa situazione del Centro-Nord si presentava al suo interno notevolmente differenziata, in quanto le iniziative imprenditoriali avevano teso a concentrarsi in sole tre regioni: il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Il PIL pro capite di questi territori aveva così raggiunto, sempre nel 1943, valori corrispondenti rispettivamente al 144, 147 e 161 per cento di quello del paese considerato nel suo insieme.

7. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

Il Regno d'Italia. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca. Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.

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