Il Presidente: Discorsi

Via D'Amelio, 15 anni dopo - In memoria di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta

Discorso pronunciato nell'Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Palermo

19 Luglio 2007

Autorità,
signore e signori,
ringrazio il dr. Lo Forte per l'invito che mi ha rivolto. L'ho accolto senza indugi non solo per rendere l'omaggio dovuto ai servitori dello Stato che oggi ricordiamo ma perché convinto che, ricordandoli insieme, avremmo compiuto come una sorta di viaggio a ritroso verso le ragioni, limpide ed esigenti, che ci debbono sorreggere nel nostro agire pubblico.

Voglio dirlo subito, in apertura di queste brevi considerazioni. Paolo Borsellino, gli agenti che lo scortavano, la lunga scia di loro colleghi uccisi dalla mafia e dal terrorismo, questi martiri della democrazia, ci richiamano al principale dei nostri doveri di cittadini ancor prima che di uomini e donne investiti di responsabilità pubbliche: onorare e rispettare lo Stato.

A poche settimane dal terribile eccidio di Capaci, mentre ancora ci s'interrogava sui mandanti e sulle eventuali complicità che avevano reso possibile quel terrificante fatto, ricompare all'opera una violenza intollerabile, uno strazio che colpisce tutto il Paese, una disperante visione simbolica scritta per sempre nelle nostre vite personali: lo Stato che salta per aria, l'ordine repubblicano sconvolto nella pretesa di una soluzione finale imposta dal terrore.

Ricordare dunque, come modo per far presente l'assente, secondo una logica che non è rituale ma diventa sostanza di cose vissute e da cui discende l'impegno a fare in modo se non di riparare, certamente di imparare e cambiare sé stessi e il proprio modo di agire partendo dalla piena consapevolezza del gesto: l'offerta di vite preziose, perse per le loro famiglie, i loro amici, l'ordine statuale. Perse apparentemente, perché la memoria le riporta costantemente a noi. Sotto forma d'esempio, di monito ai nostri limiti, di stimolo alle nostre cedevolezze, di correzione alla nostra debolezza.

Ricordare è anche rappresentare. E ogni rappresentazione è innovazione, costruzione, con i materiali della realtà, di un senso che illumini e soprattutto iscriva il ricordo e la rappresentazione in un disegno comunicabile agli altri, specie ai più giovani. Questo disegno non può che essere per tutti noi la Costituzione della Repubblica, la nostra unica patria comune. La Costituzione che è insieme manifesto di popolo e tavola di valori per coloro che assumono su di sé l'onore di servirla. Specialmente per magistrati e forze dell'ordine, in generale per i funzionari dello Stato che a lui prestano intelligenza, sentimenti e passioni. Ma lo è fortemente anche per coloro che ricevono dal mandato popolare l'investitura ad operare per il bene comune. Propriamente quell'interesse pubblico, vale a dire generale, che è il filo conduttore d'ogni politica democratica che non voglia degradare a demagogia od oligarchia.

Difficile compito: rispettare sé stessi, la propria vocazione e inclinazione eppure viverle sempre con la cura di non farne un assoluto. Viverle con il rigore e la passione che sono proprie degli uomini seri eppure anche con la flessibilità necessaria a garantire un componimento entro i limiti dell'interesse generale. Questo esempio mi pare ci venga dagli uomini che ricordiamo e dunque rappresentiamo nella nostre diverse posizioni pubbliche.

L'equilibrio costituzionale, bene prezioso della Repubblica, riceve dalla testimonianza di questi uomini, di Paolo Borsellino, di Giovanni Falcone, di tutti gli altri vostri colleghi e nostri riferimenti, un forte impulso. Di fronte alla prospettiva temibile della perdita della vita, di fronte alla percezione di una solitudine derivante dai cedimenti che toccano a volte segmenti delle istituzioni, essi non esitarono a mettere in gioco tutto, fino alla morte. Per questo motivo essi sono esemplari. Hanno portato a compimento fino in fondo il giuramento di fedeltà reso all'inizio del loro percorso umano e professionale. Un giuramento che tutti, a diverso titolo, in quest'aula e nelle aule parlamentari rendiamo. Al quale non tutti e non sempre riusciamo ad essere fedeli.

La fedeltà è un valore che nella nostra società tende ad attenuarsi. Una parola - un'altra - devitalizzata, mortificata, a volte irrisa. Riscattarla è un contributo prezioso all'innalzamento della nostra condizione etica. La fedeltà è il modo attraverso cui la funzione del magistrato, della persona investita di pubbliche funzioni, si esalta e diviene ciò che la previsione costituzionale indica.

Essere sobriamente ma sempre fortemente indipendenti significa obbedire al parametro costituzionale che prevede che ogni potere sia esercitabile solo con la connessa responsabilità; che il potere legittimo prevalga contro ogni violenza ed oppressione; che la società sia resa più sicura e dunque più libera. Questo hanno fatto consapevolmente i magistrati ed i poliziotti che hanno dato la loro vita al servizio della Repubblica. Per questa ragione, di verità, di fatto, non discutibile, noi li ringraziamo e rendiamo loro un doveroso omaggio.

Proprio ispirandosi al metodo, rigoroso e prudente, che fu di Paolo Borsellino nella sua azione professionale ed umana, occorre valutare con estrema attenzione tutti i nuovi indizi che emergono, per fare piena e completa luce sulle circostanze in cui maturarono quei tragici eventi, indagando senza alcun limite se non l'attenta ricerca della verità, per dare risposte al Paese che chiede ancora di sapere come e perché lo Stato possa essere stato attaccato, colpito anche se non vinto, da coloro che uccisero Borsellino e Falcone.

L'omaggio però ha senso e dura se produce cambiamenti e strutture adeguate alla rilevanza della sfida combattuta. In parte ciò è accaduto. Una nuova consapevolezza ha condotto alla forte reazione contro la mafia che ha avuto il suo apice nella cattura dei più importanti latitanti e che ha portato in carcere gran parte dei capi che hanno autorizzato e diretto l'azione contro gli uomini delle istituzioni e contro la stessa sovranità statale.

Il pericolo, però, rimane e la guardia va tenuta alta con un'adeguata azione di formazione civile e culturale oltrechè con le armi più affinate della prevenzione e della repressione. Sono chiare le indicazioni che vengono dal Procuratore Nazionale Antimafia e dalla Commissione che ha il compito di investigare sul fenomeno criminale più pericoloso che il nostro Paese è chiamato a fronteggiare. Senza risparmio di mezzi, senza compromessi, senza illusioni sulla apparente tranquillità. Del resto la mafia, come fenomeno dinamico di lotta spietata per il potere e l'accumulo illecito di ricchezza, purtroppo impiega una raffinata tecnica di ripiegamento nelle fasi in cui sembra vinta. Si nasconde, si ritira e prepara successioni e mutazioni che l'intelligenza pubblica deve conoscere e contrastare attraverso una professionalità vigile, alta e severa.

Da questa visuale la lotta alla mafia è la continuazione della lotta per la Liberazione ed è anche lotta per l'unità nazionale basata sulla collaborazione delle intelligenze e dei saperi di tutto il nostro Paese. Come lo è stato e deve ancora esserlo la lotta contro il terrorismo. Perché la Repubblica, pur aperta e accogliente, non può tollerare una sovranità divisa, una legalità accomodata, una rappresentanza inquinata. Questa è la lezione più duratura che ci viene dagli scritti, dalle parole sobrie e scarne, dal comportamento serio degli uomini che ricordiamo. La schiena dritta, la voce ferma, il carattere non cedevole.

E noi dobbiamo sapere che se il destino di un uomo è il suo carattere, bisogna fare in modo che il carattere non sia mai una condanna a morte. Una società che preferisca l'accomodamento, il lasciar andare, il quieto vivere, rinuncia di fatto alla vita, alla dignità, all'autorevolezza necessaria per l'esercizio delle funzioni comunitarie. Qui è la questione che oggi ci sta di fronte. Rendere alla funzione pubblica il suo onore permanente. Darle ordine e disciplina. Certezza e stabilità. Fare in modo che la mafia, le mafie, gli istinti del dominio e dell'arricchimento illecito non possano contare mai sull'indifferenza, il burocratismo, la rassegnazione. Che lo Stato abbia un piglio sereno e forte. Che i giovani possano riconoscersi in esso non come una potenza, ma come la loro stessa vitalità aperta sulla dimensione comunitaria. Per questo occorre una fiducia ben riposta. Se la fedeltà scarseggia, la fiducia non può che declinare come taluni sondaggi recentissimi ci segnalano. E se diminuisce o vacilla la fiducia nella autonoma capacità di rinnovamento e di rilancio dello Stato a chi si chiederà aiuto, sostegno, guida?

Attenzione, lo dico a noi tutti, l'ho detto ai giovani, proprio qui a Palermo: non verrà nessun eroe solitario a strapparci dal velo della sottomissione, quando essa divenisse la condizione usuale della nostra vita civile. Non ci sarà riscatto, come ha detto un grande siciliano, Luigi Sturzo, se non si coglieranno gli esempi e le occasioni, per darsi da sé stessi protezione, riparo e possibilità di sviluppo.

L'autonomia, questo bene prezioso, ha certo bisogno di buoni esempi, ma vive della quotidiana azione di ciascuno rispetto al dovere proprio. Lo sappiamo dalle letture giovanili che è sventurato un popolo che è costretto a vedere i suoi figli migliori cadere come eroi. Non per loro che hanno concluso la loro buona battaglia ma per se stesso, poiché in realtà chi invoca un evento eccezionale, una guida forte, è già rassegnato a perdere la propria libertà. E qui è il compito proprio ed irrinunciabile della politica come arte suprema, basilikè tekne come si diceva da queste parti già all'epoca della fondazione della politica come scienza.

Ridurre la pluralità ad unità, non attraverso l'imposizione autoritaria, ma con la persuasione, significa rischiare la comodità delle rendite, smascherare il cinismo dei ricatti, accettare la responsabilità del criterio della maggioranza e lavorare sui grandi temi perché il consenso vada anche oltre la dinamica, pur indispensabile, delle opposizioni polari.

La divisione conflittuale è un bene, perché mette in evidenza in modo trasparente le diverse opzioni generali di governo del Paese. E' un bene perché garantisce l'alternanza, unico antidoto all'assuefazione ai privilegi ed alla possibile corruzione del potere che permane. Tuttavia la dialettica politica è cosa ben diversa dalla guerra civile o dalla campagna elettorale permanente. E' anche ricerca di convergenza, sforzo per superare artificiose e speciose peculiarità che nascondono particolarismi e vedute di corto respiro.

Ritorna qui la riflessione sulle parole. Quante ne storpiamo, quante ne stravolgiamo piegandole a significati altri dal loro senso e quante, prelevandole da altri ambiti, ne scagliamo contro gli avversari sedimentando nell'opinione pubblica un'idea del conflitto politico miserevole se non volgare e sguaiato. Recuperare la misura - direi la moderazione - nei nostri dibattiti non produrrebbe solo maggior attenzione e rispetto ma, soprattutto, educherebbe gli attori di oggi e quelli di domani ad una politica mite - che non vuol dire buonista o sempliciona - ma responsabile, ovvero seria, sana, rigorosa.

A una collaborazione nell'interesse nazionale ci invita la stessa Costituzione quando descrive il modo di esercizio del potere e lo connota in termini di imparzialità amministrativa, di autonomia del giudizio, di disciplina nell'adempimento delle pubbliche funzioni. A questa necessità si è costantemente richiamato il Presidente della Repubblica, Presidente che rappresenta l'unità nazionale e che presiede l'organo di autogoverno dell'ordine giudiziario come pure il supremo consiglio di difesa. A significare che sulla politica internazionale, su quella di difesa e sicurezza e sulla indipendenza della magistratura, c'è un limite doveroso alla dinamica politica.

C'è qui una concezione liberale che non va mai smarrita. L'idea secondo cui la politica non è tutto e non tutto è politica, apre spazi a forme di solidarietà interpersonale e lascia aperto il giudizio sulla persona e sui suoi valori. Ammette quindi un'identità, ma non le riconosce mai il titolo a farsi universale. E tuttavia, proprio per la sua intrinseca laicità, la Costituzione invita a riconoscere e promuovere diritti e doveri che sono al di sopra e prima dello Stato stesso. La vita, la libertà, la difesa, la sicurezza, la dignità e la stima internazionali come strumento per togliere alla guerra il suo triste primato di regolatore dei conflitti. Per questo cercare, e trovare, la collaborazione su leggi fondamentali come ad esempio la riforma elettorale, quella dell'ordinamento giudiziario, quella della sicurezza si iscrivono a pieno titolo nella logica della democrazia governante. Cosa diversa dalla banale riduzione della politica al duello per la conquista del potere!

Occorre uno sguardo lungo. Un ancoraggio a principi condivisi. Il Paese lo reclama. Noi abbiamo il dovere di realizzare, sia pure imperfettamente, questo obiettivo. Così l'autorità cresce, il rispetto aumenta, la lezione della dignità e del coraggio producono frutti permanenti. Il tempo non è molto e tanto probabilmente ne abbiamo sprecato. Ma la pazienza e la lungimiranza, che appartennero a Paolo Borsellino in sommo grado, ci danno conforto. Il suo coraggio, la sua riservatezza, la sua schiva dolcezza che gli amici ed i familiari ricordano con acuto rimpianto, ci fanno da guida.

Se oggi ci inchiniamo alla serietà del dovere compiuto. Se rendiamo grazie all'onore difeso, se abbiamo la forza di riconoscere lo sforzo fatto e il sacrificio reso, dobbiamo essere conseguenti e batterci, ciascuno nel suo ordine e nella sua autonomia, per un Paese più giusto, più libero, più sereno.



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