Il Presidente: Interventi in Assemblea e in occasioni istituzionali

Le riforme. Quali e perché. Intervento al quarantennale dell''Istituto per la documentazione e gli studi legislativi

Intervento tenuto per il quarantennale dell'Isle (Istituto per la documentazione e gli studi legislativi)

13 Dicembre 2002

1. Leggi e riforme

L'ISLE è un istituto assai qualificato e prestigioso in cui esperti parlamentari e docenti di varie discipline insegnano la tecnica legislativa. So per esperienza, per averci provato un paio di volte, quali difficoltà questa tecnica comporti. Alle prese con un problema di legge, un parlamentare è come uno studente alle prese con un problema scientifico o un apprendista alle prese con un problema tecnico o empirico. Intanto deve aver chiaro il problema, capirne la sua dimensione, prevederne la sua soluzione. Poi, siccome la soluzione di un problema di legge è comunque una riforma, deve cercare di introdurre questa riforma in un organismo di provvedimenti esistenti e collegati, quelli dell'ordinamento. Poi ancora deve formulare la riforma.

Apparentemente, questa formulazione è un atto estrinseco, di espressione e scrittura. In realtà è qualcosa di assai più complesso. Riformare un corpo di leggi è come riformare un corpo scientifico: bisogna conoscerlo almeno in gran parte - certamente, almeno la parte "al contorno" della riforma - per sapere se essa sia una soluzione promettente del problema che si intende risolvere. Ecco perché l'addetto al drafting non è solo un tecnico, un amanuense colto; piuttosto, è un esperto, di diritto, di econonomia, di scuola, di ricerca, di sanità, e così via.

Parlando a studenti e docenti esperti di quest'arte, cercherò dapprima di dire la mia opinione sullla sua natura e sulla sua importanza. Poi passerò oltre, ad un tema - quello delle riforme istituzionali - per il quale non si è ancora al drafting in senso stretto, ma che, a mio avviso, ne richiederebbe uno prima possibile. Ne ho parlato più volte in varie occasioni e desidero parlarne ancora in questa, approfittando dell'atmosfera conciliante, tecnica, credo bendisposta, dell'uditorio esperto cui mi rivolgo. Non intendo interferire con il libero dibattito fra le forze politiche, che mi sembra, o così almeno spero, cominci a farsi strada. Ma un'opinione sine ira ac studio spero mi sarà concessa, naturalmente libero, chi mi ascolta, di condividerla o no. L'importante, io credo, è non lasciare il tema alla deriva. Se è vero che gli esperti del drafting sono esperti in questa o quella materia, sono certo di trovare un orecchio attento, magari critico ma non prevenuto, alle mie idee in materia di revisione della nostra Costituzione.

2. Il drafting fra tecnica e etica

La tecnica legislativa - il drafting - non è una semplice forma di espressione di comandi o precetti o atti di volontà del legislatore, quali solitamente sono le norme o le leggi. Preso in questo senso, il drafting sarebbe solo un abito esterno di un concetto, la "veste" di un atto normativo. In realtà, esso è qualcosa di più. Si tratta di un universo linguistico-concettuale, una forma di espressione tecnica, specifica e propria.

In quanto universo linguistico, esso è specialistico, al pari di altri universi linguistici, quelli scientifico, economico, etico, giuridico, estetico, ecc. Ciascuno di questi linguaggi si organizza in modi propri, con regole e forme di sintassi logica appropriata all'insieme degli oggetti cui si applica: il mondo esterno, per il linguaggio scientifico, i fatti economici, per quello economico, le espressioni di valore, per quello etico, e così via. Le forme e i modi logici del drafting sono adeguati all'universo dei comandi di legge.

Tipiche di questo linguaggio sono le sue funzioni. Alcune sono tipicamente performative: si tratta di quegli atti linguistici che fanno ciò stesso che dicono. Ad esempio, l'espressione "La legge è uguale per tutti" più che dire qualcosa di esterno ad essa, fa l'uguaglianza di tutti. Altre funzioni però sono tipicamente espressivo-comunicative: esse parlano di oggetti esterni al linguaggio. Così, poniamo, l'espressione "L'età pensionabile è di 65 anni" o l'espressione "I lavoratori hanno diritto a ferie retribuite" dicono qualcosa che compete, o meglio deve competere, a certe classi di individui.

Quando si tratti di questa seconda funzione, la regola prima è, a mio avviso, la seguente: dire chiaro. Propriamente, questa non è una regola linguistica, o non è in primo luogo una regola linguistica: è un dovere morale. Esso discende dal riconoscimento dell'altro come interlocutore e dal rispetto verso i propri simili. Chi dice chiaro cerca di porre l'altro al proprio livello e sé medesimo al livello dell'altro. Questo significa uguaglianza dei parlanti. Inoltre, chi dice chiaro e si fa intendere dall'altro si pone nella condizione di considerare l'altro come essere razionale in grado di comprendere il messaggio. Questo significa rispetto. Infine, chi dice chiaro ad un altro è disponibile a vedersi correggere dall'altro, ad entrare in contatto con lui, a considerarsi parte della stessa comunità. E questo significa apertura mentale, disponibilità, tolleranza.

Il dovere morale del dire chiaro si applica non solo alle espressioni ma anche alle argomentazioni. Chi argomenta chiaro, articola il proprio ragionamento in presupposti, premesse, ragioni, conseguenze, e così si espone all'altrui contrargomentazione, la quale può investire ciascuno di questi elementi.

Per tornare al drafting, il linguaggio legislativo dovrebbe essere più un linguaggio essoterico che un linguaggio esoterico. Non c'è niente di sbagliato in un linguaggio esoterico: tutti i linguaggi specialistici lo sono. Il fatto è che, per loro propria natura, i linguaggi esoterici non sono linguaggi democratici (nel senso di essere alla portata di tutti), mentre il linguaggio legislativo dovrebbe esserlo, in primo luogo perché si rivolge all'intera comunità. Una legge che dica oscuro non è una legge comprensibile, perciò è difficilente discutibile e criticabile, ha bisogno di "interpreti", di intermediari del senso, che ne esplichino il significato. Ma una legge con intermediari - quelli che la sanno scrivere e, quelli, talvolta gli stessi, che sanno capirla e applicarla e farla valere - è una legge che divide la comunità in due parti: i sacerdoti che sanno e il popolo che ignora, e perciò divide la comunità in coloro che hanno diritti e li conoscono e quelli che li hanno ma non se li riconoscono.

Ecco perché insisto sul dovere morale della chiarezza legislativa. Rispetto al quale dovere a me pare che la pratica dei nostri legislatori sia assai inadeguata, essendo ormai deprecabile costume scrivere leggi che sono incomprensibili ai più, ciò che non è una delle ultime ragioni del tradizionale senso di lontananza che molti cittadini avvertono rispetto alle proprie istituzioni.

Come si può essere certi di avere diritti se il linguaggio dei diritti è tale da richiedere che qualcuno (il ragioniere, il commercialista, il geometra, l'avvocato, ecc.) ce li spieghi? E come si possono far valere questi diritti se la loro interpretazione, attribuzione, applicazione è delegata ad una classe di interpreti? In una democrazia, si delega la fonte della legislazione, ma non si dovrebbe delegare l'interpretazione del suo contenuto. Una democrazia delegata siffatta si ammala e degrada facilmente e finisce col portare i cittadini al livello da cui essa intende invece elevarli, quello dei sudditi.

3. La Costituzione e la transizione

La scrittura chiara dei testi è dunque fondamentale, così come lo è la riscrittura aggiornata di essi quando siano trovati in ritardo rispetto alle nuove esigenze. E qui, passando alla seconda parte del mio intervento, vorrei richiamare l'attenzione su un testo che è fondamentale per tutti, la nostra Costituzione.

Che sia un testo di mirabile chiarezza nessuno può negarlo. Soprattutto nella prima parte, che è quella etico filosofico politica che compendia la cornice dei nostri diritti ed è la matrice delle nostre leggi, essa conserva una lapidaria austerità linguistica che fa onore a chi la scrisse. Se oggi, dopo cinquanta anni, la si trova, soprattutto per la seconda parte, quella delle istituzioni, non sempre adeguata alle nostre esigenze di una democrazia che, da incipiente qual era, si è affermata e radicata e consolidata nelle nostre coscienze, ciò non riguarda le espressioni, ma, da un lato, i concetti cui tali espressioni si riferiscono e, dall'altro, le necessità nuove che si manifestano.

La principale di tali necessità è quella della democrazia immediata, quale è tipica di altri paesi europei ed occidentali. Si tratta di quella democrazia che sposta il baricentro delle decisioni più sull'asse elettore-Parlamento-Governo che su quello elettore-partiti-Parlamento. Immediata può dirsi quella democrazia in cui il potere decisionale spetta al popolo, il quale in un giorno prefissato (il giorno delle elezioni) lo trasferisce per un tempo prefissato (una legislatura) a chi esercita il potere esecutivo (il Governo), mentre affida ai suoi rappresentanti (i parlamentari) il còmpito, gli uni (l'opposizione) del controllo sugli atti del governo, affinché esso non tracimi dai limiti democratici, e gli altri (la maggioranza) del guardiano del programma sulla base del quale il governo è stato investito dagli elettori. L'immediatezza, in questa democrazia, consiste in ciò: che il giorno delle elezioni è lo stesso della nascita del governo, la vita del governo è la stessa della durata della legislatura, la tenuta del governo è legata dal suo rapporto fiduciario con gli elettori.

Rispetto a questa forma di democrazia immediata, l'Italia, dopo le innovazioni, soprattutto elettorali, dei primi anni '90, si trova ancora nella fase che è stata definita della "transizione incompiuta", cioè del passaggio non ancora completato da una forma e un insieme di istituti e istituzioni quale disegnata dai Padri costituenti ad un'altra forma che è diffusamente avvertita come più consona alle esigenze di un contesto nazionale e internazionale diverso.

Le ragioni della incompiutezza sono ben note e sono state analizzate molte volte. Citiamo alcuni aspetti tra i più rilevanti di questa evoluzione che non ha ancora trovato il suo punto definitivo organico di approdo. Essi alludono tutti ad una tensione che si verifica tra situazioni di fatto, che sono dati ormai storicamente affermati, alcuni anche affermati per via di legge, e situazioni di forma, che sono istituti di diritto che danno forza di legge e razionalizzano le situazioni di fatto.

Primo aspetto. Nelle ultime tre elezioni politiche - e in modo particolare nelle elezioni del 2001, quando i nomi dei leader delle due principali coalizioni erano stampati sulla scheda elettorale - abbiamo avuto una investitura popolare diretta del Premier, e però questi è ancora, secondo la Costituzione vigente, un Presidente del Consiglio nominato dal Presidente della Repubblica e investito della fiducia dei due rami del Parlamento. Così, mentre in fatto il rapporto sostanziale di investitura e fiduciario va direttamente dagli elettori al Presidente del Consiglio, in diritto, ad esso si aggiungono quelli del Presidente della Repubblica e del Parlamento. In fatto, la domanda: "chi investe chi?" ha una risposta semplice e lineare: il popolo; in diritto, la risposta è assai meno diretta.

Secondo aspetto. Da due elezioni, abbiamo l'investitura diretta dei Presidenti delle Regioni, per questo, e per i loro poteri, detti anche, impropriamente, "Governatori". Per essi e per i Consigli regionali eletti contestualmente vale il principio simul stabunt, simul cadent. Questo principio, essenziale per la stabilità delle giunte regionali e poi per la trasparenza delle responsabilità politiche, non vale però, a causa del rapporto fiduciario non rettilineo, per il Governo e il Presidente del Consiglio. Ne deriva che egli è meno forte dei governatori della Repubblica e che l'intero assetto è sbilanciato: la periferia è più forte del centro.

Terzo aspetto. Con una legge costituzionale del 2002, si è introdotto ciò che più o meno correttamente si chiama un ordinamento federale della Repubblica, già con la formula di cui all'art.114 Cost. "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato", e con una notevole devoluzione di competenze dallo Stato alle Regioni. A questo federalismo corrisponde però ancora un bicameralismo perfetto, sì che al peso della periferia viene a mancare il contrappeso non tanto dell'unità nazionale, la quale è ancora garantita dall'articolo 5 della Costituzione e dalla funzione primaria del Presidente della Repubblica, ma di una istituzione centrale in cui i poteri regionali siano rappresentati e raccordati con quello statale.

Quarto elemento. Da tempo ormai si è affermato, durante varie elezioni a partire dal 1994 e nella consapevolezza diffusa dei cittadini, una forma di bipolarismo fra coalizioni, alla stregua di altre democrazie europee, ma a questo bipolarismo politico non corrisponde neppure un bipolarismo parlamentare. Può accadere così che partiti che sono stati bocciati dagli elettori riescano, per via regolamentare, a far nascere gruppi, o addirittura si costituiscano gruppi che non corrispondono, almeno in quella forma, a partiti che si sono presentati alle elezioni.

4. I disagi della transizione

L'incompiutezza della transizione rappresenterebbe solo una carenza, un comprensibile ritardo di aggiornamento ancora tollerabile, se non creasse diversi tipi di disagi che lo rendono invece, col passare del tempo, ulteriormente non sostenibile.

Intanto esistono disagi istituzionali. Quando un presidente di assemblea deve decidere se assecondare o meno una certa agenda politica del governo, egli assume, indipendentemente dalla sua volontà, un ruolo improprio. In mancanza di norme costituzionali o regolamentari, o addirittura in presenza di norme regolamentari che gli attribuiscono un potere specifico allorché non vi sia unanimità, egli rischia di diventare, volente o nolente, l'arbitro della politica di governo, e dunque un co-decisore politico. Allo stesso modo, quando un Presidente della Repubblica è costretto da qualche circostanza a far uso del suo potere di "esternazione" per richiamare l'attenzione delle forze politiche su questo o quel problema, anch'egli rischia di passare dal ruolo istituzionale di garante o di rappresentante di tutti al ruolo politico di parte, perché qualunque esternazione relativa a qualunque problema implica una scelta politica, ancorché prudente, saggia, ponderata.

Si osservi che non è in questione il ruolo delle persone, la loro preoccupazione sincera, la bontà delle loro intenzioni. Ciò che piuttosto è in questione sono le regole. Se queste non sono ben definite e se la situazione è tale da richiedere interventi esterni, ad esempio perché le forze politiche sono bloccate, anche l'intenzione della persona più retta rischia di essere portata nella fornace del dibattito politico. Ecco la vera ragione per cui non si dovrebbero mai coinvolgere i responsabili delle istituzioni, né per chiederne l'intervento, né per biasimarlo o apprezzarlo: i vertici delle istituzioni non dovrebbero mai essere coinvolti, proprio perché, una volta eletti, la loro funzione esula dal rapporto fiduciario politico.

Il disagio istituzionale dell'incompiutezza della transizione non è l'unico. Ad esso si aggiunge il disagio politico. Il più scottante è quello del bipolarismo politico non regimentato compiutamente da un bipolarismo parlamentare. Può accadere così che un provvedimento nell'agenda politica del governo faccia fatica ad essere approvato perché il potere di interdizione dell'opposizione, talvolta anche di piccoli gruppi di opposizione, con appelli pienamente legittimi ai regolamenti parlamentari, riesca a bloccarlo per parecchio tempo. L'inconveniente maggiore di questo stato di cose non consiste tanto nell'ostruzionismo, che è una forma di comportamento parlamentare tanto vecchia e usata quanto sono vecchi i parlamenti, piuttosto consiste nel fatto che l'ostruzionismo, se rallenta il percorso di un provvedimento, di fatto ne impedisce anche la discussione e la stessa possibilità di emendamenti: di fronte all'ostruzionismo, mentre la maggioranza fa quadrato sul proprio testo, talvolta sbagliando per eccesso di pervicacia, l'opposizione non riesce a rendere visibili le proprie ragioni e la propria proposta alternativa.

Si deve poi aggiungere - ed è un altro disagio politico della transizione incompleta - che il bipolarismo non è soltanto una questione istituzionale, parlamentare, regolamentare. È anche una questione culturale. Il bipolarismo è tale quando un polo riconosca l'altro e quando l'altro, pur opponendosi con forza alle misure dell'uno, non concepisca nella sua politica una fuoriuscita dal sistema democratico, dalla cornice comune in cui entrambi regolano il gioco della propria alternanza. In questo senso, il bipolarismo è come la democrazia. Esso è più di un insieme di istituzioni formali: è un abito, un costume, una tradizione sostanziale di princìpi, regole, valori non scritti che però hanno più forza, proprio perché consuetudine e abitudine, delle norme scritte.

La circostanza storica che la democrazia non si può esportare semplicemente esportandone o imponendone i suoi istituti spiega perché anche il nostro bipolarismo non è merce immediatamente fabbricabile e consumabile: la cultura bipolare è ancora giovane in Italia ed è soprattutto nuova rispetto ad una lunga tradizione di accordi, connubi, consociazioni fra forze politiche eterogenee, spesso use ad escludersi radicalmente o, all'estremo opposto, a combattersi solo di facciata. Grava su ciò anche una concezione ancora diffusa della democrazia come accordo armonico di tutti i partecipanti piuttosto che come controllo dei governanti da parte dei governati (o della maggioranza da parte dell'opposizione).

5. I costi della transizione

Ma oltre a questi disagi, ci sono anche i costi della transizione da completare. Questi costi nascono da una catena di circostanze in cui un anello tiene il successivo ed è legato al precedente.

La mancanza di governi di legislatura in forza di legge produce instabilità politica endemica. Questa non dipende da scarti numerici fra maggioranza e opposizione: si può avere una maggioranza numerica forte e una maggioranza politica debole, a causa della non omogeneità della coalizione non vincolata da poteri di deterrenza contro il suo scioglimento.

La instabilità politica, a sua volta, produce l'inefficienza delle decisioni. In situazioni di guida debole, queste diventano lunghe, faticose e incerte. La mediazione spesso assorbe gran parte delle energie e questo spreco va a scapito dell'azione di governo, che può invece essere chiamato a decisioni rapide.

Decisioni frenate e inefficienti producono, a loro volta, un rallentamento, se non un blocco, dei provvedimenti più importanti, quelli che richiedono più forza e coraggio politico e maggiore resistenza all'urto dell'opposizione e dei ceti sociali. Può accadere perciò che proprio le misure più significative che sono alla base di un programma di governo e sono comunque considerate indispensabili avvertano più di altre l'azione di un freno, soprattutto da parte di gruppi politici minori della coalizione di maggioranza.

Sempre a catena, questa circostanza induce i governi a misure più facili o su cui più facile è la negoziazione o la "concertazione", come si dice con una terminologia che ancora si riferisce ad una pratica che, nella maggior parte dei casi (quelli cioè in cui non siano coinvolte riforme di cornice, ad esempio quelle istituzionali), non ha più ragion d'essere in un sistema bipolare. E si sa che spesso le misure "concertate" sono proprio le più costose e spesso le meno efficienti.

Insomma, la mancata affermazione istituzionale della democrazia immediata comporta anche la mancata affermazione della democrazia decidente. Si decide se si è forti e, come ho già detto, si è forti se, dopo l'investitura elettorale, lo si è in forza di legge, non di soli numeri.

A questi costi, che sono in primo luogo politici ma indirettamente anche economici, si devono aggiungere quelli finanziari in senso stretto. Il sistema federale appena iniziato ce ne offre un esempio. Non solo si moltiplicano senza autentico controllo i centri di spesa (quelle per il personale e logistiche sono le più appariscenti), ma la pratica del trasferimento delle risorse ottenuto attraverso la pressione dei "governatori", solitamente sempre uniti nelle circostanze delle richieste di maggiori fondi, rischia di mettere a rischio le compatibilità di bilancio. Lo Stato devolve, ma non si alleggerisce e non risparmia per quanto devolve. E i soggetti interessati diventano istituzionalmente spuri: i "governatori" si fanno sindacalisti delle loro esigenze, e il Governo diventa la controparte. Cedere o resistere dipende da quanto si è forti da una parte e dall'altra.

Né c'è autentico controllo sui costi finanziari delle devoluzioni, perché, dopo che la sede della contrattazione è diventata un "tavolo", cioè una sede quasi privata senza vero rilievo istituzionale, neppure il Parlamento può realmente intromettersi, chiamato com'è, il più delle volte, a ratificare il protocollo del tavolo. Così, il Parlamento perde peso, i presidenti di regioni si sindacalizzano, il governo si "privatizza" e la finanza pubblica diventa a rischio.

6. Una riforma del Regolamento del Senato

Questo stato di cose non può ancora durare a lungo, perché ne va di mezzo l'efficienza complessiva del Paese, la sua competitività, la sua funzionalità.

Ho richiamato da tempo l'esigenza di modificare almeno il Regolamento del Senato per adeguarlo all'epoca del bipolarismo e ai criteri dell'efficienza dell'azione di governo e di visibilità dell'azione dell'opposizione. Sono perfettamente conscio che un Regolamento è uno strumento minore su cui operare: sta all'esito della corsa come la frusta sta al cavallo. Ma, come una frusta più pungente può indurre il cavallo più pigro a correre maggiormente, così una riforma del Regolamento può avere un effetto prodromico e di trascinamento sull'assetto istituzionale da conseguire. Se quella riforma va in porto e se salva i criteri per cui è pensata, allora, essendo pensata e modellata su istituzioni a venire, pur senza ingabbiarle rigidamente, essa può trascinare tali istituzioni.

Così, uno statuto del governo e della sua maggioranza in Parlamento e uno statuto dell'opposizione richiameranno il consolidamento del bipolarismo. Divieti di costituzione di gruppi parlamentari fittizi ugualmente andranno nella direzione del sistema bipolare. Tempi certi per l'approvazione delle leggi di iniziativa governativa rimanderanno ai poteri del Premier e del Governo. Uno statuto dell'opposizione richiamerà la democrazia dell'alternanza. Il poter del leader dell'opposizione di convocare il Premier in Parlamento rafforzerà la funzione di controllo della minoranza e renderà visibile la sua linea di alternativa al Governo. E così via.

Come si noterà, in queste linee di riforma non sono previsti poteri speciali per il Presidente. Non si tratta di una dimenticanza, ma di una scelta.

Per l'agenda politica, il Regolamento del Senato affida tutto alla Conferenza dei Capigruppo. Qui, nonostante le proposte di calendario del Presidente, tutto è affidato alla unanimità, e, in mancanza di essa, tutto è affidato alla maggioranza in Aula. Salvo l'iniziale suggerimento che in parte è a sua discrezione, il Presidente non ha particolari poteri politici.

A differenza di quello del Senato, il Regolamento della Camera è di tipo presidenziale, dopo le modifiche della XIII legislatura, introdotte ad hoc per affidare al Presidente un potere di sostegno alla maggioranza. La differenza è notevole: al Senato, il Presidente può poco e, contro la maggioranza, praticamente nulla. Alla Camera, in mancanza di unanimità, il Presidente invece può quasi tutto. Il calendario dei lavori non va ai voti in Aula; dopo la discussione, va alla decisione esclusiva, certo ponderata ma comunque esclusiva, del Presidente.

La scelta di non seguire questa strada ha una ragione istituzionale. Decidere il calendario dei lavori è decidere la, o almeno influire sulla, agenda politica del Governo. Ma un Presidente di assemblea che abbia potere regolamentare di decidere sull'azione del Governo, più che il capo di una istituzione chiamato ad assicurarne il buon funzionamento, diventa un soggetto politico. E questo moltiplica i rischi di sovrapposizioni e di sovraesposizioni istituzionali. Nonché le occasioni di confusione: chi porta la responsabilità davanti ai cittadini dell'adozione di certe misure, in certi tempi? Un cittadino elettore è chiamato ad eleggere un governo e propri rappresentanti. A questi soltanto dovrebbe imputare fatti e misfatti, non a un Presidente di assemblea che è fuori dal circuito fiduciario e perciò figura di garanzia. Insomma, in un sistema bipolare in cui il Regolamento assicuri statuti alla maggioranza e all'opposizione, il Presidente di assemblea dovrebbe diventare uno speaker neutrale senza autentici poteri politici.

7. Le riforme istituzionali

Passo ora a considerare le riforme delle istituzioni che quella del Regolamento dovrebbe trascinare. Ne considero tre, perché, su quella della giustizia, che a mio avviso è ugualmente urgente e necessaria, dovrei fare un discorso a parte.

Federalismo. Il più è stato scritto con la riforma del titolo V della Costituzione. Che si sia trattato di una scrittura frettolosa lo si vede da qualche gattino cieco che già sta producendo, oltre che dal fatto che la riforma sembra non aver avuto padri, almeno padri affettuosi o fieri abbastanza da difenderla con convinzione. Tutto sommato, questo è buon segno, perché può preludere ad un ripensamento generale.

In particolare, il nuovo art. 116, terzo comma, è una spina nel fianco dell'unità nazionale. Esso dice che "forme e condizioni particolari di autonomia", comprese alcune relative a materie di pertinenza eclusiva dello Stato come le "norme generali sull'istruzione", possono essere devolute alle Regioni con una legge ordinaria da approvarsi a maggioranza assoluta, la stessa maggioranza cioè che sostiene un governo. Se si considera la quantità e qualità di materie (oltre alla scuola, ricerca, salute, infrastrutture, eccetera) che, in base a quell'articolo, così possono essere devolute a ciascuna regione che ne faccia richiesta, e la norma sul federalismo fiscale che a tale articolo dà sostegno (art.119 Cost.), c'è da chiedersi se nel nostro ordinamento non sia entrato, senza eccessivo dibattito e approfondita consapevolezza, un diritto, se non di secessione, certo di autonomia tanto forte da rasentare la separatezza.

La spina dell'articolo 116 per ora non punge, ma potrebbe farlo. E perciò, nel mentre ci si appresta ad una discussione aspra su forme nuove di devoluzione (peraltro minori e accessorie rispetto a quelle già previste, come è il caso della "organizzazione scolastica"), sarebbe opportuno ripensare l'intero Titolo V, armonizzando il vecchio (ancorché recente) ordinamento con quello che ci si appresta ad approvare, cercando di trovare un equilibrio tra funzioni rigorosamente centrali e altre che sono trasferibili, e mettendo insieme un federalismo che sia solidale e, almeno in partenza, equilibrato. Se è impossibile fermare il treno federale ed è impossibile che, una volta arrivato, esso non abbia aspetti competitivi, come da qualunque parte il federalismo è, non è però impossibile, e comunque non è augurabile nel nostro Paese, che si affievolisca il senso dell'appartenenza ad un'unica nazione e che la competizione crei aree irrimediabilmente svantaggiate rispetto alle più prospere. Non tutto, va detto con chiarezza ai federalisti, dipende dal carattere delle popolazioni.

Bicameralismo. Il vero federalismo equilibrato lo si realizza con un Senato federale della Repubblica. È lì che si valutano le compatibilità e si realizzano le politiche solidali e d'insieme. Ed è lì che le autonomie si differenziano all'interno di uno Stato unitario. La tenuta dell'unitarietà non dipende dalla quantità di devoluzioni. Lo Stato può anche devolvere molto, ma per farlo e tenere unito un quadro d'insieme ha bisogno di una istituzione di chiusura. Credo sia più utile impegnarsi a favore di questa istituzione - ripeto: un Senato federale della Repubblica - che dividersi e accapigliarsi sui quanti in più o in meno da devolvere. Non è la misura dei quanti devoluti ciò che più conta, ma il metro unitario che li contiene tutti.

Forma di governo. Che l'attuale sia superata nei fatti i fatti stessi lo dimostrano. La pratica elettorale dice che i cittadini sono chiamati - e ancor più lo sono stati nelle elezioni del 2001 - ad indicare o designare o, comunque si voglia dire, a scegliere o eleggere il Presidente del Consiglio. In una situazione siffatta, lo stesso potere del Presidente della Repubblica, dei partiti e dei Gruppi parlamentari si riduce: le consultazioni per la prima formazione del Governo, che, coerentemente con la pratica elettorale, già avvengono per coalizioni, non sono altro che la presa d'atto di un risultato e di una volontà popolare, perché il leader delle due coalizioni è noto prima e così lo è il premier, in caso di vittoria. Nella sostanza, ciò significa che il rapporto fiduciario si è spostato dall'asse Parlamento-Governo a quello elettori-Governo.

Occorre adesso completare istituzionalmente questa pratica, dando forma alla sostanza. Lo si può fare in vari modi, secondo i modelli più accreditati e consolidati nelle democrazie occidentali: con il Presidenzialismo (come negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell'America Latina), con il semi-Presidenzialismo (come in Francia), con il Premierato (come in Inghilterra, Spagna, Svezia e altrove). Ho già espresso una mia preferenza - che ne corregge un'altra che ho sostenuto in tempi passati (rispetto all'esportazione del Presidenzialismo americano sono perciò un "pentito") - per il Premierato, una forma di governo in cui al Primo ministro eletto (meglio: indicato o designato o come si vuole, comunque collegato ai candidati nei collegi uninominali e alle liste proporzionali) corrispondano alcuni poteri fondamentali effettivi (che poi sono gli stessi dell'ultimo sindaco o presidente di regione d'Italia), e cioè la nomina e revoca dei ministri e il potere di sciogliere il Parlamento in caso di sfiducia o di crisi. Quando fosse accompagnata, anche per via costituzionale, dalla previsione del leader dell'opposizione con adeguati poteri di controllo, questa forma di governo avrebbe a suo favore la maggiore facilità, perché accompagnerebbe e costituzionalizzerebbe una evoluzione in atto del sistema politico, la minore intrusione nella Costituzione vigente, la previsione di un Presidente della Repubblica in funzione di rappresentante dell'unità nazionale e anche di garante (in primo luogo, garante del rispetto della sovranità popolare nei casi di crisi o di tentazioni di rovesciamenti di alleanze).

Quale che sia la direzione che si voglia perseguire, è importante aver chiaro e tener fermi gli obiettivi che si intendono raggiungere. I principali, a mio avviso, sono i seguenti: il bipolarismo, la stabilità politica, l'efficacia delle decisioni di governo, il ruolo non marginale dell'opposizione, l'etica della responsabilità politica. Questi obiettivi sono vantaggi che oggi sono affidati ad una aleatoria sorte politica e alle vicende altrettanto aleatorie e imprevedibili legate all'evoluzione del sistema dei partiti. Dobbiamo apprezzarli e legarli a più solidi vincoli istituzionali. La revisione della forma di governo serve proprio a questo.

8. Discorso sul metodo

Per fare queste riforme, ormai tanto mature da essere quasi operative nei fatti, nella scorsa Legislatura fu istituita una Commissione bicamerale. Fallì, e le ragioni del suo fallimento sono ancora materia di disputa politica oltre che di analisi dottrinale. Si può cambiare metodo e forse fare meglio e più rapidamente, soprattutto se non si ha l'ambizione che ebbe la Commissione bicamerale di riscrivere quasi tutta la seconda parte della Costituzione. Naturalmente, procedendo per la via prevista dall'art. 138 Cost., si deve avere uno sguardo d'insieme, conoscere e prevedere l'esito finale, che deve essere armonico e ben equilibrato. La procedura "passo dopo passo" non è necessariamente una procedura "a pezzi e bocconi", se c'è saggezza, responsabilità, volontà. Né la normale via parlamentare, con le quattro letture di commissione e le quattro letture di aula, ha niente di sospetto o di nascosto: tutto si può e si deve fare alla luce del sole, con la disponibilità di tutti, l'ascolto di tutti, il rispetto di tutti.

Le riforme costituzionali - la riforma del Titolo V lo dimostra - non si dovrebbero fare con maggioranze ristrette né con maggioranze coincidenti con quelle di governo, perché solo se la maggior parte delle forze politiche le condividono esse hanno poi speranza di attecchire, durare, dare frutti. Non possiamo pensare, e comunque non possiamo tollerare, che ad ogni cambio di legislatura e di maggioranza cambi la Costituzione. Naturalmente, nel cercare la più ampia convergenza possibile - frutto della maggiore disponibilità consentita -, non si può neppure concedere un diritto di veto ad alcuna forza politica. Il confronto, il reciproco riconoscimento, e soprattutto la consapevolezza dell'importanza del problema, sono essenziali.

Nel prendere atto di questi problemi, maggioranza e opposizione dovrebbero avere la forza dell'umiltà e riconoscere le proprie singole impotenze. La maggioranza non può solo battere il pugno sul tavolo, contando sulla forza dei numeri; l'opposizone non può solo alzare la voce nei microfoni.

Con le grida, da una parte e dall'altra, non si convince nessuno e si diventa tutti sordi. Ma se si assorda il Paese, nessuno verrà più ascoltato, e un Paese sordo è un paese che rimane indietro nella comunità dei suoi simili. Parlando ad allievi ed esperti di tecnica legislativa, ben sapendo che non solo di tecnica legislativa si tratta, chiuderei allora così: per le riforme istituzionali è arrivato il tempo di passare dalle grida al drafting.



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