Atto n. 4-07462

Pubblicato il 13 ottobre 2022, nella seduta n. 466

LANNUTTI, ANGRISANI Luisa - Al Ministro dell'economia e delle finanze. -

Premesso che, per quanto risulta agli interroganti:

tra gli usi, abusi ed ordinari soprusi perpetrati dalle banche a danno dei correntisti, la più comune e ricorrente è quella di evitare o ritardare la chiusura dei conti correnti, anche dopo l'ordine scritto dei clienti, per lucrare interessi passivi e spese di gestione, con analoga imposta di bollo statale, dagli stessi incolpevoli correntisti. Si tratta di una vera e propria piaga, denunciata da migliaia di correntisti alle associazioni dei consumatori, che ha però indotto l'Associazione bancaria italiana a sottoscrivere un protocollo d'intesa tra ABI ed associazioni dei consumatori, siglato nel 2005 (circolare ABI LG/000906 Roma, 25 febbraio 2005) contenente le condizioni generali sui contratti dei conti correnti;

anche se la previsione del congelamento degli interessi e delle spese, non prevista da una legge, potrebbe indurre a ritenere che non possa costituire un diritto soggettivo attivabile in tribunale, in caso di contenzioso con la banca, una decisione ABF (arbitrio bancario e finanziario) ha disposto che può comunque essere considerata quale fonte interpretativa per gli obblighi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto posto a carico delle parti dal codice civile. Quindi, resta obbligatorio per la banca, anche se non previsto in alcuna legge, congelare l'addebito di costi di gestione dei conti non movimentati, evitando che il conto sia "dimenticato" (dormiente), non chiuso per inerzia della banca, possa generare costi e spese, costituendo per lui un improvviso carico cui non riuscirebbe a far fronte. Si tenga conto che, se il conto non è movimentato, la banca non svolge alcun servizio, per cui non ha alcun diritto o ragione di addebitare costi e commissioni di gestione. In buona sostanza, la prassi prevalente da parte del sistema bancario, oltre a vessare e spremere gli utenti e correntisti dei servizi bancari, è sempre quella di perseguitarli, con citazioni in giudizio, per recuperare poche centinaia di euro, anche a fronte di sue precise responsabilità e colpevole inerzia;

considerato che, sempre per quanto risulta:

la prassi di recuperare poche decine di migliaia di euro con faticose azioni civili verso i vessati e maltrattati correntisti non viene esercitata da alcune banche, nel caso di sentenze passate in giudicato dai tribunali, riguardanti "alti papaveri" ed amministratori delegati dei maggiori istituti di credito operanti in Italia, condannati a restituire decine di milioni di euro, mediante azione di responsabilità e relativa delibera del consiglio di amministrazione. Come nel caso di Unicredit, che nel 2010 offrì una lauta buonuscita di 40 milioni di euro all'amministratore delegato Alessandro Profumo, premialità lauta, non per aver fatto crescere valore alla banca, ma per aver contribuito ad affossarla. Infatti, la liquidazione di 40 milioni di euro data da Unicredit a Profumo nel 2010 era il doppio di quanto gli sarebbe spettato sulla base dei contratti siglati prima dell'uscita dall'istituto bancario, non secondo chi aveva denunciato quello scandalo, ma di un perito incaricato dal pubblico ministero Nello Rossi della Procura di Roma, nel fascicolo aperto a gennaio 2012 dopo la denuncia dell'Adusbef, che chiedeva di accertare se la buonuscita erogata da Unicredit a Profumo configurasse una truffa;

secondo la perizia del professor Stefano Loconte, delegato dal pubblico ministero, quella maxi liquidazione rappresentava un "depauperamento patrimoniale" in danno della società e degli azionisti riscontrato nella corresponsione a Profumo di un incentivo all'esodo non congruo, perché eccessivamente elevato, che, pur non integrando alcun reato (perciò la successiva archiviazione), potrebbe rilevare un "illecito di natura civilistica". Loconte infatti, esaminato l'andamento dei titoli Unicredit quotati in borsa durante la gestione Profumo, passati da 7,66 euro del 2007 a 2,26 nel 2010, l'entità delle sofferenze (raddoppiate nello stesso periodo nonostante una contrazione dei prestiti) e altri pessimi indicatori di bilancio, rileva che "Profumo non ha raggiunto gli obiettivi prefissati per gli anni 2007-2010" e, applicando il contratto, l'ex amministratore delegato avrebbe avuto "al massimo diritto a 20 milioni di buona uscita, invece dei 40, parte dei quali dovevano essere recuperati con un'azione di responsabilità o un'azione collettiva";

non risulta che il consiglio di amministrazione Unicredit (esperta di "porte girevoli" con la politica, come risulta dall'assunzione dell'ex Ministro dell'economia e delle finanze Padoan a presidente del consiglio di amministrazione), banca che dopo aver distribuito "derivati tossici" ad aziende sane portate al fallimento, tra le più spietate e vessatorie nei confronti della clientela, abbia mai tentato di recuperare alcunché da Profumo, nonostante egli abbia distrutto valore, come acclarato dalla perizia del professor Loconte e come accertato dallo scandalo MPS e dalla condanna inflitta il 15 ottobre 2020 dal Tribunale di Milano a 6 anni di reclusione, assieme a Fabrizio Viola, ex presidente ed ex amministratore delegato di MPS, riconoscendoli colpevoli dei reati di aggiotaggio e false comunicazioni sociali nel filone d'inchiesta relativo alla contabilizzazione come buoni del tesoro pluriennali dei derivati stipulati dalla banca senese con Nomura e Deutsche Bank. Il Tribunale ha ritenuto Profumo e Viola, cui è stata anche comminata una multa di 2,5 milioni di euro a testa, responsabili di aggiotaggio e false comunicazioni sociali sulla semestrale del 2015. Analogamente alla condanna, inflitta a Profumo il 22 febbraio 2017 dalla Procura di Bari per la bancarotta fraudolenta da 198 milioni di euro contestata ai vertici Unicredit per il fallimento della società Divania di Bari, col rinvio a giudizio per 16 imputati, tra i quali gli ex amministratori delegati Federico Ghizzoni e Profumo, oltre a manager e funzionari della banca, accusati di aver ingannato il titolare dell'azienda, Francesco Saverio Parisi, inducendolo a sottoscrivere 203 contratti derivati che, in pochi anni, secondo l'accusa, avrebbero portato la società al dissesto e al successivo fallimento,

si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo sia al corrente di tale gravissima situazione riguardante Alessandro Profumo, e come possa tollerare che continui indisturbato a guidare come amministratore delegato una grande e strategica azienda nel settore della difesa, qual è Leonardo, col 30,2 per cento di capitale in capo al Ministero dell'economia;

se, avendo il dovere di vigilare e far rispettare l'art. 47 della Costituzione, che tutela il risparmio degli italiani, conosca le ragioni che abbiano impedito al consiglio di amministrazione Unicredit di recuperare 20 dei 40 milioni di euro elargiti a Profumo, affatto dovuti per aver distrutto valore, come acclarato nella perizia del professor Loconte;

se sia al corrente di usi, abusi ed ordinari soprusi perpetrati dagli istituti di credito a danno della clientela, non solo con contratti vessatori e clausole capestro, ma anche con azioni premeditate col concorso dei controllori, così come descritte;

se, a meno che non ritenga che le condanne per aver frodato imprese e cittadini con i prodotti finanziari tossici (Divania), o per i reati di aggiotaggio e false comunicazioni, come per MPS (contribuendo al dissesto della più antica banca, inghiottita nel buco nero di 65,7 miliardi di euro a partire dal 2006), siano medaglie al merito ed al valore, non abbia il dovere di destituire il dottor Profumo per giusta causa e con effetto immediato;

quali misure urgenti intenda adottare per ripristinare rapporti di correttezza e trasparenza tra banche, banchieri e correntisti, vessati e saccheggiati anche nei lori diritti.