Onorevoli Senatori. -- Il presente disegno di legge è volto all'adeguamento dell'articolo 43 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS), di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, ai valori costituzionali della rieducazione della pena e persegue l’obiettivo di risolvere le incertezze applicative in cui versano gli uffici territoriali preposti al rilascio o rinnovo delle licenze di porto d'arma, anche alla luce dell'interpretazione evolutiva dello stesso articolo 43 del TULPS, seguita dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, che si pone in contrasto con un parere reso il 16 luglio 2014, in sede consultiva, dallo stesso Consesso che peraltro ha, comunque, segnalato la irragionevolezza parziale della disposizione alla luce dei valori costituzionali.
L’intervento è quindi volto a porre fine al contenzioso che tale contrasto interpretativo ha sollevato, contemperando le esigenze di sicurezza e ordine pubblico con quelle dei richiedenti la licenza di porto d'arma, stabilendo che, una volta intervenuta la riabilitazione, l'Autorità valuti, senza automatismi, il rilascio o il rinnovo della licenza rispetto ai condannati per i reati di cui al primo comma dell'articolo 43 del TULPS.
Per una migliore comprensione della modifica proposta si precisa che oltre a quanto stabilito dall'articolo 11 del TULPS, con riferimento all'articolo 43 del medesimo testo unico, molti cacciatori (ma si ritiene molti soggetti titolari di porto d'armi, anche non cacciatori) ricevono comunicazioni di diniego del rilascio del porto d'armi, o del suo rinnovo, o comunque comunicazione di avvio del relativo procedimento amministrativo (teso appunto al respingimento delle relative domande di porto d'armi o di rinnovo dello stesso).
Queste iniziative sono, nella maggior parte dei casi, sorprendenti e palesemente ingiustificate.
Spesso, infatti, interviene il diniego del rinnovo della licenza di porto di fucile per uso caccia (per mancanza dei requisiti previsti dagli articoli 11 e 43 del TULPS) dopo anni, o decenni, nei quali il rinnovo era stato, da quella stessa Autorità, invece normalmente e continuamente concesso. Queste ingiustificate iniziative trovano tardivo ingresso soltanto alla luce di una risposta fornita dal Consiglio di Stato (Prima sezione, adunanza di sezione del 16 luglio 2014) a conforme quesito posto dal Ministero dell'interno ed è lo stesso Consiglio di Stato a stigmatizzare come viziato da irragionevolezza l'automatismo determinato dalla rigida applicazione della norma. Una irragionevolezza che si appalesa anche laddove non viene attribuita alcuna efficacia alla (eventualmente) intervenuta riabilitazione e/o estinzione del reato. Sulla scorta del medesimo provvedimento il Ministero dell'interno – Dipartimento della pubblica sicurezza ha diramato una nota in data 28 novembre 2014.
La rigida e restrittiva interpretazione resa dal Consiglio di Stato e la pedissequa ed ancor più rigida applicazione fatta propria dal Ministero dell'interno e dai suoi organi periferici contrastano non soltanto con gran parte della giurisprudenza amministrativa, ma anche con la prassi amministrativa da sempre seguita (e da ritenersi buona prassi, soprattutto laddove seguita da anni).
Appare di tutta evidenza l'opportunità, ma anche la necessità, in linea con un costante orientamento della giurisprudenza amministrativa (soltanto talvolta contrastante) che venga resa un'interpretazione della norma in questione costituzionalmente orientata e concretamente pertinente alla ratio legis.
Sotto il primo profilo (interpretazione costituzionalmente orientata) non c'è chi non veda come tale esigenza sia duplice: per un verso perché la norma risale al 1931, ed è quindi antecedente l'impianto costituzionale, per altro verso perché i princìpi che uniformano il dettato costituzionale non paiono rispettati nella lettura resa dal Ministero dell'interno e dai suoi organi, con la restrittiva e rigida interpretazione del parere espresso dal Consiglio di Stato. Questo parere, invero, a ben vedere, impone una diversa lettura e certo una modifica legislativa (in attesa della quale si impone, almeno, una interpretazione più aderente alla ratio legis).
Sotto il secondo profilo (ratio legis), la capacità di un soggetto di poter usufruire della licenza di porto d'armi deve certo essere verificata ma non potrà essere messa in dubbio in ipotesi di risalenti precedenti penali, magari in materie irrilevanti e dopo che, ad onta dei precedenti medesimi, la licenza è stata, come in molte delle fattispecie cui qui si accenna, per molti anni, spesso decenni, concessa e rinnovata.
Come le vecchie condanne penali non influiscano sull'affidabilità del richiedente emerge dal parere n. 03390 del 2013 in data 18 luglio 2013, pronunciato dalla Prima sezione del Consiglio di Stato sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, presentato dal signor C.L. per l'annullamento del decreto 7 settembre 2011, con il quale il Prefetto di Reggio Emilia ha respinto il ricorso gerarchico avverso il provvedimento del questore di diniego di rilascio della licenza di porto di fucile per uso tiro a volo e della licenza di collezione di armi comuni da sparo. È riportato, infatti, nel dispositivo: «In sede di rilascio della licenza di porto d'armi, pur dovendosi considerare che l'amministrazione gode di un ampio potere discrezionale, giustificato dalla delicatezza degli interessi pubblici coinvolti, nella valutazione delle posizioni soggettive dei privati, non è possibile, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'articolo 43 del TULPS, attribuire efficacia assolutamente ostativa a condotte che, per la loro distanza nel tempo, non appaiono ragionevolmente suscettibili di escludere in radice l'affidabilità attuale del soggetto che aspira al rilascio o al rinnovo della licenza del porto d'armi».
Inoltre «l'articolo 43 TULPS non può essere interpretato nel senso che i reati ivi indicati siano in ogni caso tassativamente ostativi al rilascio delle licenza di porto e collezione di armi, escludendo la possibilità di ogni valutazione discrezionale più favorevole, ancorché sia intervenuta la riabilitazione, non sembrando significativo il fatto che l'articolo 43, a differenza dell'articolo 11, non faccia menzione della riabilitazione come evento che fa venir meno il regime di divieto».
Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, dal quale la Sezione non intende discostarsi, la differenza fra i due articoli consiste essenzialmente nella maggiore ampiezza dell'elenco dei reati ostativi. Mentre «non sembra invece significativo il fatto che l'articolo 43, a differenza dell'articolo 11, non faccia menzione della riabilitazione come evento che fa venir meno il regime di divieto. Al contrario, attribuire rilevanza a questa (apparente) differenza testuale può portare a risultati scarsamente razionali; infatti, dovendosi interpretare l'articolo 43 alla lettera, il regime di maggior severità sarebbe limitato ai reati indicati nello stesso articolo 43 e non si applicherebbe a fattispecie (in ipotesi, anche molto più gravi) riconducibili soltanto alla previsione dell'articolo 11 (nel senso, vedasi Cons. St., sez. III, 6 settembre 2012, n. 4731)». Dall'istruttoria svolta, secondo l'Amministrazione, era infatti emerso un quadro di inaffidabilità del richiedente ai fini del rilascio delle autorizzazioni richieste (venivano riscontrate una condanna penale per fatti risalenti ad oltre trent’anni prima ed una segnalazione alla Procura della Repubblica per ingiurie e lesioni personali).
Contro il decreto del Prefetto, il signor C.L. ha presentato ricorso straordinario al Capo dello Stato. Il ricorrente ha ritenuto illegittimo il provvedimento del Perfetto, che condivideva le valutazioni del questore, in quanto l'episodio all'origine della condanna penale risaliva a ben trentasei anni prima e che, comunque, l'intervenuta riabilitazione rendeva tale precedente irrilevante ai fini del rilascio della richiesta autorizzazione. Relativamente, poi, alla segnalazione alla Procura della Repubblica per lesioni lievi e ingiuria, pur essa abbastanza risalente nel tempo, non era sfociata in alcun accertamento della responsabilità del ricorrente, in quanto archiviata per remissione delle querele che le parti si erano scambiate. Quanto, infine, al giudizio di inaffidabilità, il ricorrente ha opposto di svolgere una vita regolare, dedita alla famiglia e al lavoro di artigiano in campo edile.
Di contrario avviso è l'amministrazione resistente, secondo la quale le autorizzazioni di polizia ai sensi del combinato disposto degli articoli 11 e 43 del TULPS devono essere negate in primo luogo a chi è considerato capace di abusarne o non è in possesso dei requisiti soggettivi prescritti; inoltre l'articolo 43 del TULPS, oltre a escludere che possa essere rilasciata la licenza di portare armi alle persone condannate per gravi reati (delitti non colposi commessi contro le persone con violenza, furto, rapine, estorsioni ecc. ed infine porto abusivo di armi), non contempla che la riabilitazione produca gli effetti di cui all'articolo 11 del medesimo testo unico.
Decidendo nel merito, la Sezione esprime il parere che il ricorso debba essere accolto, con conseguente annullamento del decreto prefettizio di rigetto del ricorso gerarchico e del sottostante provvedimento del questore, in quanto, in entrambi provvedimenti impugnati, la mancanza in capo al ricorrente del requisito della buona condotta viene fatta risalire a una condanna penale riportata circa trentasei anni prima, rispetto alla quale l'interessato ha ottenuto la riabilitazione sin dal 1986, e a un successivo diverbio, senza conseguenze penalmente rilevanti, anch'esso molto risalente nel tempo (1999). In secondo luogo perché, per le ragioni sopra espresse, non può essere applicato al caso concreto l'articolo 43, in quanto l'interessato ha conseguito la riabilitazione in sede penale.
Sulla scorta dell'interpretazione restrittiva del Consiglio di Stato il Ministero dell'interno ha emanato una circolare a tutte le questure con la quale ha disposto che debbano essere rifiutate o revocate le richieste di licenza di porto d'armi in presenza di condanne per i reati elencati nell'articolo 43, primo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, anche se sia intervenuta la riabilitazione.
Recentemente il TAR di Trento -- seguendo l'esempio di altri tribunali amministrativi regionali italiani -- ha accolto il ricorso di due cacciatori che si erano visti negare il rinnovo del porto d'armi pur avendo ottenuto la riabilitazione per reati, collegati all'attività venatoria, commessi oltre vent'anni fa.
Attualmente si è in attesa di un nuovo parere, da parte del Consiglio di Stato, richiesto direttamente dal Ministero, al fine di fugare qualsiasi dubbio interpretativo su questo articolo.
L'obiettivo finale è, e deve essere, quello di una verifica in concreto circa la capacità richiesta per il porto d'armi. Per queste ragioni si ritiene necessaria una modifica dell'articolo 43 del TULPS per adeguarlo al nostro impianto legislativo, alla Costituzione, all'evoluzione della società, alle esigenze di tutela ed ai rischi, anche sociali, oggi completamente mutati rispetto al 1931.
È opportuno che le questure, come in passato, verifichino in concreto la capacità di portare le armi e la rilevanza o meno di eventuali precedenti penali, tenuto conto anche della specificità degli stessi e della loro datazione, per evitare l'ingiusta penalizzazione di soggetti ingiustamente privati della licenza di porto di fucile.