Onorevoli Senatori. -- L'obesità è una malattia complessa dovuta a fattori genetici, ambientali ed individuali con conseguente alterazione del bilancio energetico ed accumulo eccessivo di tessuto adiposo nell'organismo.

Diversi tipi di studio hanno dimostrato una chiara influenza genetica, responsabile dell'eccessivo accumulo di grasso in presenza di alta disponibilità di alimenti e cronico sedentarismo. Esistono poi fattori individuali che possono contribuire all'eccessiva introduzione di cibo: si tratta solitamente di comportamenti impulsivi o compulsivi secondari a condizioni psicopatologiche. Anche alcuni farmaci possono, se utilizzati a lungo, facilitare l'insorgenza dell'obesità.

In molti Paesi industrializzati colpisce fino ad un terzo della popolazione adulta, con un'incidenza in aumento nell'età pediatrica. L'obesità, quindi, rappresenta l'epidemia del terzo millennio e, al contempo, la più comune patologia cronica del mondo occidentale.

L'obesità costituisce un serio fattore di rischio per mortalità e morbilità, sia di per sé (complicanze cardiovascolari e respiratorie) sia per le patologie ad essa frequentemente associate, quali diabete mellito, ipertensione arteriosa, iperlipidemia, calcolosi della colecisti, osteoartrosi. Negli USA, nei primi tre mesi del 2005, le patologie associate all'obesità hanno provocato più decessi delle patologie neoplastiche.

Accade, però, che l'obesità, anche se è stata riconosciuta come malattia cronica, nel nostro Paese rappresenta uno dei più trascurati problemi di salute pubblica, a partire dalla sua prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Quasi un italiano su dieci è obeso e i più a rischio sono gli uomini, rispetto alle donne. È quanto emerge dall'indagine Istat multiscopo sulle famiglie. I dati relativi al 2002 evidenziano che il 9 per cento della popolazione italiana è obeso, all'opposto appena il 3,9 per cento della popolazione adulta risulta sottopeso. Più si invecchia e più si tende ad ingrassare. Nella fascia di età da 18 a 24 anni la percentuale di obesi è del 2 per cento, in quella da 45 a 54 anni sale al 12,4 per cento per raggiungere il massimo in quella da 55 a 64 anni che è del 14,4 per cento.

In Italia ci sono circa sei milioni di persone con obesità di vario grado, di cui circa un milione affette da forme gravi, ovvero quando si supera del 60 per cento l'indice di massa corporea normale. Ancor più allarmante è il dato della crescita costante in età pediatrica non solo del fenomeno obesità in sé, ma anche delle forme gravi o morbigene (cosiddetta «superobesità»). In particolare l'obesità viscerale che rappresenta anche in età pediatrica un fattore di rischio per la sindrome metabolica se associato a dislipidemia, ipertensione, iperglicemia, iperinsulinemia. La sindrome metabolica predispone a complicanze cardiovascolari precoci. Questi dati dimostrano che tale condizione è pari percentualmente a quella di Paesi con eguale livello di benessere, quali ad esempio gli USA.

In questi Paesi tuttavia si è provveduto a creare le idonee condizioni sociali, lavorative e strutturali, al fine di permettere un normale inserimento sociale dell'obeso, anche grave, mentre nel nostro Paese si può constatare un totale vuoto normativo.

L'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) recentemente ha fissato i nuovi criteri che permettono di classificare l'obesità in base al BMI (Body Mass Index o Indice di massa corporea, ottenibile dal rapporto peso/altezza al quadrato ovvero kg/m al quadrato): come limite superiore di normalità è stato fissato un valore di BMI di 24,9, mentre sono state definite obesità di I, II e III grado quei valori di BMI compresi rispettivamente tra i 30 e 34,9 e fra i 35 e 39,9.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 16251 del 19 agosto 2004, della sezione lavoro, ha definito anzitutto l'obesità una malattia invalidante e inoltre ha stabilito che non sono più vincolanti le tabelle -- fissate da un decreto ministeriale del 1992 -- usate per misurare il punteggio di invalidità, che attribuiscono una percentuale di handicap agli obesi che in nessun caso supera il 40 per cento (per avere l'assegno di invalidità serve il 74 per cento). Ad avviso dei magistrati della Suprema Corte, invece, specie nelle forme gravi di accumulo adiposo, occorre valutare questa disfunzione in «maniera svincolata dai limiti tabellari» e dare punti più elevati, superiori al 40 per cento, a chi ha un rapporto molto squilibrato tra altezza e peso corporeo.

A questa decisione ha portato la vicenda di una donna, un metro e mezzo di altezza per 130 chili concentrati soprattutto sulle cosce. Proprio per le sue dimensioni, la signora aveva chiesto di essere dichiarata invalida al 74 per cento, ma il Ministero del tesoro aveva bocciato la sua richiesta. Così la donna si era rivolta (senza successo) alla magistratura che per due volte -- prima il tribunale e poi la Corte di appello torinese -- le aveva risposto che, nonostante la mole, non raggiungeva il punteggio necessario.

Il successivo ricorso alla Cassazione ha fatto breccia tra i giudici che lo hanno accolto, nonostante il parere contrario espresso dalla Procura che aveva, addirittura, chiesto l'«inammissibilità» del reclamo. In particolare, i supremi giudici hanno affermato che è vero che le tabelle «includono l'obesità nella fascia di invalidità dal 31 per cento al 40 per cento», ma tale percentuale è calcolata in riferimento a persone che hanno un indice di massa corporea compreso tra 35 e 40, che non tiene conto delle nuove forme di obesità o di quelle più gravi. La donna in questione, ad esempio, ha un indice di massa corporea -- calcola la Suprema Corte -- del 57,7 che «si ottiene, in base alle indicazioni ministeriali, dividendo il peso del soggetto per il quadrato della sua statura espressa in metri». Deve quindi concludersi -- afferma la Cassazione -- che una «situazione» come quella della ricorrente richiede una indagine diretta ad acclarare il grado di invalidità, svincolata dai limiti specificati dalle tabelle.

In pratica, adesso, alle persone gravemente obese potrà essere riconosciuto un punteggio di handicap maggiore del 40 per cento dato che -- per effetto di questa decisione della Suprema Corte -- i periti chiamati a valutare il livello di obesità dovranno tenere presente non più solo le tabelle, ormai inadeguate per misurare le nuove obesità, bensì la reale situazione «invalidante» di chi è afflitto da questa malattia.

Alla luce di quanto esposto, quindi, il problema dell'obesità grave non può essere ignorato dall'amministrazione pubblica che deve tutelare comunque quei cittadini che chiedono assistenza e tutela in una società che spesso non ne prevede le esigenze e le effettive necessità. Non è possibile limitare il problema alla conflittualità medico-legale, ma occorre definire un quadro di tutela complessiva della patologia, dalla sua prevenzione primaria alla sua cura (prevenzione secondaria), alle sue conseguenze invalidanti (oggetto di interventi di prevenzione terziaria); infatti l'obesità rappresenta una condizione di malattia sociale sommersa con un impatto indiretto ma, in ogni modo, grave, per la vita di relazione di quanti ne siano affetti, che non può essere ignorata dallo Stato.

L'obeso vive, infatti, in uno stato di isolamento dovuto alla difficoltà di farsi accettare dagli altri e soprattutto all'impossibilità di fare quelle cose che rientrano nella quotidianità della vita, a causa della presenza indiscriminata di barriere architettoniche, funzionali e lavorative. In breve egli vive in una condizione di diritti negati.

Infatti di tali barriere si ignora persino l'esistenza fino a quando non ci si immedesima nelle problematiche della quotidianità di chi è gravemente obeso.

Provate ad immaginare i numerosi e gravi problemi inerenti l'abbigliamento, l'ambiente, gli arredi, lo spostamento, i trasporti o la socialità di chi pesi 150, 200 chili o ancora di più. Provate ad immaginare di fare le scale, varcare porte strette, entrare in bagni impossibili, servirsi di ascensori, banche, metropolitane, autobus, aerei, salire in automobile o sui treni, sedersi al ristorante, in una mensa, al cinema o teatro con poltrone tutte larghe solo 40 centimetri. Provate ad immaginare di dover essere trasportati in barella, di dover fare una risonanza magnetica e di non riuscire ad entrare nella stessa o, semplicemente, di pesarsi quando tutte le bilance misurano al massimo 140 chilogrammi. Sino ad ora si è ignorato un insieme di disagi, anche gravissimi, che accompagnano e, spesso, discriminano gli obesi gravi. Anzi queste persone sono trattate con scherno o compassione, quasi fossero essi stessi colpevoli dell'infermità occorsagli.

È necessario, pertanto, prendere atto di ciò, anche se diventa difficile dare risposte in un Paese che non si è mai posto il problema e dove non esistono strutture globali o sociali che tutelino quanti siano affetti da obesità grave.

Il presente disegno di legge mira anzitutto a riconoscere l'obesità grave quale condizione oggettiva di handicap al fine di estendere la tutela prevista dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104, recante «Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate», anche agli obesi. La proposta persegue, inoltre, gli obiettivi di incrementare lo studio delle cause di un eccessivo peso corporeo, di attivare meccanismi di verifica, specie nella scuola, per una corretta informazione sulle metodiche preventive e di cura, di aiutare l'integrazione sociale e lavorativa dei soggetti che per il loro stato sono emarginati, di adeguare le strutture pubbliche o aperte al pubblico, con particolare riferimento alle strutture di diagnosi e cura generalmente non pronte a trattare pazienti obesi, in modo da permettere anche agli obesi gravi di sentirsi, come in realtà sono, persone normali.

Si prevede, infine, la promozione da parte del Ministero della salute, di concerto con il Ministero dell’istruzione, dell'università e della ricerca e di intesa con le società scientifiche del settore, di specifici programmi atti a migliorare le conoscenze di base e cliniche sull'obesità al fine di trovare soluzioni idonee preventive, di diagnosi precoce di terapia e di riabilitazione per una corretta alimentazione e per l'igiene dei prodotti alimentari da parte dei consumatori.