Il Presidente: Articoli

La politica trovi il coraggio di fare una vera azione riformista

24 Giugno 2007

di Francesco Guzzardi e Massimiliano Lenzi

Presidente Marini, la globalizzazione dell'economia ha determinato prevalentemente, almeno fino ad ora, una forte concorrenza internazionale per la conquista o la tenuta dei mercati; una concorrenza che ha spesso indotto i produttori a comprimere i costi d'impresa fino a sconfinare in vero e proprio dumping sociale. Compressione dei diritti, delle libertà sindacali, dei contratti, dei contributi e quindi di quote stesse di welfare. Perfino nell'Europa più ricca e "a Maastricht orientata" la possibilità di delocalizzare le produzioni costituisce una sorta di spada di Damocle sempre sospesa sulle capacità rivendicative dei lavoratori impiegati nei settori più esposti alla concorrenza. Lei ritiene che i livelli alti di welfare propri delle economie europee più mature siano destinati a ridimensionarsi? E come ci si può difendere da questo rischio?
Si tratta del tema centrale dei nostri tempi. La globalizzazione ha portato il mondo nelle nostre case. Nelle nostre vite. Non possiamo più pensare, muoverci, lavorare come se il resto del pianeta non esistesse. La progressiva interdipendenza delle economie mondiali è un fenomeno che può piacere o no, che si può criticare o apprezzare, ma è un dato di fatto con cui confrontarsi. Se le nostre economie vogliono sopravvivere devono trovare il modo di integrarsi in questo complesso movimento di redistribuzione della ricchezza. Per rispondere efficacemente a questa sfida epocale i sistemi di welfare europei, e in particolare il nostro, non vanno ridimensionati, anzi, ma profondamente riformati. La nostra spesa sociale non è destinata a calare nel prossimo futuro, ma va riorientata in un senso più attento alla crescita e allo sviluppo. Gli istituti tradizionali dello stato sociale devono trasformarsi da strumenti di mero sostegno ad azioni che promuovano il dinamismo sociale e personale. Penso agli ammortizzatori sociali da integrare con servizi volti alla formazione e all'impiego; penso a un moderno welfare per la famiglia che aiuti a conciliare lavoro e impegni familiari, e serva anche a contrastare il declino demografico; penso a maggiori investimenti nel campo dell'educazione che possano riattivare quel circuito di mobilità sociale per troppo tempo interrotto e coinvolgere maggiormente giovani, donne e anziani nel mondo produttivo. Non mi illudo, non saranno scelte indolori. Ma questa è la sfida che ci attende.

Sul palcoscenico europeo si incrociano le storie di due personaggi: uno in entrata, il presidente Sarkozy; ed uno in uscita, il laburista Tony Blair . Il successo del francese indica voglia di discontinuità con alcune politiche mixato ad un risveglio mai del tutto sopito dell'orgoglio di bandiera. Quanto a Blair, che sicuramente è stato il leader più significativamente innovatore dell¿ultimo decennio, la diminuzione di consenso su di lui rimanda alla difficoltà dei partiti laburisti a sostenere a lungo politiche di riformismo orientato anche al mercato. Non crede che in Italia per troppo tempo l'attaccamento alla bandiera sia stato un connotato prevalentemente attribuito - e lasciato - alla destra, quasi si trattasse di un connotato, se non proprio negativo, almeno sconveniente o politically incorrect? E quanto al paragone inglese, ritiene che la cifra del costituendo Partito Democratico debba essere di stampo blairiano?
L'allergia alla bandiera, all'inno e a tutti i simboli della Patria ci viene da un passato non lontano in cui questi emblemi furono imposti con la violenza, divenendo, di fatto, simboli di una parte, più che dell'intera comunità nazionale. Tuttavia oggi la situazione è profondamente mutata. Non solo si assiste a un risveglio dell'orgoglio e dell'identità nazionale in ampie fasce della popolazione, ma direi che il sentimento della Patria e della sua importanza è oggi vivo in tutte le famiglie politiche. L'attaccamento alle istituzioni, allo Stato, ai nostri tratti identitari è molto sentito e diffuso. Per quanto riguarda l'impostazione del partito democratico non so se debba essere blairiana o no. Personalmente ho una certa diffidenza verso questa voglia di trovare padri nobili e ispiratori da mettere in improvvisati e poco credibili Pantheon. Da Blair e Sarkozy piuttosto ci viene un altro insegnamento: si vince se si riesce a dare risposte concrete e moderne ai problemi della società. Entrambi questi leader, ognuno a suo modo, sono stati capaci di proporsi come politici nuovi, e in parte alieni dalla stessa tradizione politica che li ha espressi. Politici in grado di fornire risposte efficaci alle domande della gente. Al di là dei vecchi steccati ideologici. Questo è il grande esempio a cui deve ispirarsi il nascente partito democratico. Avrà successo solo se sarà percepito come una formazione capace di formulare proposte politiche nuove, non ideologiche e aderenti ai reali bisogni della società.

La situazione dei giovani e il lavoro. Due questioni: l'eterno problema della meritocrazia non riconosciuta come dovrebbe essere sul mercato italiano che, in molti casi, procede per cooptazione (conoscenze, vicinanza etc.). Come superarlo? Parlando dell'aspetto culturale del mondo giovanile, con le stragi del sabato sera e la scarsa attenzione dei ragazzi per la politica: secondo Lei quanto pesano su questo atteggiamento da attimo fuggente, le previsioni catastrofiche sul futuro del mondo (ambiente, immigrazione, etc) che spesso vengono veicolate dai media?
Il problema del merito e del valore per l'ingresso del mondo del lavoro è una questione antica in Italia. Un problema strettamente legato alla struttura familista e a volte chiusa della nostra società. Se a questo si aggiunge che il nostro tessuto imprenditoriale è costituito in prevalenza da piccole e medie aziende che si affidano spesso per il reclutamento dei lavoratori ai rapporti personali il quadro è completo. La scelta per cooptazione e conoscenza è quindi un dato profondo della nostra identità e organizzazione sociale ed economica che non sarà facile estirpare. Non esistono bacchette magiche. Bisogna favorire, anche sul piano fiscale, le imprese che competono e innovano, e ridurre i settori protetti, dove si annidano lassismo e inefficienza.
La sempre maggiore competizione indotta dall'internazionalizzazione dell'economia italiana sta già andando nella direzione di una maggiore trasparenza ed efficienza del mercato del lavoro. Se si vuole è uno degli effetti positivi della globalizzazione. Per essere concorrenziali sui mercati mondiali non ci si può certo affidare a delle persone non all'altezza. E il fatto stesso che oggi si insista tanto rispetto al passato sul concetto di merito è il segnale che il sistema produttivo non tollera più certi meccanismi. E¿ già un passo in avanti.
Quanto ai giovani, bisogna stare attenti a fare di tutta l'erba un fascio. Ho una certa difficoltà a parlare dei giovani come categoria unitaria. Quello giovanile è un universo vario e sfaccettato. Certi comportamenti autodistruttivi e non partecipativi sono sempre esistiti. Forse ora determinati atteggiamenti stanno aumentando, e può darsi che non vi sia estranea una certa ansia per il futuro legata a un senso di impotenza rispetto ai drammi del nostro tempo. Ma in molti ragazzi vedo anche una maggiore consapevolezza rispetto al passato; vedo voglia di impegnarsi e capire. E sarei attento pure a parlare di disinteresse nei confronti della politica, le nuove generazioni sono più attente e informate di quanto non si voglia credere. Tutto sommato non sono pessimista. Ho fiducia nei nostri giovani.

I cambiamenti legati all¿industria ed alla innovazione. Lo Stato ma anche le imprese private italiane investono poco in ricerca eppure all'innovazione è legato, in gran parte, il futuro economico dell'Italia. Perché? Eppoi cosa si può fare per invertire questo trend ultradecennale?
Quello dei maggiori investimenti in innovazione e ricerca è uno dei punti cruciali per lo sviluppo del nostro Paese e uno degli aspetti qualificanti del programma di governo. Quando si parla dell'economia attuale la si definisce spesso come economia della conoscenza, proprio per mettere in luce il legame strettissimo che esiste tra innovazione e produzione di ricchezza. Una scommessa ineludibile per l¿Europa che non può certo pensare di inseguire i giganti asiatici sul piano dei prezzi. E tuttavia l¿Italia non fa abbastanza in questo campo. Una situazione imputabile in parte a un sistema di imprese piccole e medie a cui mancano la struttura e le risorse da investire in costose ricerche di base, ma anche derivante dalla disattenzione di una politica miope che ha sempre penalizzato un settore che non garantiva un immediato ritorno elettorale.
Invertire questa tendenza è una delle sfide che attende una classe dirigente che si autodefinisce riformista. Da un lato, adottando provvedimenti legislativi che aiutino le imprese ad associarsi in più vaste strutture di ricerca, anche tramite opportune defiscalizzazioni; dall'altro, aumentando la quota di spesa pubblica destinata al settore della ricerca, portandola almeno al livello dei nostri competitori europei. Non sarà facile, come sempre quando si mette mano al bilancio dello Stato. Ma una classe politica degna di questo nome deve avere il coraggio di fare le sue scelte.

Le politiche per la famiglia. In queste settimane la famiglia è al centro del dibattito pubblico e civile ma, in uno stato sociale pensato per una società industriale fordista ormai superata, quali sono le politiche da introdurre per continuare a garantire diritti sociali e, al tempo stesso, sostenere la famiglia senza far finire le casse dello Stato in bancarotta?
L'ho già detto prima: lo stato sociale non va ridimensionato ma profondamente ripensato, spostando le risorse dall'assistenza al sostegno attivo alle persone. Lo stesso discorso vale per la famiglia. I nuclei familiari vanno aiutati mettendo tutti i loro membri in grado di camminare sulle proprie gambe. Asili nido, corsi di formazione, il futuro sistema di welfare dovrà aiutare le donne a essere madri e lavoratrici; i giovani a studiare e al contempo inserirsi nel mondo del lavoro. Sarebbe una bella spinta, un incoraggiamento per tutti a metter su casa e a tornare a fare dei figli. Ecco un bel modo di coniugare solidarietà e investimenti produttivi. Dobbiamo costruire uno stato sociale che aiuti ognuno a occupare il proprio posto nella società. In questo modo avremo assolto il compito di venire incontro a chi ha meno possibilità, e contribuito creare una società più dinamica. I tempi dell'assistenzialismo sono finiti per sempre.

Un po' di nostalgia: le mancano, ora che è Presidente del Senato, le battaglie sindacali (e magari quelle maratone notturne per trattare una mediazione giusta con le altre parti sociali)?
Io sono stato prima di tutto un sindacalista. Ancor oggi se qualcuno mi domandasse cosa ho fatto nella vita io risponderei il sindacalista. Il sindacato è stata una passione che mi ha accompagnato negli anni. Quello che sono ora, nel bene e nel male, lo devo al sindacato. Lavorare nel sindacato è stata una straordinaria esperienza di vita. Mi ha insegnato a capire gli uomini, i loro bisogni, le loro ambizioni. Nella Cisl ho lasciato molti amici e molti ricordi. Di quell'ambiente, di quel mondo, e forse anche degli anni della mia giovinezza, mi mancano molte cose, non solo le maratone notturne per chiudere un contratto. E anche ora, pur essendomi dedicato alla politica da molto tempo, mi accorgo di portare dentro di me un'attitudine, un modo di pormi e di pensare che mi deriva direttamente dalla mia formazione sindacale.

Archivio degli articoli



Informazioni aggiuntive

FINE PAGINA

vai a inizio pagina