Il Presidente: Articoli

«Partito Democratico, basta indugi, va fatto subito per cambiare l'Italia»

Intervista al quotidiano «La Repubblica»

6 Gennaio 2007

Luigi Contu

«Al Paese serve un grande partito riformista. Abbiamo fatto le scelte e i primi passi importanti: ora basta cincischiare. Non tutto è semplice, ma dobbiamo spingere la discussione e arrivare alle decisioni annunciate». Franco Marini, una vita tra il sindacato e la Dc, ex segretario del Ppi ed oggi presidente del Senato, lancia un appello ai dirigenti dell'Ulivo invitandoli a mettere da parte egoismi e incomprensioni per far nascere in tempi brevi il Partito democratico.

Marini è preoccupato dalla distanza crescente tra i cittadini e i partiti e vede nel nuovo soggetto uno strumento per riavvicinare gli italiani alla politica. Una forza nella quale possano finalmente convivere le grandi culture riformiste e liberaldemocratiche italiane; un partito aperto e con una classe dirigente profondamente rinnovata, all'altezza delle esigenze della società italiana.

Presidente Marini, perché questo allarme? Il suo partito ed i Ds non hanno già convocato i rispettivi congressi per dare concretamente il via alla costruzione del Partito democratico?
«È vero, e ne sono soddisfatto. Ma ascolto ancora troppi se e troppi ma tra i nostri dirigenti. Siamo arrivati ad un appuntamento che non si può più rinviare. I cittadini chiedono risposte alte ai problemi della società che abbiamo il dovere di dare. Sono preoccupato dalla crescente distanza tra cittadini e politica, un tema efficacemente sottolineato dal Capo dello Stato nel messaggio di fine anno. Anche per questo dico che dobbiamo accettare questa sfida ambiziosa con coraggio e generosità... ».

A molti, più che una sfida, appare un azzardo.
«E quale grande progetto può partire con garanzie sottoscritte di successo? La sfida sta proprio in questo: prendere una decisione e poi giocarsi la partita. La società italiana è in movimento, l'economia sta dando segnali di ripresa, i giovani scalpitano per trovare un ruolo da protagonisti nel paese. E mentre ai piani alti si continua a parlare di declino, il Censis ha fotografato in questi giorni un Paese dinamico. La politica, invece, è ferma al palo, frenata dalla transizione incompiuta iniziata con la caduta del muro di Berlino e con la crisi dei grandi partiti della prima Repubblica. Ecco un'altra ragione per non fermarsi: tutto il sistema risentirà degli effetti di questa operazione, ne troverà giovamento anche lo schieramento di centrodestra. E ne beneficerà anche il bipolarismo, grazie al quale in questi anni si è assicurata stabilità di governo al Paese».

Molti suoi ex colleghi democristiani, qualcuno anche del suo partito, non sarebbero d'accordo con questo elogio del bipolarismo.
«Lo so, c'è ancora qualcuno affascinato da soluzioni centriste. Ma credo che ormai il bipolarismo sia entrato nel cuore e nella testa degli italiani e che non andrà lontano chi pensi rimetterlo in discussione».

Ammetterà che fino ad oggi il dibattito sul Partito democratico non è stato esaltante.
«Si, è così. Si è parlato troppo di procedure e poco di contenuti. È l'errore che abbiamo compiuto ad Orvieto: il primo seminario sul nuovo partito è stato catalizzato dalla provocazione del professor Vassallo sulle tappe, i modi ed i tempi di questo percorso. Alla nostra gente, e a tutti gli italiani dobbiamo invece spiegare perché c'è bisogno del Partito democratico».

Provi a spiegarlo lei.
«In parte l'ho già fatto: la nascita del nuovo partito farà uscire il nostro Paese dalla stagnante transizione in cui si dibatte da anni. Darà al Paese una grande forza politica riformista capace di affrontare con decisione e modernità alcuni punti strutturali che ne frenano la crescita e lo sviluppo. Riforme, quindi. Riforme, e la forza di scontrarsi per farle».

Potrebbe sembrare una ricetta neo-liberista...
«Sbagliato. Questo è il riformismo. Il Partito democratico avrà successo soltanto se sarà capace di imprimere una svolta di innovazione al Paese, di dare la scossa. Dobbiamo puntare alla crescita sociale ed economica ma senza mai dimenticare la tutela degli strati deboli della popolazione. Una linea che si incrocerà nel prossimo futuro con l´efficacia dell'azione del governo, come ha giustamente scritto nei giorni scorsi Francesco Rutelli su Europa, il quotidiano della Margherita».

Fino a qualche tempo fa chi parlava di Partito democratico veniva accusato di utopismo, per di più senza storia e senza radici. Anche lei, quando c'era chi prospettava la trasformazione dell'Ulivo in partito - che è in pratica l'operazione che state tentando adesso - si oppose nel nome della tradizione popolare. Cosa è accaduto in questi anni?
«Oggi il quadro politico è molto diverso da quello di dieci anni fa. Noi ex popolari, poi confluiti nella Margherita, abbiamo convissuto con i Ds all'opposizione e al governo, senza fughe e senza rifiutare le responsabilità. Ci siamo presentati alle elezioni, più volte, sotto lo stesso simbolo. Abbiamo costituito gruppi unici alla Camera ed al Senato. Fatti straordinari: culture e storie che dal dopoguerra fin verso la fine del '900 si erano combattute e poste come alternative alla guida del Paese hanno felicemente superato la prova della convivenza».

Pochi ci avevano creduto. Cosa ha reso possibile quello che a molti appariva irrealistico?
«Tutto ciò è stato possibile grazie alla sconfitta del comunismo realizzato nei paesi dell'Est, alla accettazione da parte dell'ex Pci dei valori e degli ideali della socialdemocrazia, e al superamento nel nostro Paese dell'unità politica dei cattolici».

Chi si oppone alla nascita del Partito democratico usa anche la corda della fedeltà ai valori del passato, teme di smarrire storia e radici. E anche per questo c'è chi chiede che Ds e Margherita non cessino di vivere anche quando il nuovo soggetto sarà nato...
«Nessuno vuole tagliare le radici. Anzi, le conserveremo e le tuteleremo. Ma dobbiamo pensare anche all'albero ed ai suoi frutti. Radici e pianta debbono stare insieme. Quanto alla seconda parte della sua domanda io credo che nessuno capirebbe la continuazione dell'attività di due partiti che hanno appena dato vita insieme ad uno nuovo».

C´è chi sostiene che per dare maggiore linfa al Partito democratico sarebbe necessario includervi, con un ruolo importante, anche i rappresentanti della società civile.
«Se il nuovo partito dovesse essere la semplice sommatoria di queste pur importanti sigle avremmo fallito. L'operazione avrà successo se i partiti che hanno creato le condizioni perché si realizzi il disegno riusciranno a coinvolgere le forze esterne, apriranno i gruppi dirigenti, si daranno nuove regole per tenere aperte le porte alla società. Insomma, se alla fine, misureranno nel voto l'affermazione di una grande forza riformista».

Resta il nodo della collocazione europea del Partito democratico. I Ds insistono per l'adesione a Strasburgo al Pse, che è la casa dei riformisti.
«Io ho sempre ammirato le grandi socialdemocrazie europee che hanno assicurato nel nord Europa sviluppo, libertà e rispetto della persona. E non ho cambiato idea. Ma nel Pse non possiamo entrare. Come si fa a chiedere, solo per fare un esempio, ad un giovane cattolico che frequenta la parrocchia o è impegnato nel volontariato di diventare socialdemocratico? Una simile decisione restringerebbe le potenzialità del nuovo partito in Italia escludendo di fatto l'area più avanzata del mondo cattolico. Il problema è ancora irrisolto, lo so. Ma mi sento ottimista anche su questo fronte. In ogni caso mi sembrerebbe inspiegabile che qualcuno facesse saltare il banco per questo problema».

Ma per molti, nei Ds, questo è un tema dirimente. È immaginabile che per raggiungere l'obiettivo finale si corra il rischio di perdere pezzi per strada?
«Io non vorrei perdere nessuno. Ed è nostro compito convincere tutti, con pazienza e saggezza. Ma se qualcuno si era illuso che avremmo fatto una passeggiata primaverile si è illuso. Mi pare, tra l'altro, che proposte alternative non siano emerse. E poiché tutto si può fare nella politica italiana tranne che stare fermi in questo stallo, dico che dobbiamo mettere in conto anche il rischio di perdere qualcuno per strada. E non parlo solo dei Ds».

Fino ad oggi nessuno ha avuto il coraggio di affrontare il tema della guida del nuovo partito, questione delicata e spinosa dato il numero e l'autorevolezza dei pretendenti...
«Il tema non è di oggi. Stiamo camminando concordemente con Prodi leader. Certo, l'operazione comporterà nel futuro forti innovazioni nei gruppi dirigenti. Serve uno scatto di generosità da parte di tutti: c'è bisogno di forze nuove, anche perché non mi pare scarseggino nell'area dell'Ulivo».

Le decisioni sulla legge elettorale che dovrà prenderà il Parlamento potrebbero influenzare il percorso del Partito democratico. Anche lei ritiene indispensabile una riforma del sistema?
«Su questi temi si deve procedere con il dialogo e mai a colpi di maggioranza. Può sembrare inusuale che un presidente di Assemblea si pronunci su un tema che sarà all'ordine del giorno, ma la mia preoccupazione è tale da indurmi a farlo. Personalmente ritengo che con questa legge elettorale non si possa tornare a votare: il cittadino si è accorto di essere stato espropriato del diritto di decidere il deputato e il senatore che intende eleggere. Un vulnus che può aumentare la distanza tra gli italiani e le istituzioni e che può diventare dirompente per la democrazia».

Cosa pensa della proposta di Amato di varare una Convenzione per le riforme? E qual è secondo lei il sistema elettorale che meglio si adatterebbe all'Italia?
«La proposta Amato va approfondita. Non posso pronunciarmi sul merito della riforma, anche se naturalmente ho le mie idee. Posso dire che in ogni caso dovremmo salvaguardare il bipolarismo e che forse, a questo proposito, il tanto famigerato Mattarellum è stato liquidato con troppa fretta... ».

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