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Senato della Repubblica
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ALEARDI Aleardo

  







   Indice dell'Attività Parlamentare   


.:: Dati anagrafici ::.

Data di nascita:11/04/1812
Luogo di nascita:VERONA
Data del decesso:17/07/1878
Luogo di decesso:VERONA
Padre:Giorgio Bartolomeo
Madre:CANALI Maria
Nobile al momento della nomina:Si
Nobile ereditarioSi
Titoli nobiliariConte
Coniuge:Celibe
Fratelli:Beatrice Maria, che sposò Francesco GASPARI, sorella
Parenti:Francesco Gaspari, cognato
Titoli di studio:Laurea in giurisprudenza
Presso:Università di Padova
Professione:Poeta
Altre professioni:Docente
Carriera:Professore incaricato di Estetica all'Accademia di belle arti di Firenze (dicembre 1863)
Cariche amministrative:Membro della Consulta di Stato (Governo provvisorio veneto) (1848)
Consigliere comunale di Verona
Cariche e titoli: Collaboratore del periodico "Il Caffè Pedrocchi" di Verona
Membro della Società letteraria veronese (1834)
Incaricato d'affari a Parigi (Governo provvisorio veneto) (1848)
Membro ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione (15 ottobre 1865-17 luglio 1875)
Membro straordinario del Comitato per l'istruzione primaria (20 gennaio 1867)
Membro della Commissione per le epigrafi storiche di Verona (9 ottobre 1868)
Membro della Commissione preposta alla conservazione dei monumenti di Verona (19 febbraio 1873)
Presidente dell'Accademia di pittura e scultura di Verona (22 settembre 1874)
Membro della Società promotrice degli studi filosofici e letterari in Italia (1869)
Presidente della Scuola Brenzoni di Verona (22 settembre 1874)
Socio dell'Ateneo di Brescia (già Accademia del Dipartimento del Mella) (21 agosto 1859)
Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano (25 gennaio 1872)

.:: Nomina a senatore ::.

Nomina:11/06/1873
Categoria:19
20
I membri ordinari del Consiglio superiore di istruzione pubblica
dopo sette anni di esercizio
Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria
Relatore:Augusto Duchoqué
Convalida:10/12/1873
Giuramento:10/12/1873

.:: Onorificenze ::.

Commendatore dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro 31 dicembre 1864
Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia 31 gennaio 1876
Grande ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia
Cavaliere dell'Ordine civile di Savoia 27 aprile 1872

.:: Servizi bellici ::.

Periodo:Moti del 1848

.:: Camera dei deputati ::.

Legislatura
Collegio
Data elezione
Gruppo
Annotazioni
VII
Lonato
25-3-1860


.:: Atti parlamentari - Commemorazione ::.

Atti Parlamentari - Commemorazione
Sebastiano Tecchio, Presidente

Signori senatori. [...]
Il 4 novembre 1812, nella città di Verona, la capitale a quel tempo del Dipartimento dell'Adige, nacque al conte Giorgio Aleardi un figliuolo, che nei registri dello stato civile fu inscritto col nome di Gaetano-Maria. Questi fu chiamato "Gaetano" per anni parecchi; e col nome di "Gaetano" lo riceveva la Società letteraria veronese nel 1834. Più tardi, gli piacque chiamarsi "Aleardo"; certamente a ricordo di un suo antenato, il cavaliere Aleardo degli Aleardi, che verso la fine del secolo quattordicesimo e sul principio del decimo-quinto ebbe due volte l'ufficio di Capitan generale, e andò messaggiere della città nel 1387 a Milano, nel 1405 a Venezia.
La prima età del novello Aleardo non era stata serena né promettente. Nessuna voglia di studi: pareva ottuso d'ingegno, povero di memoria: gli alunni nel Collegio di Sant'Anastasia lo dicevano "talpa": i maestri non a torto avrebbero potuto ripetere:.
"..e' mostra sé più negligente.
Che se pigrizia fosse sua sirocchia" (1);
e suonò voce che dessi, i maestri, disperando di farne un sufficiente discepolo, suggerissero al padre suo di indirizzarlo alle faccende rurali.
Sennonché, venutogli tra poco alle mani il volume del principe dei poeti latini, d'improvviso gli si apre la mente: con acceso zelo e' si vota allo studio dei classici: comincia a verseggiare nel volgar nostro: i compagni, i maestri, gli amici intravvegono che i suoi versi risponderanno a quel bellissimo de' Virgiliani:.
"Italiam, Italiam, primus conclamat Achates".
Era sui 18 anni; e il padre lo consigliava "a non mettersi sulla via del poeta" (2). Toccava i 20; e al paterno consiglio si aggiungeva la preghiera: "Non invaghire, ti prego di questa civettuola di poesia, che con tutti i suoi andari di gran dama ti farà qualche mal tiro da crestaina infedele. Piglia una buona compagnia, come sarebbe a dire la legge.." (3).
L'ossequioso figliuolo ha bensì preso nella Università patavina lo scanno di studente; e, laureato ne' due diritti, s'è accinto alla pratica delle cose forensi presso il più valoroso degli avvocati veronesi, il Cressotti: ma, presto poi, gittò da lunge pandette, e codici, e insomma ogni argomento, ogni cura che nol traesse a poetare. "Ero malato" queste son sue parole "ero malato del mal de' versi" (4).
Correano per la poesia nuovi tempi, e nuovi costumi. Indarno Vincenzo Monti avea lanciata la sua sdegnosa protesta:.
"Audace scuola boreal, dannando.
Tutti a morte gli Dei, che di vivaci.
Fantasie già fiorir le menti argive.
E le latine, di spaventi ha pieno.
De le Muse il bel Regno.
A che parte si volse il nostro Aleardi?
Forse inclinava verso gli antichi. Ma a quale de' giovani sarebbe bastato l'animo di repugnare scopertamente alla dittatura, all'imperio de' novatori? - O ch'io mi inganno, o ch'egli deve aver tentennato non lievemente a sceglier cammino. Fatto è che, se nol vedemmo bruciar incensi all'Olimpo pagano (5), né anche abbiamo indizio ch'egli ammiccasse ai lemuri, e alle streghe de' romantici; ma piuttosto gli talentava di cogliere immagini e voci nei gabinetti delle scienze fisiche, nelle serre della botanica".
Molti sono i suoi Canti. Cito, in ordine cronologico, i principali.
Dei Canti, ch'ei chiamò giovanili:.
"L'Arnalda di Roca" poemetto storico.
Dei successivi:.
"Il Monte Circello";
"Le prime storie";
"Lettere a Maria" (la donna de' suoi pensieri), intitolate "L'Invito" e "La immortalità dell'anima" ;
"Le città italiane marinare e commercianti";
"Raffaello e la Fornarina";
"Un'ora della mia giovinezza";
"Il Comunismo e Federico Bastiat";
"Amore e Luce";
"Canti patrii", tra cui "Le tre Fanciulle", "I tre Fiumi" ;
"I sette Soldati";
"Canto politico";
"I fuochi dell'Appennino";
"Accanto a Roma" ;
l'ultimo de' quali finito nel 1863, edito nel 1869.
Codesti carmi, ed altri minori, valsero allo scrittore, non che l'affetto dei cuori gentili, il plauso di insigni cultori dell'antica e della moderna letteratura.
A me non ispetta portar giudizio intorno alle critiche che poi vennero a rompere la concordia dei laudatori. E nondimeno, niuno mi vieterà di muover lamento che, rimpetto ai censori, il nostro Aleardi, anzichè aguzzare le ciglia, e, se fosse d'uopo, svezzarsi di qualche menda, e adergersi a più alti voli, siasi ritratto, quasi come paurosamente, dall'ampio aringo, e quind'innanzi rimanessero mute le corde della sua cetra. La quale ritratta mi torna tanto più inesplicabile, dacché ripenso ch'egli medesimo s'era già fatto accordo di certe colpe che non da tutti doveano essergli perdonate. Al quale proposito basti un passo della sua autobiografia, ch'ei compilava nel novembre 1863: “Se io per avventura ero nato a qualche cosa, ero nato al pittore. Non avendo potuto adoperare il pennello, ho adoperato la penna. E appunto perciò ella sente troppo di pennello; appunto perciò sono sovente troppo naturalista, e amo troppo perdermi nei particolari.” (6).
Ma, ancorachè qui non vogliasi rinfiammare la lite ch'ei lasciò spegnere, è nostro debito e nostro conforto di allegare in onore di lui un testimonio gravissimo, Gaetano Trezza; il quale, in una epistola del 1° ottobre 1876 gli scriveva: "ne' tuoi Canti, che inebbriarono l'Italia contrita dal giogo degli oppressori, tu, primo fra i nostri, risuscitasti il sentimento sepolto della natura con quelle forme ardite e nuove che ti fanno il più simpatico de' suoi alunni".
Sentito avea l'Aleardi che a poeta civile nessun officio, nessun intento era più proprio e più degno che quello di assiduamente inneggiare all'amor della patria, alla pietà delle miserie che la stremavano, alla fede ne' suoi diritti, nella sua redenzione. E a tale officio, a tale intento erasi consacrato con devozione singolarissima.
Leggo nel carme, cui pose nome: Un'ora della mia giovinezza:.
"...E te vidi, mio primo.
Amor, itala musa..
...e mi baciasti.
La prima volta in fronte, e da quel bacio.
D'improvviso sull'animo mi piovve.
L'aura del canto é un'immortal speranza" (7).
Leggo nel carme che ha per titolo: Il Monte Circello:.
"Ogni incanto svanì, tranne quest'uno.
Paradiso di terre e di marine.
Che si nomina Italia, e maliardo.
Vince il desio d'ogni pupilla umana" (8).
Leggo in uno dei Canti patrii:.
"E che per te soltanto.
Non tornin più la pia.
Mitezza e i fior d'un glorioso aprile,
Anima del mio canto,
Mio dolente e gentile.
Amore, Italia mia?" (9).
Ritraggo dalle Città Italiane questa votiva tavola alla madonna:.
"Ave, Stella del mare!
Pei mille templi che da Chioggia a Noto.
Ti ergea pregando l'italo devoto;
Per i lumi modesti.
Ch'ora ei t'accende ai dì de la procella;
Per Raffael che ti pingea sì bella;
Tu, sì gentil coi mesti,
Fa che la gloria ancor spunti, o Divina,
Sui tre orizzonti della mia marina" (10).
E dal Canto politico,compiuto (ciò che giova notare) il 15 giugno 1862, più che sette anni prima della breccia di Porta Pia:.
"...Certo mia madre,
Santa com'era, divinando il figlio,
Me al nascere di panni.
Tricolori fasciò. Sin da fanciullo.
Arsi d'Italia, e ne la Diva morta.
Presentii la risorta.
Del Campidoglio.." (11).
In verità, in verità, io vi dico: costui fu profeta!
Ma tempo è di guardarlo alle prese colle realtà della vita.
Non appena da Venezia sgombrarono nel marzo del '48 le armi e le insegne degli Asburghesi, l'Aleardi per decreto di Daniele Manin ebbe seggio nella Consulta di Stato; e, innanzi tutto, si diede con altri quattro Consultori a dettare la legge elettorale. Poco appresso, fu inviato insieme con Tommaso Gar a Parigi, per avvocare innanzi al Governo della Repubblica la causa Veneta, che doveva essere tanta parte della causa d'Italia.
Credevano che Alfonso Lamartine sarebbesi compiaciuto del sapere che sulle antenne di San Marco era issato il vessillo repubblicano: attendevano che le sue labbra si aprissero, se non ad offrire efficaci sussidi, almeno a promettere benevoli uffici, casoché alla gemma delle lagune soprarrivasse il pericolo di iniqui fati.
Non tardò l'Aleardi a sgannarsi di ogni illusione.
Ricopio da una sua lettera questa memoria delle orrende giornate del giugno: ".. Il cannone tonava per le strade: le strade correano sangue. Io mi sentivo soffocare..Un mattino, per addolcirmi l'anima, andai a vedere Lammenais. Gli veniva giù una lagrima.. Si stette un pezzo in silenzio. Finalmente, con quella sua voce esile, che tanto contrastava con la furia di potenti idee che esprimeva, porgendomi quei quattro ossicini della sua mano, mi disse: Questi cannoni, mio caro, uccidono anche le speranze d'Italia. - Quanto a ciò, risposi, essi non mi uccidono nulla, perché con questa gente e con questo Lamartine al Governo, con quell'Oudinot all'esercito, dopo che li ho imparati a conoscere, di speranze non ce ne ho avuto più ombra.."(12).
Dipartitosi da Parigi, gli fu sostituito nella legazione Nicolò Tommaseo; e tuttavia senza prò.
Miracoli di virtù bellica e di senno politico servarono Venezia libera per diciassette mesi. Ma nello scorcio dell'agosto '49, più potendo la fame e la peste che i fulmini della guerra, la innocente ricadde nella forza straniera; e l'Aleardi se ne venne ramingo di una in altra delle terre di qua d'Appennino.
A Firenze lo abbracciarono caramente Giuseppe Giusti, e Gino Capponi, ed altri eletti. Anche in Genova stringea preziose amicizie.
Frattanto, cominciato il 1852, gli giunge l'annuncio che sulle sponde dell'Adige, nella piccola città di Legnago, giace in fin di vita un suo dilettissimo, il vecchio tutore, che verso lui, orbato di madre e di padre prima ancora di uscire de' minorenni, avea sempre tenuto le veci di que' benedetti. L'affezione, la gratitudine lo sospingono. Mette in non cale i rischi del ritorno alle rive calcate dai giallo-neri; e vola accosto al morente. Ma che? Postagli addosso da non so quale arnese di Polizia la taccia di "cospiratore", subitamente lo agguantano; lo chiudono nelle carceri militari di San Tommaso in Verona; passati non pochi giorni, lo tramutano alle Guardiole di Mantova, e lo gittano in una segreta, tutta lezzo e umidore, angustissima, poco men che priva d'aria e di luce; attalché la Beatrice, sorella sua pietosissima, ottenuta dopo sessanta dì la licenza di portargli un saluto, non ebbe tampoco il conforto ch'ei la sapesse raffigurare. Durati così quattro mesi, fu trasferito ad una cella più alta; dove, nelle cupe ore di una notte del decembre, gli ruppe il sonno lo strepito de' manigoldi, che (orribile a dirsi!) giubilavano avvinazzati apparecchiando le forche da strozzare al vegnente mattino e il Tazzoli e il Montanari e il Poma e Tito Speri e altrettali, tutti rei di un comune misfatto, dell'avere adorata la patria. Da quel momento la cella gli è doventata anche più intolleranda. Non osarono mai di articolargli un'accusa, né mai di condurlo dinanzi a un giudice, vuoi de' civili o de' militari: e contuttociò, là dentro il ritennero lunga pezza. Alla perfine, quasiché i proconsoli abbiano sentito rimorso di quella captività, gli spalancarono le porte della prigione, sotto colore di "Grazia" capitata da Vienna.
Come, o perché, non ha di repente varcato il Mincio e il Ticino? O che la Polizia gli avesse proibito di ripartire; o ch'egli abbia voluto compartecipare presenzialmente ai dolori e alle speranze de' conterranei; noto è che da Mantova si ridusse alla nativa Verona, e quivi, in sembiante di scioperato e tranquillo, poté stanziare fino al 15 giugno 59. Avendo però in quel mezzo il generale Urban proclamata la sua famosa regola di Governo "Io non punisco l'atto, ma la intenzione", non è da stupire che, la notte appunto dei 15 giugno, un commissario perlustratore e grossa mano di soldati e di birri la dimora violassero del sopito poeta, e rovistata (comechè inutilmente) ogni cosa, lo rincacciassero al carcere, e incontanenti lo trabalzassero alla Fortezza di Josephstadt: di che non gli fu dato di rivedere il cielo d'Italia prima che altri non siasi addormito nella credenza che i Veneti, sfolgorati dall'oracolo di Villafranca, fossero ormai perduti di fede e d'animo.
Questa volta, fatto cauto dai travagli pur dianzi patiti, riparò alla vicina Brescia, che con tuttessa la Lombardia, tranne Mantova, si era congiunta alle antiche provincie del Re di Sardegna.
La "guerriera città d'Arnaldo" (13) lo allegrò di fraterne accoglienze. E come furono indette le elezioni politiche del 29 febbraio 1860, i Comizi di Lonato lo inviarono alla Camera subalpina, alla quale in un coi Lombardi accorrevano i deputati dell'Emilia e della Toscana. Addì 29 maggio l'eletto di Lonato ha risposto del alla cessione di Nizza: e sebbene nel 25 giugno dell'anno stesso abbia accennato a rimpiangere quella suavissima delle patrie contrade (14), i nuovi Comizi del 1861 non gli hanno più ridonato i suffragi.
Il regio Governo, quando a Dio piacque, si ricordò del poeta. Nel dicembre 1863 lo creò professore di estetica all'Istituto di Belle Arti in Firenze. Nel novembre 67 lo ascrisse al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Nel novembre 73 lo nominò senatore.
Le lezioni del cattedratico chiarirono ch'egli, oltreché eruditissimo delle lettere greche, latine e italiche, era un sagace scrutatore delle storie vecchie e recenti, un fervido ammiratore delle novità fisiologiche, e innanzi tutto un estimatore acutissimo delle arti belle e di ogni loro attenenza. Gli sopravvive il desiderio degli studiosi che quelle lezioni vengano raccomandate alle stampe.
Al Consiglio della pubblica istruzione assisteva con diligenza operosa. Quantunque a ogni poco vi si cambiassero e ministri e indirizzi, affermano ch'ei si mantenesse alieno sempre dalle utopie, e sempre convinto che la istruzione, circoscritta al suo magistero sugli intelletti, riescirà inetta a dar buoni frutti finché non abbia per alleata e compagna l'educazione de' cuori.
Nelle Assemblee del Parlamento non salì mai la tribuna, pago ognora alle parti modeste di ascoltatore. Né ciò mi fa meraviglia: imperocché non sia cosa nuova, né strana, che i valentuomini, usati a scrivere con severa ponderazione e a cribrare fino allo scrupolo parole e frasi, volentieri si astengano da metter lingua nelle pubbliche discussioni, in cui ricorre il pericolo che alle labbra dell'oratore spontanei e pronti non vengano gli accenti e i modi più squisitamente acconci ad esprimere i suoi concetti. Che in effetto i silenzi dell'Aleardi nelle Camere legislative non significassero ignavia o indifferenza, chi mai lo potea sospettare, se niuno ignorava la sua passione di patriota?
Parecchi de' Municipi, tra' quali Brescia, Cremona, Bassano, Firenze, Urbino, si tennero in pregio d'incidere il di lui nome nell'Albo de' lor cittadini.
Roma, Venezia, Padova, Firenze vollero udir la sua voce in solenni occasioni.
A Roma il 19 aprile 1872, splendendo nelle sale del Circolo Cavour il più bel fiore degli italiani e dei forestieri che qui dimoravano, l'Aleardi lesse un discorso col titolo "La stella di Raffaello". A Venezia, il 4 agosto dello stesso 72, nella festa annuale dell'Accademia delle Belle Arti, ragionò "Sullo ingegno di Paolo Caliari". A Padova nel 18 giugno del 74, cinquecentesimo dalla morte di Francesco Petrarca (15), insegnò a venerare nel cantore di Laura uno degli auguri più solleciti della italiana unità, uno de' più focosi flagellatori della mondana signoria de' Pontefici. E a Firenze, il 12 settembre 75, celebrandosi il quarto anniversario dalla nascita di Michelangelo, recitò pubblicamente le glorie di quel divino (16).
Or sento muovere questa domanda. Il trovatore, che avea con tanto entusiasmo impetrata la indipendenza, l'autonomia nazionale, amò egli altrettanto gli ordini liberali del nuovo Regno? - Indubbiamente li amò: ma non senza che certe sue recenti inquietudini, e certa sua prolusione a un consorzio politico di Veronesi, abbiano dato ragione o preteso di bucinare ch'ei fosse timido, e ombroso, e poco credente che sempre facciasi buona guardia ai confini tra le libertà legittime e la licenza.
Era anche tacciato di arieggiare l'aristocratico: probabilmente, non per altro se non per questo, ch'ei compariva, più che i vati e gli artisti non sogliano, lindo e azzimato, e stava ognora in contegno. Checchè ne sia, non piaggiò, né blandì il nobilume borioso e poltrone: e del patriziato riveriva quelli soltanto che all'altezza del nome lo intelletto del bene accoppiassero e lo splendore della dottrina. Così vero, che addì 31 dicembre del 75, tumulandosi nel Cimiterio di Verona la salma di un nostro collega, il conte Francesco Miniscalchi (di molte lingue europee e delle semitiche sottolissimo conoscitore), l'Aleardi non s'è peritato di uscire in cotesto rabbuffo: "..Ed ora, pur troppo! qua da noi, di nobili illustri ben ne sono piene le sepolture, ma deserte le case" (17).
L'esimio collega sedette in quest'Assemblea perfino ai primi di luglio del 78. Un dì, in aria melanconica, venne a dirmi che gli premea di sfuggire il sollione di Roma. Tornò di volo a Firenze; indi a Verona, negli amplessi della sorella e de' nipoti. Nessuno gli scopriva nel viso e nel portamento un segno, un avviso, benché menomo, di malore. La sera stessa del 16 luglio s'era compiaciuto a recitare, in un crocchio di amici, qualche verso di un giovane valoroso: circa la mezzanotte, salì alla sua cameretta,
"Da carte ingombra e da volumi onesti (18),
e placidamente s'è adagiato a riposo. Ahi, che in men d'un momento, per violentissima sincope al cuore, se ne morì! - Pur tuttavia spero e credo che, esalando l'ultimo spirito, gli sia balenato davanti gli occhi quel suo felice ricordo:.
Socrate è morto; ma a la stirpe d'Eva.
La più superba eredità lasciava.
In questo ver: che l'anima non muore" (19).
Non vi dico la costernazione della sua Verona; non le condoglianze di preclari uomini, senza numero; non le magnifiche onoranze funebri decretate dal Municipio. Pare a me, che il più adeguato degli ossequi da rendere all'Aleardi debba consistere in ciò, che gli italiani ripetano a coro con esso lui:.
"...Oh pria sepolta.
Nel buio fondo de le sue marine,
Prima coperta de le lave ardenti.
De' suoi vulcan la cara.
Penisola rimanga,
Prima che un'altra volta.
De le sue genti l'unità si franga!" (20).

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 4 febbraio 1879.
.
(1) Dante, Purgatorio, IV. 100.
(2) Aleardi, Autobiografia, edizione Barbera, 1869.
(3) Ivi, pag. XIII.
(4) Ivi, pag. XIV.
(5) Aleardi, detta edizione, nel canto Le prime storie, pag. 31-32.
(6) Detta Autob. pag. XVIII-XIX.
(7) Detta, edizione Barbera, pag. 19.
(8) Ivi, pag. 73.
(9) Ivi, pag. 286.
(10) Ivi, pag. 168.
(11) Ivi, pag. 364.
(12) Ivi, pag. 223,224. Lettera premessa al canto: Il comunismo e Federico Bastiat.
(13) Detta Autob., pag. IX.
(14) Detta, ediz. Barbera "Aida vegezzi Ruscalla" pag. 394.
(15) In quel giorno a Padova si consacrava il monumento innalzato a Petrarca.
(16) Ciò fu sulla porta della casa del Buonaroti.
(17) Discorsi in morte del conte Francesco Miniscalchi-Erizzo: Verona tip. Civelli, 1876, pag. 7.
(18) Aleardi, sonetto "Alla mia vecchia cameriera".
(19) Lettere a Maria, II. Pag. 146.
(20) Canto politico, pag. 375.

Note:Secondo altra fonte risulta nato il 14 novembre 1812
Il nome vero risulta essere Gaetano Maria. Il nome d'arte Aleardo deriva dall'antenato cavaliere Aleardo degli Aleardi, vissuto tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV secolo, capitano generale e messaggero di Verona nel 1387 a Milano e nel 1405 a Venezia.

Archivi:Il Comune di Verona ha segnalato l'esistenza del Fondo Aleardo Aleardi conservato presso la Biblioteca civica di Verona.

Attività 0033_Aleardi_IndiciAP.pdf