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Legislatura 17ª - 4ª Commissione permanente - Resoconto sommario n. 159 del 27/01/2016

PROCEDURE INFORMATIVE 

 

Audizione del generale di divisione Guglielmo Luigi Miglietta (comandante della missione KFOR in Kosovo), in relazione all’affare assegnato sulle iniziative intraprese o prospettate dal Governo italiano sui profili militari delle missioni internazionali di pace (n. 625)   

 

      Il presidente LATORRE rivolge un indirizzo di saluto ai generali Castellano e Miglietta, cedendo loro la parola.

 

            Il generale CASTELLANO riepiloga brevemente i passaggi salienti del contesto in cui opera la missione KFOR, a guida NATO, operativa dal giugno 1999 e soggetta a numerosi cambiamenti della configurazione operativa in ragione delle mutazioni del contesto geopolitico di riferimento.

            Nel dettaglio, la missione KFOR vede la collaborazione di circa 33 Paesi e dispone di una forza di circa 5.500 militari, di cui 500 italiani.

            Rileva inoltre che la missione è attualmente comandata da un generale italiano per la terza volta consecutiva, a riprova della professionalità e della capacità dimostrata dalle Forze armate.

 

            Il generale MIGLIETTAsottolinea, innanzitutto, la significativa presenza italiana nell'ambito della missione a guida atlantica KFOR, presenza molto significativa tra le 31 Nazioni contributrici, 8 delle quali non appartenenti alla NATO. Per assolvere i propri compiti, la missione si avvale di una forza di circa 5.500 militari e 3.000 civili (tra dipendenti della NATO, contractors e manovalanza locale).

            Si sofferma quindi sugli aspetti critici dell'attuale scenario kosovaro, connotato da una difficile situazione politica che impone di non considerare conclusa la missione della NATO, la quale, al contrario,si trova oggi ad attraversare una delle fasi più delicate. La stessa catena di comando dell'Alleanza atlantica sta vivendo questo momento con una certa apprensione, come testimoniato dal fatto che il Comandate supremo delle Forze alleate in Europa, generale Breedlove, ha espresso preoccupazione per la tendenza di alcune nazioni contributrici a ridurre, ovvero cancellare, la propria presenza nella KFOR.

            Ricorda quindi che, a seguito dell’assunzione del controllo della regione da parte della NATO nel 1999, il Kosovo iniziò un delicato processo di stabilizzazione prima e di normalizzazione poi, non affatto facile a causa dei radicati sentimenti di odio tra le diverse etnie, frutto di mesi di crudeltà ed atrocità perpetrate da ambo le parti. La difficoltà è facile da intuire se si considera che oggi le istituzioni kosovare, su pressione della comunità internazionale, sono in procinto di varare una corte speciale chiamata a giudicare i crimini commessi dai kosovaro-albanesi nei confronti dei serbo-kosovari nel periodo 1999-2000.

            Il cammino di pacificazione e normalizzazione ha avuto, peraltro, due brusche interruzioni: nel 2004, quando le contrapposizioni etniche sfociarono in disordini su vasta scala, e nel 2011, allorquando la decisione del Kosovo di porre propri doganieri ai valichi con la Serbia scatenò la dura e violenta reazione della popolazione serbo-kosovara del nord. Nel giugno 2014, invece, le violenze di natura interetnica sono state, da un punto di vista strettamente militare, contenute tanto nell’entità quanto nello spazio.

            Da un punto di vista di legittimità internazionale, poi, la dichiarazione unilaterale di indipendenza del 2008 ha contribuito a rendere la situazione ancora più complessa. Da quel momento, infatti, il Kosovo ha iniziato ad agire come uno stato sovrano e le Nazioni Unite hanno delegato alle autorità kosovare gran parte delle funzioni amministrative fino a quel momento gestite dalla missione UNMIK.

            Tuttavia ciò ha dato luogo ad una contraddizione dovuta al fatto che, per la NATO, le Nazioni Unite e la Serbia, il quadro di riferimento rimane quello della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza e del Military Technical Agreement tra NATO e Forze armate serbe (entrambi del 1999), mentre le autorità locali e i paesi che ne hanno riconosciuto l’indipendenza prendono a riferimento il Kosovo come stato autonomo e sovrano. Inoltre la Serbia, proprio in virtù degli atti internazionali richiamati, continua a ritenere il Kosovo come una propria provincia, temporaneamente amministrata dalle Nazioni Unite e dalla NATO.

            Un principio di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, prosegue l'oratore, si è avuto nel 2013 con l’avvio del cosiddetto "Dialogo Pristina-Belgrado", sviluppato sotto l’egida dell’Unione europea. Nell’agosto del 2015 si sono riusciti a raggiungere importanti accordi sul piano politico-strategico, la cui attuazione, per alcuni di essi, è ancora in corso, mentre altri subiscono ritardi significativi.

            Tuttavia, la situazione interna risente dello stallo politico-istituzionale che è in atto da circa quattro mesi. La coalizione di governo -composta dai due maggiori partiti kosovaro-albanesi e dall’unico partito di riferimento per i serbo-kosovari - si è trovata infatti impossibilitata a procedere nei lavori a causa di atti violenti posti in essere, in Parlamento, dai tre maggiori partiti d’opposizione (che chiedono le dimissioni del Governo, poiché contrari alla ratifica dell’accordo sulla demarcazione dei confini con il Montenegro e alla costituzione dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo), al punto che alcuni atti legislativi di fondamentale rilevanza (come ad esempio la legge finanziaria), sono stati approvati fuori dall’emiciclo parlamentare alla presenza solo dei deputati della maggioranza. La situazione si è connotata anche per arresti dei deputati d’opposizione (rei di aver posto in essere comportamenti violenti all’interno dell’aula parlamentare) e manifestazioni violente nelle piazze organizzate dall’opposizione ogni volta che si tentava di riprendere i lavori parlamentari, anche al fine di soverchiare le capacità di intervento della polizia locale e dimostrare così l’incapacità del governo di garantire la sicurezza.

            Questa specifica eventualità è considerata dalla missione KFOR molto pericolosa, perché potrebbe costringere i soldati della NATO - che oggi sono i terzi responsabili della sicurezza, dopo le organizzazioni di sicurezza kosovare ed EULEX, la missione europea di polizia e sullo stato di diritto - a riprendere in mano il controllo del territorio schierandosi per le strade e annullando, così, sedici anni di processo di normalizzazione.

            La complessa situazione politica si accompagna poi ad una gravissima crisi economica, a cui le forze politiche non riescono a dare soluzione. Il tasso di disoccupazione è oltre il 35 per cento (con punte del 60-65 per cento tra i giovani), l’economia si fonda in larga parte su aiuti economici esterni ed il costo delle fonti energetiche è divenuto proibitivo. In tale, difficile, contesto, si è quindi affermata la criminalità organizzata, che ha sempre sfruttato il Kosovo nella sua funzione di crocevia dei traffici nella penisola balcanica e di cerniera tra l’est europeo e l’area mediterranea. Complessivamente, l'operato della classe politica appare pertanto eccessivamente sbilanciato verso la politica estera (al fine di ottenere il pieno riconoscimento della sovranità) e poco attento alla difficile situazione interna.

            Il delicato momento che sta vivendo il Kosovo si inserisce, peraltro, in un’altrettanto delicata situazione regionale. Quasi tutti i paesi dei Balcani occidentali sono infatti alle prese con delle crisi politiche, e sotto questo aspetto, si renderà necessario prestare attenzione ai prossimi appuntamenti elettorali previsti in Macedonia, Serbia e Montenegro (oltre che nello stesso Kosovo).

            Entrando più nel dettaglio in merito alla minaccia ed ai rischi rappresentati dalla situazione appena descritta, l'oratore osserva che la crisi economica e la fragilità politica comportano l’esistenza di una serie di fattori (disoccupazione, scarsa scolarizzazione, forte corruzione e flebile stato di diritto), che si innestano in un substrato sociale di odii interetnici e di tensioni religiose, in grado di determinare pesanti riflessi sulla situazione di sicurezza interna: una popolazione fiaccata dalla povertà può infatti divenire preda della radicalizzazione -sia nazionalista che religiosa- ovvero manovalanza per le organizzazioni criminali e per gli estremisti politici.

            Peraltro, al momento, i rischi maggiori sembrano provenire dall'incremento dei flussi migratori, che in Kosovo si declina in tre distinte minacce alla stabilità interna.

            La prima minaccia è connessa alla mancanza di prospettive future, che ha spinto, tra il 2014 e il 2015, circa 170.000 kosovari ad emigrare illegalmente in paesi dell’Unione europea, chiedendo asilo politico. Non essendo però il Kosovo tra i paesi in guerra o sotto dittatura, quelle richieste state respinte e sono stati avviati, da parte di alcuni Stati, i rimpatri forzati: lo scorso anno, sono infatti stati riportati in Kosovo circa 17.000 kosovari, la gran parte dei quali rimpatriati dalla Germania. Questi individui rappresentano, oggi, un delicato problema sociale per le autorità locali.      Non è inoltre un segnale positivo la decisione di quasi l'8 per cento della popolazione di emigrare da un paese, il Kosovo, che sta formalmente trattando l’adesione all’Unione europea e in cui la comunità internazionale è fortemente ingaggiata -in termini di risorse finanziarie, umane e materiali- con tre missioni rispettivamente dell’ONU, della NATO e dell’Unione europea.

            La seconda minaccia è connessa all’enorme flusso di migranti a cui è sottoposta la penisola balcanica. Centinaia di migliaia di profughi, nel corso del 2015, sono transitati lungo la rotta dei Balcani occidentali seguendo la direttrice Grecia-Macedonia-Serbia, con punte massime che, nel mese di ottobre, hanno raggiunto i circa 4.000 afflussi giornalieri.

            Fino ad ora il Kosovo pare rimasto ai margini del problema: le autorità locali riferiscono solo di 70 ingressi ed altrettante domande di asilo da parte di cittadini siriani e iracheni, durante tutto il 2015. Tuttavia non è escluso che, se dovessero mutare le attuali condizioni, il Kosovo possa divenire una regione di transito.

            Il rischio si presenta quindi come duplice: i migranti potrebbero entrare da sud (dalla Macedonia), nel caso in cui la Serbia dovesse decidere di chiudere il suo confine meridionale; ma potrebbero anche -e soprattutto- entrare da est, ossia dai confini serbi, se altri Stati nel nord della penisola dovessero seguire l’esempio di Ungheria e Croazia, impedendo i transiti.

            Infatti, i migranti si troverebbero bloccati nei centri di accoglienza in Serbia e ciò potrebbe indurli a tentare la rotta più breve per l’Europa: quella che, attraverso il Kosovo, giunge in Albania e da lì, riaprendo la tratta adriatica, in Italia.

            In tale senso, prosegue, non sono incoraggianti le notizie di stampa che giungono da Belgrado: due giorni fa, alcuni esponenti dell’Esecutivo e di agenzie governative che si occupano della gestione di migranti e richiedenti asilo, hanno affermato che le strutture in Serbia sono al collasso e che un eventuale incremento del flusso, in coincidenza del miglioramento delle condizioni climatiche, non potrà essere gestito. Il problema connesso a questa ipotesi è che anche le istituzioni kosovare potrebbero non essere in grado di gestire un tale flusso di migranti per carenza di risorse materiali, di expertise e di fondi e neppure le missioni delle organizzazioni internazionali presenti in Kosovo saprebbero impegnarsi efficacemente in attività di sostegno umanitario.

            Anche il contingente KFOR si troverebbe dinnanzi a dei problemi. Infatti, sebbene l’assistenza umanitaria non rientri nel mandato della missione, di certo i soldati NATO, qualora le istituzioni kosovare o le organizzazioni internazionali lo dovessero richiedere, interverrebbero in virtù del possesso delle capacità necessarie per agire con efficacia. Un intervento del genere, peraltro, rischierebbe di drenare quelle risorse umane necessarie per l’assolvimento dei compiti strettamente militari, tra cui ve ne sono alcuni intangibili, come quello di essere pronti ad intervenire in Bosnia a supporto della missione dell’Unione europea. Inoltre, l’operato di KFOR sarebbe complicato da diversi fattori, tra cui i principali sono l’esistenza di numerosissime limitazioni nazionali (come, ad esempio, l'esistenza di nazioni all’interno di KFOR che non permettono l’impiego dei loro veicoli per il trasporto di personale civile). Al fine di ovviare a tali problematiche, KFOR ha quindi richiesto alla propria catena di comando NATO di ricevere, da parte dei rappresentanti permanenti delle nazioni contributrici, la necessaria copertura politica all’eventuale intervento per operazioni di assistenza umanitaria e il superamento dei caveat nazionali.

            La terza minaccia è connessa al più ampio problema del proselitismo e reclutamento a favore del fondamentalismo islamico. È infatti noto che, nell’area europea, i Balcani sono terra di forte attività di reclutamento e che migliaia sarebbero coloro che sono andati a combattere tra le fila del califfato islamico. Secondo le autorità di Pristina, dal Kosovo sarebbero partiti oltre 350 combattenti islamici (ma per gli apparati d’intelligence occidentali, il numero sarebbe di gran lunga più alto), di cui circa la metà sarebbero già rientrati nel Paese, seguendo i migranti e confondendosi tra loro.

            L’attività di proselitismo e reclutamento vera e propria viene peraltro condotta, in Kosovo, da imam non autoctoni e da alcune organizzazioni non governative (tra le oltre 8.000 registrate nel Paese) dal profilo nebuloso e dalle ampie disponibilità finanziarie. Il modus operandi è quello non solo di costruire moschee, ma soprattutto di provvedere al sostentamento dei nuclei familiari più indigenti, chiedendo in contropartita la frequenza delle moschee più fondamentaliste e l’adozione di atteggiamenti radicali nei costumi e nell’istruzione dei minori.

            Non bisogna dimenticare, poi, l’allarme lanciato da alcuni ambienti di intelligence circa il rischio di una sorta di saldatura geografica tra le comunità islamiche radicali che, nel tempo, si sono installate nella Macedonia nord-orientale, nella valle del Presevo in Serbia, nelle aree a sud e a nord-ovest del Kosovo, nella zona frontaliera tra Kosovo e Montenegro, nel distretto di Raska in Serbia e in Bosnia Erzegovina. Recentemente, su alcune testate giornalistiche italiane (come "La Stampa", "Il Giornale", "Famiglia Cristiana" e "Il Secolo XIX"), sono poi apparsi alcuni articoli sulla difficile situazione del Kosovo, tanto dal punto di vista politico quanto, e soprattutto, sul versante sicurezza. Notizie che hanno purtroppo trovato conferma anche in attività di polizia -condotte recentemente tra l’Italia e il Kosovo- finalizzate all’arresto di presunti terroristi.

            La presenza e l'attività di KFOR costituiscono comunque un deterrente, e in questo senso la missione della NATO potrebbe essere sfruttata come sensore per la raccolta di importanti informazioni ai fini della lotta al terrorismo.

            Procede quindi a illustrare gli aspetti operativi della missione, rilevando preliminarmente che i compiti originariamente attribuiti prevedevano esclusivamente il contributo alla sicurezza (sulla base di quanto fissato dalla Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite) e il monitoraggio della piena applicazione del Military Technical Agreement da parte delle Forze armate serbe. Successivamente sono intervenute delle modifiche per rendere la missione più rispondente al mutato quadro geopolitico, con la ricomprensione anche di operazioni di assistenza alle organizzazioni di sicurezza kosovare e del supporto alle organizzazioni e agli enti della comunità internazionale.

            In particolare, per quanto attiene al contributo alla sicurezza e alla libertà di movimento nel paese, KFOR è retrocesso al ruolo di "terzo responsabile", dopo la polizia kosovara e la polizia europea della missione EULEX.

            La missione europea di polizia e sullo stato di diritto (EULEX), pur disponendo di limitate forze di polizia, vanta, però, un’importante valenza sostanziale, costituendo l’"intercapedine" tra la polizia kosovara e KFOR (che resta una forza militare con modalità operative differenti da quelle delle forze dell’ordine) e costituisce un efficace strumento per tutta l’attività di addestramento, monitoraggio e supporto alla polizia kosovara, soprattutto nelle attività investigative. Con EULEX -oggi diretta da un italiano, l’ambasciatore Gabriele Meucci- KFOR ha pertanto un proficuo rapporto di collaborazione e di scambio informativo, che costituisce l’esempio migliore di come la NATO e l’Unione europea possano cooperare, essendo pienamente complementari, per il conseguimento di un comune obiettivo.

            Il contingente KFOR continua, peraltro, ad essere l’unico responsabile per quanto concerne la sicurezza diretta dell’ultimo sito religioso serbo-ortodosso rimasto nelle competenze della NATO, il monastero di Visoki-Decane (affidato proprio alla vigilanza continua dei soldati italiani) nonché della linea di separazione amministrativa tra il Kosovo e la Serbia.

            Inoltre, KFOR continua a condurre una pluralità di attività operative, "cinetiche" e "non cinetiche", finalizzate ad avere un completo ed aggiornato quadro di situazione del paese nonché a contribuire al controllo del territorio.

            Passando alla struttura del contingente, le unità di cui dispone sul terreno la missione sono organizzate su due Multinational Battle Group (uno a guida italiana e uno a guida statunitense), che includono solo forze di manovra o combat devolute al controllo del territorio, e da tre Joint Regional Detachment (a guida svizzera, italiana e turca), ai quali sono devolute tutte le attività di assistenza alle autorità locali e alla popolazione nonché di raccolta dei dati, per consentire le valutazioni periodiche sul livello di progresso e di normalizzazione del paese. A tali unità si affiancano, poi, due ulteriori reggimenti: uno italiano, con i Carabinieri della Multinational Specialised Unit, e uno a guida portoghese, che costituiscono la riserva di Teatro.

            Infine, KFOR può sempre fare affidamento su alcune forze di riserva strategica, designate e messe a disposizione da talune nazioni contributrici (tra cui l’Italia), che verrebbero schierate in Kosovo solo in caso di emergenza.

            Il contributo nazionale all’interno di KFOR vede la presenza di una cinquantina di militari delle tre Forze armate all’interno del Quartier generale, dei soldati dell’Esercito del Multinational Battle Group Ovest e del Joint Regional Detachment Centre nonché dei Carabinieri della Multinational Specialised Unit. Quello nazionale è certamente un contributo importante per la NATO e tale è stato fin dall’inizio della missione, come dimostrato dal fatto che, in sedici anni, l’Italia ha espresso sette generali comandanti, otto generali vicecomandanti e ha sempre avuto il comando di almeno una delle unità di manovra, oltre ad avere l’esclusiva, con i Carabinieri, di un’unità duale impiegabile tanto come forza militare quanto come forza di polizia.

            Per quanto riguarda, invece, il futuro della missione, l'oratore pone l'accento sulla delicatezza della attuale fase, caratterizzata da una situazione sul terreno lungi dall’essere normalizzata e da una tendenza centrifuga da parte di alcune nazioni contributrici. Ciò ha imposto al Comando NATO di Bruxelles un attento ripensamento sulla missione stessa e sulla sua fisionomia, al fine di plasmare uno strumento tattico maggiormente rispondente alle nuove esigenze.

            Se solo fino ad un anno fa era ancora in vigore una pianificazione che contemplava delle riduzioni di forza del contingente a precise scadenze temporali, ad oggi la NATO ha recentemente approvato un nuovo concetto militare per la missione (denominato Condition Based Framework), che condiziona l’evoluzione futura del contingente a valutazioni periodiche della situazione sul terreno e alle sue previsioni, formulate dal comandante della KFOR sulla base dell’analisi di vari indicatori e dati informativi (per produrre effettive modifiche sui livelli di forza, il parere espresso dal comandante deve essere comunque avallato dalla catena gerarchica dell'Alleanza atlantica).

            Proprio in virtù delle condizioni politiche e socio-economiche prima descritte è pertanto possibile asserire con un certa sicurezza che, al momento, non sussistono i presupposti per pensare ad una riduzione numerica delle forze nei prossimi mesi. Potrà, invece, cambiare la postura e il bilanciamento delle forze stesse, con una riduzione delle forze "cinetiche", a favore di forze "non cinetiche", soprattutto per quanto attiene a quelle preposte alle funzioni operative di esplorazione e di raccolta informativa. Nel presente momento, infatti, sussiste la necessità di avere maggiore disponibilità di quelle capacità che concorrono alla raccolta di dati e a fornire un chiaro quadro di situazione.

            Unitamente a questa differente composizione qualitativa delle forze si imporrà, peraltro, anche una diversa organizzazione interna del contingente, attraverso il coordinamento tra i vari comandi intermedi, al fine di armonizzare e deconfliggere le attività delle due diverse tipologie di forze. L’idea sarebbe quella, per il futuro, di creare dei comandi regionali ognuno responsabile esclusivo di tutte le attività all’interno della sua area di operazioni, con alle dipendenze sia le forze "cinetiche" che quelle "non cinetiche":  tale ipotesi è al momento allo studio del comando KFOR, al fine di individuare il numero dei comandi regionali necessari e i settori di pertinenza.

            Con particolare riferimento alla partecipazione nazionale al contingente, osserva poi che essa offre al Paese l’opportunità di capitalizzare gli sforzi sostenuti fino ad ora in Kosovo dalle Forze armate, mantenendo un ruolo di riferimento per l’indirizzo della politica di sicurezza e stabilizzazione nei Balcani. La presenza di KFOR costituisce infatti un indubbio elemento di stabilità non solo per il Kosovo ma per l’intero quadrante sud-occidentale dei Balcani, di fondamentale importanza per i Paesi europei e per l'Italia, anche in considerazione della vicinanza geografica.

            Conclude rilevando che i processi di normalizzazione richiedono comunque tempi molto lunghi e almeno un paio di cambi generazionali, laddove la Comunità internazionale preme, invece, per avere risultati immediati: due "filosofie" che sarà difficile conciliare appieno.

 

            Si apre il dibattito.

 

            Il senatore COTTI (M5S), dissentendo profondamente con i contenuti dell'esposizione, abbandona l'Aula in segno di protesta.

 

            Il senatore Mario MAURO (GAL (GS, PpI, M, MBI, Id, E-E)), muovendo dai contenuti della denuncia portata, nel 2012, dall'ambasciatore russo presso le Nazioni Unite in ordine all'esistenza in Kosovo di campi di addestramento a disposizione dei ribelli siriani, domanda delucidazioni sul permanere o meno di tale, grave, situazione.

            Chiede inoltre se ci siano attuali evidenze -e quale ne sia la fonte- sulla possibilità dell'apertura di un nuovo flusso migratorio verso l'Italia a partire dal Kosovo e dall'Albania.

 

            Replica il generale MIGLIETTA, ponendo l'accento sugli ultimi, rilevanti sforzi compiuti dal governo kosovaro per il contrasto delle attività di reclutamento e di addestramento del fondamentalismo islamico, sia a livello legislativo che operativo.

            Per quanto attiene, quindi, alla delicata questione dei flussi migratori, precisa che nell'ambito della missione si predispongono dei piani di contingenza che tengano conto delle possibili evoluzioni nello scenario: quella evocata è una mera proiezione rispetto alle conseguenze che si potrebbero verificare alla chiusura di alcune frontiere. L'azione posta in essere, attualmente, si è concretizzata nella richiesta ai paesi partecipanti di un sostegno politico per eventuali azioni di assistenza umanitaria, che non rientrerebbero strettamente tra i compiti assegnati alla forza multinazionale.

           

            Il generale CASTELLANO pone l'accento sullo sforzo richiesto alle autorità locali in relazione al contrasto del terrorismo.

            Con riferimento, quindi, alle problematiche relative alla gestione dei flussi migratori, rimarca la posizione chiave che potrebbe assumere il Kosovo, anche in relazione ad eventuali flussi provenienti dalla Grecia.

 

            Il PRESIDENTE precisa che potranno essere inoltrati ai soggetti auditi anche dei quesiti scritti.

            Domanda inoltre agli intervenuti della documentazione scritta sul tema oggetto dell'audizione, ad integrazione delle relazioni svolte.

            Ringrazia infine i generali Castellano e Miglietta per la loro disponibilità, dichiarando conclusa la procedura informativa.

 

La seduta termina alle ore 9,20.