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Il Presidente: Discorsi

Convegno 'I costi dell'illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia'

Discorso pronunciato a Palermo, a Palazzo Steri in occasione del convegno "I costi dell'illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia"

Autorità,
signore e signori,
è con sincero piacere che ho accolto l'invito del presidente della Fondazione "Rocco Chinnici", il generale Antonino Rametta, a rivolgere un indirizzo di saluto all'inizio di questa seconda giornata dei vostri lavori.
La riflessione che, immediatamente, mi è venuta alla mente quando ho letto il titolo dello studio promosso dalla Fondazione è che il primo, immenso, costo dell'illegalità è la mancanza oggi tra noi di uomini preziosi.

Uomini preziosi come è stato Rocco Chinnici.
E, come lui, quei tantissimi magistrati, agenti delle forze dell'ordine, politici, sindacalisti, giornalisti, semplici cittadini, donne e uomini morti per mano mafiosa, i cui nomi compongono un "martirologio laico" che non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo dimenticare se amiamo la nostra Repubblica e i suoi valori fondativi.
Desidero svolgere tre brevi considerazioni scusandomi, fin d'ora, se potrò ascoltare solo alcuni degli interventi in programma.

La ricerca di cui oggi discutiamo, da quanto ho avuto modo di leggere e dai commenti ascoltati, si segnala per la novità e la "scientificità" dell'approccio alla questione del peso che la criminalità mafiosa esercita sulle aziende e quindi sullo sviluppo della regione.
Attraverso un lavoro capillare di indagine si arriva a definire il costo dell'illegalità - un miliardo di euro l'anno vengono sottratti direttamente alle imprese siciliane attraverso il fenomeno dell'estorsione - fornendo un quadro dettagliato per province, settore commerciale, livello di aziende interessate, qualità e tipologia dell'attività economica su cui le cosche estendono i propri tentacoli.

Altrettanto interessante e di eccezionale utilità è anche la parte che descrive i cosiddetti "costi indiretti", ovvero quanto l'azione negativa e oppressiva della criminalità organizzata incide, strozzandola, su una normale dinamica economica distorcendo la concorrenza, piegando la crescita delle imprese, generando un habitat sfavorevole.
Con metodo, per così dire, interdisciplinare lo studio esamina la legislazione in vigore avanzando ipotesi di aggiornamento e rivisitazione: credo che come legislatori dovremo prestare adeguata attenzione a tutto il vostro lavoro e, in particolare, a questa ultima parte.

In sintesi quindi mi sento di dire che la Fondazione ha saputo promuovere e realizzare un contributo di straordinario rilievo non solo culturale e scientifico ma cruciale per aiutare tutti a comprendere sempre meglio la realtà sociale ed economica siciliana.
Fare impresa in Sicilia e nel Mezzogiorno - è questa la seconda considerazione - troppo spesso costringe ad affrontare ostacoli e misurarsi con condizioni ben più ostiche che nel resto del Paese.

E già, in Italia, dare vita ad un'impresa non è proprio un .... lavoro facile.
Però, lo illustra proprio l'indagine della Fondazione, qui l'imprenditore, l'artigiano, il commerciante, il professionista, il giovane che vuole spendere i suoi talenti frutto dell'intelligenza, dello studio, della passione, della voglia di futuro e di realizzazione, troppo frequentemente incrocia la maledizione del racket, il flagello della mafia.
Proprio per questa ragione credo vada riconosciuta alla Confindustria siciliana un forte merito con la decisione assunta gli scorsi mesi di prevedere l'espulsione dalla associazione per coloro che pagano il pizzo alla mafia, azione che ha lo scopo di asciugare l'acqua nella quale agiscono le organizzazioni criminali.

In un bell'editoriale di fine dicembre il Sole 24 Ore definì la ribellione di Confindustria siciliana «un'azione esemplare». Essa mostra - scriveva il professor Carlo Trigilia - «come in un contesto molto difficile, in cui le pratiche estorsive sono estese alla larga maggioranza delle attività economiche, è possibile cercare di modificare i comportamenti individuali rompendo l'omertà e la subordinazione e creando così condizioni più favorevoli all'azione repressiva che lo Stato dovrebbe saper cogliere».
E, visto che ho accennato al Sole 24 Ore, voglio qui rinnovare la solidarietà e la vicinanza al direttore Ferruccio De Bortoli ed al giornalista Nino Amadore, per le inquietanti minacce ed intimidazioni di cui, recentemente, sono stati fatti oggetto proprio perché raccontano con professionalità e impegno il tentativo di molti imprenditori coraggiosi di liberarsi dal ricatto mafioso.

Oggi, mentre i grandi latitanti sono in carcere - e questo dimostra serietà e impegno della magistratura e delle forze dell'ordine - mentre la lotta alla mafia è divenuta una grande questione di popolo, mentre cresce la consapevolezza che con la mafia non solo non si può convivere ma che da essa non viene che lutto e deserto e mai sviluppo e crescita, è giusto e doveroso tornare con la memoria a quanti, anche col sacrificio della propria vita, hanno posto le premesse perché questi risultati potessero essere raggiunti.

Naturalmente oggi in particolare pensiamo a Rocco Chinnici.
Sin da quando, nei primi anni Settanta, iniziò a istruire i processi di mafia individuò nella crescente potenza economica il principale elemento di pericolosità di questa associazione criminale.
In tempi in cui era scarsissima la conoscenza della mafia sia in ambito giudiziario che in quello sociologico, e la stessa mafia stava attraversando una profonda trasformazione grazie agli enormi profitti del commercio della droga, Rocco Chinnici iniziò a lavorare su questa intuizione traendo continue conferme dalle indagini che via via il suo lavoro di Giudice Istruttore a Palermo gli consentiva di condurre pur con gli enormi limiti imposti dalla mancanza di strumenti legislativi ed investigativi che caratterizzava quell'epoca.

Dopo averne invocato per anni l'emanazione insieme ad altri esponenti delle istituzioni caduti nella lotta contro la mafia, Chinnici salutò con entusiasmo l'entrata in vigore della legge La Torre perché fino ad allora la magistratura e le forze dell'ordine non disponevano di strumenti idonei a reprimere efficacemente la criminalità mafiosa nella sua dimensione economica e finanziaria.
In Chinnici si avvertiva anche una certa fretta ed una certa ansia di cominciare ad utilizzare nell'attività giudiziaria i nuovi strumenti offerti dal legislatore.

Era l'ansia di un uomo lucidamente consapevole di poter cadere, da un momento all'altro, vittima di quelle forze criminali che stava combattendo.
La sua fretta purtroppo non era ingiustificata. Nemmeno un anno dopo l'entrata in vigore della legge La Torre esploderà la bomba di via Pipitone Federico.
Rocco Chinnici ebbe appena il tempo di organizzare il suo ufficio e di creare un gruppo di investigatori che avrebbe poi dato vita al pool antimafia, ma in quei pochi giorni videro la luce alcuni dei procedimenti giudiziari che, portati avanti dai "suoi" giudici, tra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, avrebbero costituito i più forti colpi di maglio contro l'organizzazione mafiosa.

La mafia ci ha sottratto uomini e donne preziosi. Servitori dello Stato. Testimoni integrali dell'amore per la democrazia e la libertà.
Anche per rispetto alla loro dedizione e al loro sacrificio dobbiamo, tutti, a tutti i livelli, impegnarci affinché quel Paese che la Costituzione descrive e promette ai cittadini italiani viva concretamente, al di là di ogni convenienza di parte, di ogni frazionismo, di ogni insufficienza, di ogni localismo. Grazie.

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