Legislatura 13º - Disegno di legge N. 3466 (I rist.)

SENATO DELLA REPUBBLICA

———–     XIII LEGISLATURA    ———–





N. 3466 I rist.



DISEGNO DI LEGGE




d'iniziativa dei senatori CARUSO Antonino, BUCCIERO, CALLEGARO, PORCARI, GRECO, TRAVAGLIA, MILIO, BEVILACQUA, BOSELLO, BONATESTA, BORNACIN, CASTELLANI Carla, COZZOLINO, CURTO, DEMASI, FLORINO Michele, LISI, MAGNALBÓ, MANTICA, MARRI, MARTELLI, MONTELEONE, PALOMBO, PASQUALI, PELLICINI, PONTONE, RECCIA, SERVELLO e SPECCHIA

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 23 LUGLIO 1998

Divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati e norme riguardanti la propaganda elettorale e la partecipazione degli stessi ad enti ed associazioni







ONOREVOLI SENATORI. - Il disegno di legge che é sottoposto al vostro esame si propone di esercitare, con riferimento agli appartenenti alla magistratura, la facoltà legislativa specificamente prevista dal terzo comma dell'articolo 98 della Costituzione.
Tale norma, riguardante piú in generale tutti i pubblici impiegati, esordisce con una forte statuizione di principio, affermando al primo comma che: "I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione".
Quasi, poi, a rafforzare tale principio e tale avvertita esigenza della totale ed assorbente dedizione degli esercenti pubbliche funzioni nei confronti degli interessi dello Stato, vi é la parte conclusiva della norma stessa: "Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero.".
La lettura ex post della norma nel suo insieme potrebbe quasi indurre a pensare che i Costituenti avessero ritenuto opportuno, dopo aver affermato nei confronti della generalità dei pubblici dipendenti il principio dell'esclusività del servizio (certamente non estensibile alle attività extraprofessionali), che fosse ritagliata la pratica possibilità per il legislatore ordinario di escludere, in futuro e all'occorrenza, i soggetti appartenenti ad alcune categorie, per cosí dire "strategiche" per il funzionamento dello Stato, dalla facoltà di occuparsi di politica. Perché, onorevoli Senatori, la non iscrizione ai partiti politici - nell'anno 1946 e nella prospettiva di sviluppo tecnologico che si poteva allora realisticamente immaginare - corrispondeva, in realtà, alla pressoché totale impossibilità di occuparsi di politica.
La scelta operata si prestava dunque ad una possibilità di lettura nel senso dell'oggettiva razionalità e dell'esigenza di privilegio di una posizione conservativa con riferimento ad apparati ritenuti nodali per l'imparziale funzionamento dello Stato.
In realtà non si é trattato di questo, perché la scelta normativa adottata dall'Assemblea Costituente fu, in realtà, quella di non scegliere.
Le posizioni assunte dalle varie parti, nel contesto del dibattito costituzionale, furono ovviamente le piu diametrali e, tra queste, spiccava anche allora per fermezza quella assunta proprio dalla categoria principalmente interessata: quella dei magistrati.
Si ritiene invero interessante soffermarsi su tale aspetto della questione, per piú ragioni: per la novità di alcuni temi, per l'autorevolezza di chi li argomentó, per le dimensioni del fenomeno e, infine, per la visibile "tradizionalità" di talune posizioni.
Un buon punto di partenza per riferire sull'argomento sembra essere quello del puntuale riporto dei risultati del referendum indetto nel 1946, fra i suoi iscritti, dall'Associazione nazionale magistrati, referendum articolato sui seguenti tre quesiti che testualmente si trascrivono a corredo delle relative risposte:

a) Ritieni che le funzioni di magistrato siano incompatibili con l'iscrizione ad un partito politico? "Incompatibili" 1318; "Non incompatibili" 180;
b) Ritieni che la incompatibilità si estenda anche alle associazioni avente carattere politico? "Incompatibili" 1278; "Non incompatibili" 187;
c) Ritieni che la incompatibilità debba riferirsi anche alle associazioni segrete? "Incompatibili" 1378; "Non incompatibili" 113.

Non solo.
I tre sopraddetti quesiti erano infatti accompagnati da un ulteriore, comune a tutti essi, che era riservato a quanti si fossero dichiarati favorevoli alla incompatibilità e che invitava a precisare se era ritenuto che il divieto (di iscrizione ai partiti e alle associazioni politiche, segrete o non segrete) dovesse essere, o meno, costituzionalmente istituzionalizzato.
Le risposte rispettivamente furono:

1) "sí": 1219 "no": 201;
2) "sí": 1156 "no": 253;
3) "sí": 1258 "no": 181.

Si ritiene che i dati riportati non siano suscettibili di alcun possibile commento e che gli stessi non siano tali da consentire che potesse generarsi un qualsiasi dubbio sull'orientamento che si era formato in capo ai magistrati di allora.
I magistrati non volevano che fosse loro consentita l'iscrizione ai partiti politici (o a formazioni consimili) e volevano che il relativo divieto fosse inserito in Costituzione.
L'articolo 98 della stessa doveva dunque, a parer loro, contenere una formulazione positiva ed immediatamente attuativa della disposizione.
Ma al di là di ció pare altresí utile riportare le ragioni di fondo che suscitarono la riferita posizione che, con buona pace di chi volesse liquidare superficialmente il problema, non erano affatto qualunquistiche ed anzi erano informate a forte senso civico, a chiara visione della funzione giurisdizionale e a precise considerazioni di convenienza.
"Il magistrato, prima di essere tale, é cittadino. Cittadino che sente e deve sentire gli impulsi della vita sociale e politica; anch'egli, come cittadino, puó sentire, nel momento in cui é chiamato ad adempiere al dovere civico di partecipare, con il voto, alla vita politica del suo paese, delle preferenze per un partito che meglio risponda a suoi sentimenti ed ai suoi principi; come puó sentire di non avere alcuna fiducia nei partiti partecipanti alla lotta. La qualità di magistrato deve tuttavia, anche in tale aspetto della vita, prevalere su quella di cittadino, nel senso che egli potrà avere le sue idee politiche, [votarle], ma non deve fare professione di fede politica.". Cosí scriveva il Vitanza ma, in identica direzione, altri si esprimevano: come Luigi Ciffo e come il presidente stesso dell'Associazione nazionale magistrati, il presidente Piga, il quale - addirittura - spingeva la necessità di massima protezione (per quel tempo) dei princípi di istituzionalizzata indipendenza della magistratura, arrivando a teorizzare, in via a ció funzionale, l'asindacalità delle associazioni di magistrati (in quel momento, dell'Associazione).
"Già il senso etimologico di "partito", "partigiano", contrasta con quella di "giudice" che non é parte, ma giudica sulle pretese delle parti, mantenendosi estraneo ad esse.
Ogni partito politico, per quanto elevate possano essere le idealità alle quali si ispira, ha un angolo di visuale che non abbraccia la totalità della vita politica nelle sue intime e complesse esigenze. Il partito politico ha, della realtà, vedute parziali e mutevoli, ogni partito vive di simpatie e di protezioni per i propri gregari, di avversione o, per lo meno, di noncuranza per i seguaci degli altri partiti, specie se contrari.". Ed ancora: "Se l'imparzialità impone ad ogni singolo giudice di essere al di sopra delle parti processuali, quel principio, trasferito al livello dell'intera magistratura, si traduce nel principio dell'apoliticità, che é principio realizzabile solo attraverso la estraneità dei suoi componenti ai partiti, cosicché si abbia una magistratura veramente elevata che, al di fuori e al di sopra di qualsiasi competizione, sieda arbitra fra le contese delle parti ...." (P. Traina, 1949).
Forte senso civico e chiara visione della funzione giurisdizionale (e della sua centralità), sopra si diceva, ma anche realistiche considerazioni di convenienza, già allora giocate sull'aspetto centrale del "riserbo".
"Potrebbe il giudice essere dotto, affidabile, esperto nel giudicare; potrebbero le sue sentenze essere capolavori; potrebbe essergli riconosciuta prudenza e morigeratezza; non gli sarebbe peró risparmiato, se egli sia iscritto ad un partito politico [ovvero - aggiungiamo - visibilmente organico alle posizioni dello stesso], il sospetto di partigianeria qualora l'oggetto della controversia [la sua strumentalità o l'inusualità dell'azione] o la qualità dei litiganti faccia credere possibile l'influenza o l'intrigo della politica.
Il sospetto, anche se risultasse realmente infondato, nuoce al prestigio del giudice che deve, oltre che essere, apparire onesto ed imparziale; e per giudicare serenamente e con senso di autorità gli uomini [tutti gli uomini], a qualunque partito appartengano, bisogna non avere legami di sorta con partiti e tanto meno militare in essi.". (F. Vitanza).
Peraltro il problema del commento delle sentenze, da parte dell'opinione pubblica (qualificata e non) già da allora si poneva, e con grande preoccupazione della magistratura stessa che, del tutto ragionatamente, si mostrava convinta del fatto che i rimedi piú radicali dovessero ricercarsi proprio all'interno delle proprie condotte, anche in termini di (auto) limitazione: "qualunque sacrificio é un obbligo sacrosanto per chi ha abbracciato la missione di giudice, dovendosi anteporre i fini della giustizia ai fini personali anche a costo di gravi disagi" (non si tratta di parole dell'attuale Capo dello Stato, ma del presidente Piga dell'Associazione nazionale magistrati).
E si riporta, a titolo di aneddoto a conclusione di questo breve excursus sulle "reazioni dei cittadini alle sentenze", lo scambio di battute - avvenuta nel 1950 - tra il Sottosegretario alla Presidenza del consiglio di quel Governo (l'allora onorevole Andreotti) e "Magistratura", l'organo giornalistico dell'Associazione.
L'onorevole Andreotti lamentava la scarsa incisività dell'azione della magistratura in tema di pubblicazioni oscene e richiamava "all'attenzione e alla coscienza dei magistrati la necessità di interpretazioni scevre da lassistiche deviazioni ... ".
I magistrati rispondevano, piccati: "Sarà anche avvenuto che, nelle centinaia e centinaia di sentenze che i giudici hanno pronunciato in materia, qualcuna non sia stata del tutto commendevole, cosí come non tutto é perfetto nelle sfere di questo basso mondo, uffici del Sottosegretario alla Presidenza non esclusi. In questi termini modesti la critica poteva anche essere calzante. Quel che non é ammissibile é il tono del monito dell'onorevole Andreotti, il suo carattere di generalità fuori d'ogni fondamento.
Legga, l'onorevole Sottosegretario, nei ritagli del suo tempo, e apprenderà ...".
Sostenere che l'On. Andreotti fosse uomo di poche letture sembra invero un fuor d'opera ed un argomento da poco (smentito, quantomeno, dalla sua storia successiva a chiunque nota), ma l'aneddoto é testimonianza evidente di quale fosse lo stato d'animo della magistratura, pronta ad accendere polemica, anche su questioni non capitali, a fronte di un'invadenza dell'esame politico sul merito della propria opera, in un concetto di separazione assoluta delle due funzioni, a cui essa era (ed era stata) disponibile ad apportare - questo é il vero fatto rilevante - anche il contributo della propria rinuncia, nel senso della limitazione, a propri diritti di per sé legittimi.
Insomma, una posizione del tutto chiara da parte della Magistratura - all'epoca dei lavori dell'Assemblea costituente - con riferimento alla questione che é ora riproposta con questo disegno di legge, in materia di divieto di iscrizione ai partiti o ai movimenti politici.
Una posizione tanto univoca e tanto chiara, quanto del tutto inascoltata.
Non serví infatti a convincere quanti ai detti lavori attendevano in quel momento, perché la soluzione scelta fu - come già sopra detto - quella di non scegliere e di limitarsi alla riserva di una sorta d'opzione da eventualmente esercitarsi in sede di ordinaria legislazione.
L'Assemblea costituente, in luogo di coraggiosamente sciogliere il nodo gordiano che si profilava alla luce del dibattito fra i suoi componenti, preferí assumere quella che in sostanza fu una non-posizione.
Non diversamente si é tuttavia regolato il Parlamento, il quale intervenne solo con riferimento agli ulteriori soggetti indicati nel citato articolo 98 della Costituzione, e cioé militari in carriera, funzionari di polizia, eccetera, e mai in relazione agli appartenenti alla magistratura.
Qualche proposta per il vero vi fu e, in epoca perlomeno prossima, il problema riprese quota a partire dalla metà degli anni settanta, quando piu parti politiche riaprirono il dibattito, che si concretizzó in disegni di legge presentati - tra il 1979 e il 1988 - da varie componenti parlamentari.
Non se ne fece nulla e non se ne é fatto nulla (questo sembra invero il dato piú allarmante) nell'ambito dei lavori svolti - in questa legislatura - dalla Commissione parlamentare per la revisione della seconda parte della Costituzione.
La Commissione bicamerale ha infatti operato modifiche (anche sostanziali) sui primi due commi dell'articolo 98, ma ha lasciato del tutto immodificato il terzo.
Delle due, l'una: poteva ritenersi che l'argomento dovesse considerarsi superato, nella presunzione che non vi é necessità di tanta separazione fra i due poteri dello Stato, oppure - viceversa - considerare che la storia del nostro Paese e la storia della nostra magistratura, non soltanto con riferimento ai giorni nostri, ma anche pensando alle dipendenze (anche economiche e anche amministrative) che la magistratura ha subito dai Palazzi nel corso del tempo, ci insegnano la obbligatoria esigenza di regole precise, a complemento di quelle sulle incompatibilità dei magistrati, in materia di rapporti "giudici-politica".
Quel che é certo é che, a distanza di cinquant'anni dalla "prima" Costituzione, poteva ben assumersi una decisione, regolamentando - già in sede di carta costituzionale - la materia, ovvero sopprimendone la previsione.
Ma tant'é, ed ecco che, anche falliti i successivi tentativi (assai timidi, per la verità, e - per questo - forse poco efficaci) contenuti nelle piú ampie proposte legislative avanzate dal ministro Mancuso (nella XII legislatura), dall'onorevole Gian Franco Anedda e dall'attuale Guardasigilli, viene proposto questo nuovo disegno di legge che - prendendo le mosse da tutto il precedente e ricordato dibattito - mira ad una definizione del problema, in senso negativo. Nel senso, cioé, del divieto di iscrizione dei magistrati ai partiti e ai movimenti politici, a fronte - tuttavia - del rispetto per la libera espressione dei loro convincimenti, da realizzarsi in quella trasparente maniera che la nostra società esige e la cui mancanza severamente punisce, anche grazie alla globalizzazione dei sistemi di informazione.
Il principio cardinale da cui il disegno di legge muove la propria ispirazione é, ancora una volta, quello di garantire l'indipendenza, la sostanziale ed apparente imparzialità e la credibilità delle nostre magistrature, perché solo attraverso di ció si realizza quell'obiettivo di centralità delle stesse, a presidio del nostro impianto costituzionale e democratico.
Orbene, si é detto e si é argomentato in ordine al fatto che il divieto di iscrizione, da parte di un magistrato ad un partito politico, costituisca un rimedio peggiore del male, giacché ben piú nociva risulterebbe l'adesione occulta da parte dello stesso ad una, piuttosto che a un'altra, formazione partitica.
E si é detto anche che l'iscrizione al partito politico necessariamente risulta determinativa - per virtú di nesso tra causa ed effetto - di una qualche forma di sudditanza gerarchica, con una conseguente (inaccettabile) diminuzione del principio d'indipendenza del magistrato, oltre che di tradimento del suo impegno/obbligo di riservatezza.
Sembra invero che nessuno di tali due argomenti debba ritenersi esaustivamente convincente e che entrambi suonino, in qualche modo, offensivi nei confronti del "soggetto magistrato".
Revocare infatti in dubbio la capacità di autocensura dello stesso, in un tale ambito, varrebbe necessariamente a dire che ne é registrata la generale inaffidabilità e costituirebbe, senza dubbio, un sintomo di inattenta osservazione del funzionamento della magistratura e della qualità dei suoi singoli appartenenti, conducendo ad erronee conclusioni.
Ed é altresí da respingere l'ulteriore e piú radicale tesi che, sempre meno timidamente, si affaccia tra opinionisti anche autorevoli e di opposto schieramento, secondo cui deve valere, per il magistrato, la generale interdizione della facoltà di esprimere la propria opinione, il che sarebbe in definitiva equivalente al divieto di prendere posizione (se non con le proprie sentenze, questo sí un rimedio peggiore del male) sulle vicende della vita - politica, sociale ed amministrativa - del Paese.
Gli assertori di tale tesi ritengono di detenere un facile strumento argomentativo in una duplice considerazione: in primo luogo, nel fatto che il magistrato é consapevole - all'atto dell'assunzione del proprio ufficio, cui per nulla é obbligato - dell'eccezionalità del mandato che con ció gli é conferito dalla collettività (in pratica, la potestà di condanna e di riduzione - ovvero sospensione - del diritto di libertà dei suoi concittadini, oltre che la potestà di decidere per essi, ove vi sia incapacità a pervenire ad un componimento delle rispettive ragioni).
Eccezionalità del mandato da cui deriva il discendente corollario della particolare (eccezionale) protezione istituzionale che per tale ragione la legge gli assicura, ma anche la discendente conseguenza che egli deve ritenersi - a sua volta - disponibile ad una compressione del proprio diritto di intervenire nelle questioni del Paese e quindi di praticare un peso diverso da quello che gli é proprio e che - si assume - tale deve essere in via esclusiva e senza possibili devianze.
In secondo luogo, sostiene chi argomenta in favore del divieto assoluto di comunicare da parte del giudice, vi é poi il principio della separazione dei poteri, costituzionalmente statuito, che deve essere valorizzato in via assoluta: per cosí dire, inattaccabile anche in via incidentale, come viceversa si verificherebbe ove si consentisse al magistrato - in quanto tale - di esprimere un'opinione di per sé determinativa di un sindacato di legittimità (a volte postumo, a volte addirittura preventivo: in ogni caso individuante un indirizzo legislativo o un condizionamento dell'esecutivo).
La chiave di valutazione che deve sospingere a non condividere una tale prospettazione del problema non é necessariamente collegata alle sue argomentazioni di sostegno che, isolatamente esaminate, possono anche suonare di per sé condivisibili, ma deve viceversa risiedere in una visione realistica e "a tutto campo" della vita e della realtà quotidiana del Paese, delle sue istituzioni e dei suoi cittadini.
L'unica tesi sostenibile é che non puó chiedersi, ai giorni nostri, ad alcuno (e tantomeno al magistrato) di vestire una sorta di veste sacra che lo escluda (ma, alla fine anche - necessariamente - lo estranea) da una partecipazione intellettualmente propositiva alla vita pubblica.
Quello che viceversa si deve chiedere e si puó esigere dal magistrato é che egli sia istituzionalmente corretto, non solo nel suo essere giudice all'interno di sé, ma anche nelle sue manifestazioni esterne. Ma, per conseguire ció, non occorre e non si deve, non si puó privare il magistrato di un diritto - quale é quello d'opinione - che gli é cromosomicamente proprio.
Molto piú semplicemente e seriamente si deve invece procurare che la magistratura, nel suo complesso e attraverso i suoi organi di controllo, davvero e realmente resi funzionanti perché indipendenti anche entro se stessi, autoregoli i limiti costituzionali che le sono imposti anche at traverso le condotte dei suoi singoli appartenenti.
Ma se le considerazioni sopra svolte non dovessero risultare di per sé sufficienti a risolvere il problema della giustificazione del divieto di iscrizione del magistrato ai partiti politici, la soluzione puó essere allora anche altrove ricercata, con una diversa proposta di approccio risolutivo che ha peraltro il pregio della grande semplicità.
Il primo argomento rinviene ragionando a contrario .
Premesso che il nostro ordinamento, al contrario di quello di altri Paesi europei (quali, per esempio, la Repubblica federale di Germania), non configura in termini giuridicamente specifici l'entità "partito politico" (il richiamo contenuto nell'articolo 49 della Costituzione é infatti rimasto normativamente isolato), discende la ovvia e necessaria considerazione che - in assenza di un contenitore definito - in particolare per quanto riguarda l'univoca individuazione di regole di funzionamento interno e di conseguenti garanzie per gli associati, tali da realizzare obbligatorie certezze democratiche, davvero sarebbe imprudente l'inversa soluzione, cioé quella della facoltà di iscrizione al partito o al movimento politico.
Il secondo argomento é quello che, trovando spunto dall'impianto costituzionale vigente della separazione dei poteri (da nessuno revocato in dubbio), conferisce al ragionamento il carattere della pressoché matematica esaustività.
Ove non fosse negata al magistrato la facoltà di iscriversi ad un partito o a un movimento politico, non potrebbe ovviamente essere poi negata - perché vi sarebbe, al contrario, un inemendabile debito logico - la conseguente possibilità, per piú magistrati, di iscriversi ad un medesimo partito politico.
Ed allora dovrebbe accettarsi l'ineludibile ed incontrollabile effetto "cascata", della possibilità che si costituisca ed operi un "partito politico dei magistrati". Se cosí fosse (e cosí inevitabilmente potrebbe essere, ove non vi fosse un arresto in radice del problema), e non essendo cosí stato solo per il residuale "effetto minaccia" dell'articolo 98 della Costituzione, é indubitabile che si verserebbe in un radicale travisamento della sopra richiamata impostazione democratico-costituzionale che il Paese ha voluto darsi, oltre che in un'inaccettabile condizione anche dal punto di vista meramente logico.
Va da sé infatti che obiettivo del partito o del movimento politico non puó che essere quello del conseguimento del primato, non solo di scelta legislativa, ma anche di governo del Paese.
Ed é irrevocabile in dubbio che un Paese autenticamente democratico, non puó certo essere governato da un partito composto da chi é anche giudice, anche nell'ipotesi in cui vi sia un consenso popolare che legittimi tale evento.

* * *

Poche parole vanno spese a commento dell'articolato, che é di grande facilità di lettura e che si propone di regolare il fenomeno congiuntamente con quelli ad esso connessi.
L'articolo 1 ha semplice funzione delimitativa della portata della legge e l'articolo 2 sancisce viceversa il divieto dei magistrati (di tutti i magistrati, con la sola eccezione di quelli tributari, per lo piú non professionali) ad iscriversi non solo ai partiti politici, ma anche a tutti quei movimenti che comunque hanno una rappresentatività nelle assemblee politiche ed amministrative, sia a carattere locale, che no.
L'articolo 3 approfondisce la disciplina, regolando (con il pari divieto) la possibilità di ricoprire cariche di partito, anche non essendovi iscritti, e di partecipare alle relative attività, se non nei casi e con le condizioni previste: condizioni che mirano a consentire agli organi di autogoverno e alle autorità governative di operare i necessari controlli, al fine di evitare il dirottamento delle risorse dai fini istituzionali cui le stesse sono destinate.
L'articolo 4 e l'articolo 5 pongono particolari regole, per i magistrati che intendono candidarsi nelle competizioni elettorali, finalizzate a conseguire massima trasparenza sia sotto il profilo economico (di qui la necessità di perfettamente rappresentare le intese tra di essi e i partiti nelle cui liste sono candidati, anche da indipendenti), sia sotto il profilo della qualità e della collocazione della propaganda elettorale.
L'articolo 6 si preoccupa, viceversa, di precisare - al di là di ogni possibile capziosa interpretazione (per cosi dire, indiretta o analogica) - la assoluta libertà dei magistrati di essere organicamente partecipi a qualsiasi altra associazione o organizzazione (anche a carattere sindacale).
Anche in questo caso ragioni di trasparenza hanno indotto a prevedere che il magistrato dia comunicazione delle proprie decisioni di iniziativa associativa, al fine di impedire - attraverso il bene della chiarezza - il culto del sospetto e i tentativi di delegittimazioni striscianti.
Le limitazioni imposte dal comma 3 del detto articolo 6 (in materia di legale rappresentanza o di incarichi particolari nell'interesse di enti diversi da quelli "di categoria") sono in tutta evidenza dettate dalla necessità di tutela di ragioni prima di tutto di buon senso, e non da altro.
L'articolo 7, infine, determina le sanzioni a carico di chi dovesse contravvenire al disposto della legge, sanzioni aventi carattere esclusivamente disciplinare o amministrativo, e graduate secondo criteri di prevalenza delle varie ipotesi di violazione delle norme.
L'articolo 8 é norma transitoria tesa a disciplinare uno "sganciamento" indolore dei magistrati dalle eventuali situazioni di incompatibilità in cui potranno trovarsi al momento dell'entrata in vigore della legge.





DISEGNO DI LEGGE



Art. 1.

(Finalità della legge)

1. Il diritto dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari di iscriversi a partiti o movimenti politici, ad enti o associazioni, ad organizzazioni o associazioni sindacali o di categoria é disciplinato dalla presente legge.

Art. 2.

(Divieto di iscrizione a partiti
o movimenti politici)


1. I magistrati non possono iscriversi a partiti politici o a movimenti politici anche se non rappresentati nel Parlamento europeo, nel Parlamento nazionale, nelle assemblee e nei consigli regionali, nei consigli provinciali e nei consigli comunali.

Art. 3.

(Partecipazione all'attività dei partiti
o movimenti politici)


1. I magistrati, ancorché non iscritti ai soggetti indicati nell'articolo 2, non possono assumere cariche all'interno di essi, ovvero stabilmente partecipare all'attività dagli stessi pubblicamente svolta, ovvero svolgere attività pubblica nel loro interesse.
2. I magistrati, nel rispetto dell'esigenza di non arrecare pregiudizio alla loro posizione, alle loro funzioni, al proprio prestigio e rendimento professionale, hanno facoltà di partecipare ad iniziative pubbliche promosse dai soggetti di cui all'articolo 2, a titolo personale e senza coinvolgimento del loro ufficio, nel rispetto degli obblighi di ri serbo e di comportamento che sono loro imposti da norme di legge o regolamentari.
3. I magistrati devono dare comunicazione ai Consigli rispettivamente competenti delle iniziative di cui al comma 2, per le quali sia stata richiesta la loro partecipazione, precisando se intendono, o meno, accogliere l'invito. Le comunicazioni sono conservate a cura dei Consigli medesimi.
4. Ai fini della presente legge, per "Consigli rispettivamente competenti" si intendono:

a) il Consiglio superiore della magistratura, relativamente ai magistrati ordinari;
b) il Consiglio di presidenza di cui alla legge 27 aprile 1982, n. 186, relativamente ai magistrati amministrativi;
c) il Consiglio di presidenza della Corte dei conti, relativamente ai magistrati contabili;
d) il Consiglio della magistratura militare, relativamente ai magistrati militari.

Art. 4.

(Comunicazioni inerenti le spese per le competizioni elettorali)

1. I magistrati che intendono partecipare alle competizioni elettorali devono, entro dieci giorni dall'atto dell'accettazione della candidatura, comunicare ai Consigli rispettivamente competenti le intese convenute, direttamente o indirettamente, con qualsivoglia terzo e con i soggetti di cui all'articolo 2, con riferimento ai contributi di propaganda e alle spese in ogni caso pertinenti alla competizione elettorale.
2. La comunicazione di cui al comma 1 é dovuta anche nel caso in cui non sia stata convenuta alcuna intesa, ovvero la stessa intervenga in un momento successivo.
3. Ai fini del presente articolo, per contributi e spese elettorali si intendono:

a) gli importi da riceversi in danaro o con altri mezzi di pagamento;
b) le concessioni di credito e le garanzie prestate per il conseguimento di somme da riceversi in mutuo o attraverso qualsiasi altra forma di credito;
c) i materiali propagandistici e le pubblicità elettorali, ivi comprese le concessioni di tempi o di spazi radiotelevisivi da impiegarsi nell'ambito delle tribune elettorali o di altri programmi a finalità informative dei programmi elettorali;
d) ogni altra utilità, ivi comprese le prestazioni di collaborazione a carattere di volontariato, tesa al sostegno della candidatura;
e) le spese riguardanti le collaborazioni stabili o occasionali da parte di terzi, le spese postali, tipografiche, di trasporto ed ogni altra inerente la competizione elettorale;
f) ogni altra utilità comunque fruibile durante e in relazione alla competizione elettorale.

4. I magistrati devono altresí, al termine delle competizioni elettorali ed entro trenta giorni dalla proclamazione degli eletti, comunicare ai Consigli rispettivamente competenti l'elenco analitico delle spese sostenute ai fini elettorali, indicando specificamente gli eventuali contributi di cui al comma 1, comunque ricevuti dai soggetti di cui all'articolo 2 e da ogni altro.
5. Sono fatte salve le ulteriori vigenti disposizioni di legge e regolamentari in materia elettorale.

Art. 5.

(Divieto di propaganda elettorale nell'ambito delle amministrazioni di appartenenza)

1. I magistrati che intendono partecipare alle competizioni elettorali possono svolgere attività politica di propaganda personale o in vantaggio dei partiti o dei movimenti politici nelle cui liste risultano candidati, anche in posizione indipendente, soltanto al di fuori degli uffici ed ambiti delle amministrazioni di rispettiva appartenenza.

Art. 6.

(Iscrizione ad associazioni anche
a carattere sindacale)


1. I magistrati hanno diritto di iscriversi ad organizzazioni o associazioni sindacali o di categoria e relative correnti, con obbligo di darne comunicazione ai Consigli rispettivamente competenti, entro trenta giorni dalla richiesta o dalla relativa accettazione, ove la stessa sia prevista.
2. Le comunicazioni di cui al comma 1, anche riguardanti eventuali cessazioni della partecipazione o mutamenti, sono senza indugio pubblicate, una volta pervenute da parte dei magistrati ordinari, nel Bollettino ufficiale del Ministero di grazia e giustizia; quelle pervenute da parte dei magistrati amministrativi o contabili, nel Bollettino della Presidenza del Consiglio dei ministri; quelle pervenute dai magistrati militari, nel Bollettino ufficiale del Ministero della difesa.
3. I magistrati hanno altresí facoltà di iscriversi a qualsiasi altro ente o associazione, con l'obbligo di astenersi dall'assumerne la legale rappresentanza, ovvero dal ricoprirne incarichi direttivi, ovvero di accettarne incarichi che comportino, anche in via saltuaria, l'assunzione di obbligazioni nei confronti di terzi.
4. Sono fatte salve le ulteriori vigenti disposizioni di legge e regolamentari in materia di incompatibilità con le funzioni giudiziarie.

Art. 7.

(Sanzioni)

1. La violazione delle disposizioni di cui alla presente legge comportano l'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare da parte degli organi competenti.
2. La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 2, 3, comma 1 e 4, commi 2, 3 e 4, é punita con sanzione non inferiore alla censura e comporta l'inidoneità a ricoprire incarichi direttivi per un periodo non inferiore a cinque anni, eventualmente decorrente dalla ripresa delle funzioni ove le stesse fossero sospese.
3. La violazione delle disposizioni di cui all'articolo 3, comma 3, é punita con sanzione non superiore all'ammonimento.
4. La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 5, 6, commi 1 e 3, e 8 é punita con sanzione non superiore alla censura e comporta l'inidoneità a ricoprire incarichi direttivi per un periodo non inferiore a tre anni.

Art. 8.

(Norme transitorie)

1. I magistrati che esercitano le funzioni giudiziarie e che, al momento della data di entrata in vigore della presente legge, risultino iscritti ai soggetti di cui all'articolo 2 dovranno darne comunicazione ai rispettivi consigli competenti nel termine di trenta giorni e dovranno cessare di farne parte entro i successivi centocinquanta giorni.
2. I magistrati che esercitano le funzioni giudiziarie e che, al momento della data di entrata in vigore della presente legge, si trovino nelle condizioni previste dagli articoli 3, comma 1 e 6, comma 3, dovranno rassegnare le proprie dimissioni dalle cariche o dagli incarichi ricoperti e procurarne la relativa cessazione nel termine di centottanta giorni.