DISEGNO DI LEGGE
d'iniziativa dei senatori CARUSO Antonino, BUCCIERO, CALLEGARO, PORCARI,
GRECO, TRAVAGLIA, MILIO, BEVILACQUA, BOSELLO, BONATESTA, BORNACIN,
CASTELLANI Carla, COZZOLINO, CURTO, DEMASI, FLORINO Michele, LISI,
MAGNALBÓ, MANTICA, MARRI, MARTELLI, MONTELEONE, PALOMBO, PASQUALI,
PELLICINI, PONTONE, RECCIA, SERVELLO e SPECCHIA
COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 23 LUGLIO 1998
Divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati e norme riguardanti la propaganda elettorale e la partecipazione degli stessi ad enti ed associazioni
ONOREVOLI SENATORI. - Il disegno di legge che é sottoposto al
vostro esame si propone di esercitare, con riferimento agli appartenenti
alla magistratura, la facoltà legislativa specificamente prevista dal
terzo comma dell'articolo 98 della Costituzione.
Tale norma, riguardante piú in generale tutti i pubblici
impiegati, esordisce con una forte statuizione di principio, affermando al
primo comma che: "I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della
Nazione".
Quasi, poi, a rafforzare tale principio e tale avvertita esigenza della
totale ed assorbente dedizione degli esercenti pubbliche funzioni nei
confronti degli interessi dello Stato, vi é la parte conclusiva della
norma stessa: "Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto
d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in
servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti
diplomatici e consolari all'estero.".
La lettura
ex post
della norma nel suo insieme potrebbe quasi indurre a pensare che i
Costituenti avessero ritenuto opportuno, dopo aver affermato nei confronti
della generalità dei pubblici dipendenti il principio
dell'esclusività del servizio (certamente non estensibile alle
attività extraprofessionali), che fosse ritagliata la pratica
possibilità per il legislatore ordinario di escludere, in futuro e
all'occorrenza, i soggetti appartenenti ad alcune categorie, per cosí
dire "strategiche" per il funzionamento dello Stato, dalla facoltà di
occuparsi di politica. Perché, onorevoli Senatori, la non iscrizione
ai partiti politici - nell'anno 1946 e nella prospettiva di sviluppo
tecnologico che si poteva allora realisticamente immaginare - corrispondeva,
in realtà, alla pressoché totale impossibilità di
occuparsi di politica.
La scelta operata si prestava dunque ad una possibilità di lettura
nel senso dell'oggettiva razionalità e dell'esigenza di privilegio di
una posizione conservativa con riferimento ad apparati ritenuti nodali per
l'imparziale funzionamento dello Stato.
In realtà non si é trattato di questo, perché la
scelta normativa adottata dall'Assemblea Costituente fu, in realtà,
quella di non scegliere.
Le posizioni assunte dalle varie parti, nel contesto del dibattito
costituzionale, furono ovviamente le piu diametrali e, tra queste, spiccava
anche allora per fermezza quella assunta proprio dalla categoria
principalmente interessata: quella dei magistrati.
Si ritiene invero interessante soffermarsi su tale aspetto della
questione, per piú ragioni: per la novità di alcuni temi, per
l'autorevolezza di chi li argomentó, per le dimensioni del fenomeno
e, infine, per la visibile "tradizionalità" di talune posizioni.
Un buon punto di partenza per riferire sull'argomento sembra essere
quello del puntuale riporto dei risultati del
referendum
indetto nel 1946, fra i suoi iscritti, dall'Associazione nazionale
magistrati,
referendum
articolato sui seguenti tre quesiti che testualmente si trascrivono a
corredo delle relative risposte:
a) Ritieni che le funzioni di magistrato siano incompatibili con
l'iscrizione ad un partito politico? "Incompatibili" 1318; "Non
incompatibili" 180;
b) Ritieni che la incompatibilità si estenda anche alle
associazioni avente carattere politico? "Incompatibili" 1278; "Non
incompatibili" 187;
c) Ritieni che la incompatibilità debba riferirsi anche
alle associazioni segrete? "Incompatibili" 1378; "Non incompatibili"
113.
Non solo.
I tre sopraddetti quesiti erano infatti accompagnati da un ulteriore,
comune a tutti essi, che era riservato a quanti si fossero dichiarati
favorevoli alla incompatibilità e che invitava a precisare se era
ritenuto che il divieto (di iscrizione ai partiti e alle associazioni
politiche, segrete o non segrete) dovesse essere, o meno, costituzionalmente
istituzionalizzato.
Le risposte rispettivamente furono:
1) "sí": 1219 "no": 201;
2) "sí": 1156 "no": 253;
3) "sí": 1258 "no": 181.
Si ritiene che i dati riportati non siano suscettibili di alcun possibile
commento e che gli stessi non siano tali da consentire che potesse generarsi
un qualsiasi dubbio sull'orientamento che si era formato in capo ai
magistrati di allora.
I magistrati non volevano che fosse loro consentita l'iscrizione ai
partiti politici (o a formazioni consimili) e volevano che il relativo
divieto fosse inserito in Costituzione.
L'articolo 98 della stessa doveva dunque, a parer loro, contenere una
formulazione positiva ed immediatamente attuativa della disposizione.
Ma al di là di ció pare altresí utile riportare le
ragioni di fondo che suscitarono la riferita posizione che, con buona pace
di chi volesse liquidare superficialmente il problema, non erano affatto
qualunquistiche ed anzi erano informate a forte senso civico, a chiara
visione della funzione giurisdizionale e a precise considerazioni di
convenienza.
"Il magistrato, prima di essere tale, é cittadino. Cittadino che
sente e deve sentire gli impulsi della vita sociale e politica; anch'egli,
come cittadino, puó sentire, nel momento in cui é chiamato ad
adempiere al dovere civico di partecipare, con il voto, alla vita politica
del suo paese, delle preferenze per un partito che meglio risponda a suoi
sentimenti ed ai suoi principi; come puó sentire di non avere alcuna
fiducia nei partiti partecipanti alla lotta. La qualità di magistrato
deve tuttavia, anche in tale aspetto della vita, prevalere su quella di
cittadino, nel senso che egli potrà avere le sue idee politiche,
[votarle], ma non deve fare professione di fede politica.".
Cosí scriveva il Vitanza ma, in identica direzione, altri si
esprimevano: come Luigi Ciffo e come il presidente stesso dell'Associazione
nazionale magistrati, il presidente Piga, il quale - addirittura - spingeva
la necessità di massima protezione (per quel tempo) dei
princípi di istituzionalizzata indipendenza della magistratura,
arrivando a teorizzare, in via a ció funzionale,
l'asindacalità delle associazioni di magistrati (in quel momento,
dell'Associazione).
"Già il senso etimologico di "partito", "partigiano", contrasta
con quella di "giudice" che non é parte, ma giudica sulle pretese
delle parti, mantenendosi estraneo ad esse.
Ogni partito politico, per quanto elevate possano essere le
idealità alle quali si ispira, ha un angolo di visuale che non
abbraccia la totalità della vita politica nelle sue intime e
complesse esigenze. Il partito politico ha, della realtà, vedute
parziali e mutevoli, ogni partito vive di simpatie e di protezioni per i
propri gregari, di avversione o, per lo meno, di noncuranza per i seguaci
degli altri partiti, specie se contrari.". Ed ancora: "Se
l'imparzialità impone ad ogni singolo giudice di essere al di sopra
delle parti processuali, quel principio, trasferito al livello dell'intera
magistratura, si traduce nel principio dell'apoliticità, che é
principio realizzabile solo attraverso la estraneità dei suoi
componenti ai partiti, cosicché si abbia una magistratura veramente
elevata che, al di fuori e al di sopra di qualsiasi competizione, sieda
arbitra fra le contese delle parti ...." (P. Traina, 1949).
Forte senso civico e chiara visione della funzione giurisdizionale (e
della sua centralità), sopra si diceva, ma anche realistiche
considerazioni di convenienza, già allora giocate sull'aspetto
centrale del "riserbo".
"Potrebbe il giudice essere dotto, affidabile, esperto nel giudicare;
potrebbero le sue sentenze essere capolavori; potrebbe essergli riconosciuta
prudenza e morigeratezza; non gli sarebbe peró risparmiato, se egli
sia iscritto ad un partito politico [ovvero - aggiungiamo - visibilmente
organico alle posizioni dello stesso], il sospetto di partigianeria
qualora l'oggetto della controversia [la sua strumentalità o
l'inusualità dell'azione] o la qualità dei litiganti
faccia credere possibile l'influenza o l'intrigo della politica.
Il sospetto, anche se risultasse realmente infondato, nuoce al prestigio
del giudice che deve, oltre che essere, apparire onesto ed imparziale; e per
giudicare serenamente e con senso di autorità gli uomini [tutti
gli uomini], a qualunque partito appartengano, bisogna non avere legami
di sorta con partiti e tanto meno militare in essi.". (F. Vitanza).
Peraltro il problema del commento delle sentenze, da parte dell'opinione
pubblica (qualificata e non) già da allora si poneva, e con grande
preoccupazione della magistratura stessa che, del tutto ragionatamente, si
mostrava convinta del fatto che i rimedi piú radicali dovessero
ricercarsi proprio all'interno delle proprie condotte, anche in termini di
(auto) limitazione: "qualunque sacrificio é un obbligo sacrosanto per
chi ha abbracciato la missione di giudice, dovendosi anteporre i fini della
giustizia ai fini personali anche a costo di gravi disagi" (non si tratta di
parole dell'attuale Capo dello Stato, ma del presidente Piga
dell'Associazione nazionale magistrati).
E si riporta, a titolo di aneddoto a conclusione di questo breve
excursus
sulle "reazioni dei cittadini alle sentenze", lo scambio di battute -
avvenuta nel 1950 - tra il Sottosegretario alla Presidenza del consiglio di
quel Governo (l'allora onorevole Andreotti) e "Magistratura", l'organo
giornalistico dell'Associazione.
L'onorevole Andreotti lamentava la scarsa incisività dell'azione
della magistratura in tema di pubblicazioni oscene e richiamava
"all'attenzione e alla coscienza dei magistrati la necessità di
interpretazioni scevre da lassistiche deviazioni ... ".
I magistrati rispondevano, piccati: "Sarà anche avvenuto che,
nelle centinaia e centinaia di sentenze che i giudici hanno pronunciato in
materia, qualcuna non sia stata del tutto commendevole, cosí come non
tutto é perfetto nelle sfere di questo basso mondo, uffici del
Sottosegretario alla Presidenza non esclusi. In questi termini modesti la
critica poteva anche essere calzante. Quel che non é ammissibile
é il tono del monito dell'onorevole Andreotti, il suo carattere di
generalità fuori d'ogni fondamento.
Legga, l'onorevole Sottosegretario, nei ritagli del suo tempo, e
apprenderà ...".
Sostenere che l'On. Andreotti fosse uomo di poche letture sembra invero
un fuor d'opera ed un argomento da poco (smentito, quantomeno, dalla sua
storia successiva a chiunque nota), ma l'aneddoto é testimonianza
evidente di quale fosse lo stato d'animo della magistratura, pronta ad
accendere polemica, anche su questioni non capitali, a fronte di
un'invadenza dell'esame politico sul merito della propria opera, in un
concetto di separazione assoluta delle due funzioni, a cui essa era (ed era
stata) disponibile ad apportare - questo é il vero fatto rilevante -
anche il contributo della propria rinuncia, nel senso della limitazione, a
propri diritti di per sé legittimi.
Insomma, una posizione del tutto chiara da parte della Magistratura -
all'epoca dei lavori dell'Assemblea costituente - con riferimento alla
questione che é ora riproposta con questo disegno di legge, in
materia di divieto di iscrizione ai partiti o ai movimenti politici.
Una posizione tanto univoca e tanto chiara, quanto del tutto inascoltata.
Non serví infatti a convincere quanti ai detti lavori attendevano
in quel momento, perché la soluzione scelta fu - come già
sopra detto - quella di non scegliere e di limitarsi alla riserva di una
sorta d'opzione da eventualmente esercitarsi in sede di ordinaria
legislazione.
L'Assemblea costituente, in luogo di coraggiosamente sciogliere il nodo
gordiano che si profilava alla luce del dibattito fra i suoi componenti,
preferí assumere quella che in sostanza fu una non-posizione.
Non diversamente si é tuttavia regolato il Parlamento, il quale
intervenne solo con riferimento agli ulteriori soggetti indicati nel citato
articolo 98 della Costituzione, e cioé militari in carriera,
funzionari di polizia, eccetera, e mai in relazione agli appartenenti alla
magistratura.
Qualche proposta per il vero vi fu e, in epoca perlomeno prossima, il
problema riprese quota a partire dalla metà degli anni settanta,
quando piu parti politiche riaprirono il dibattito, che si
concretizzó in disegni di legge presentati - tra il 1979 e il 1988 -
da varie componenti parlamentari.
Non se ne fece nulla e non se ne é fatto nulla (questo sembra
invero il dato piú allarmante) nell'ambito dei lavori svolti - in
questa legislatura - dalla Commissione parlamentare per la revisione della
seconda parte della Costituzione.
La Commissione bicamerale ha infatti operato modifiche (anche
sostanziali) sui primi due commi dell'articolo 98, ma ha lasciato del tutto
immodificato il terzo.
Delle due, l'una: poteva ritenersi che l'argomento dovesse considerarsi
superato, nella presunzione che non vi é necessità di tanta
separazione fra i due poteri dello Stato, oppure - viceversa - considerare
che la storia del nostro Paese e la storia della nostra magistratura, non
soltanto con riferimento ai giorni nostri, ma anche pensando alle dipendenze
(anche economiche e anche amministrative) che la magistratura ha subito dai
Palazzi nel corso del tempo, ci insegnano la obbligatoria esigenza di regole
precise, a complemento di quelle sulle incompatibilità dei
magistrati, in materia di rapporti "giudici-politica".
Quel che é certo é che, a distanza di cinquant'anni dalla
"prima" Costituzione, poteva ben assumersi una decisione, regolamentando -
già in sede di carta costituzionale - la materia, ovvero
sopprimendone la previsione.
Ma tant'é, ed ecco che, anche falliti i successivi tentativi
(assai timidi, per la verità, e - per questo - forse poco efficaci)
contenuti nelle piú ampie proposte legislative avanzate dal ministro
Mancuso (nella XII legislatura), dall'onorevole Gian Franco Anedda e
dall'attuale Guardasigilli, viene proposto questo nuovo disegno di legge che
- prendendo le mosse da tutto il precedente e ricordato dibattito - mira ad
una definizione del problema, in senso negativo. Nel senso, cioé, del
divieto di iscrizione dei magistrati ai partiti e ai movimenti politici, a
fronte - tuttavia - del rispetto per la libera espressione dei loro
convincimenti, da realizzarsi in quella trasparente maniera che la nostra
società esige e la cui mancanza severamente punisce, anche grazie
alla globalizzazione dei sistemi di informazione.
Il principio cardinale da cui il disegno di legge muove la propria
ispirazione é, ancora una volta, quello di garantire l'indipendenza,
la sostanziale ed apparente imparzialità e la credibilità
delle nostre magistrature, perché solo attraverso di ció si
realizza quell'obiettivo di centralità delle stesse, a presidio del
nostro impianto costituzionale e democratico.
Orbene, si é detto e si é argomentato in ordine al fatto
che il divieto di iscrizione, da parte di un magistrato ad un partito
politico, costituisca un rimedio peggiore del male, giacché ben
piú nociva risulterebbe l'adesione occulta da parte dello stesso ad
una, piuttosto che a un'altra, formazione partitica.
E si é detto anche che l'iscrizione al partito politico
necessariamente risulta determinativa - per virtú di nesso tra causa
ed effetto - di una qualche forma di sudditanza gerarchica, con una
conseguente (inaccettabile) diminuzione del principio d'indipendenza del
magistrato, oltre che di tradimento del suo impegno/obbligo di riservatezza.
Sembra invero che nessuno di tali due argomenti debba ritenersi
esaustivamente convincente e che entrambi suonino, in qualche modo,
offensivi nei confronti del "soggetto magistrato".
Revocare infatti in dubbio la capacità di autocensura dello
stesso, in un tale ambito, varrebbe necessariamente a dire che ne é
registrata la generale inaffidabilità e costituirebbe, senza dubbio,
un sintomo di inattenta osservazione del funzionamento della magistratura e
della qualità dei suoi singoli appartenenti, conducendo ad erronee
conclusioni.
Ed é altresí da respingere l'ulteriore e piú
radicale tesi che, sempre meno timidamente, si affaccia tra opinionisti
anche autorevoli e di opposto schieramento, secondo cui deve valere, per il
magistrato, la generale interdizione della facoltà di esprimere la
propria opinione, il che sarebbe in definitiva equivalente al divieto di
prendere posizione (se non con le proprie sentenze, questo sí un
rimedio peggiore del male) sulle vicende della vita - politica, sociale ed
amministrativa - del Paese.
Gli assertori di tale tesi ritengono di detenere un facile strumento
argomentativo in una duplice considerazione: in primo luogo, nel fatto che
il magistrato é consapevole - all'atto dell'assunzione del proprio
ufficio, cui per nulla é obbligato - dell'eccezionalità del
mandato che con ció gli é conferito dalla collettività
(in pratica, la potestà di condanna e di riduzione - ovvero
sospensione - del diritto di libertà dei suoi concittadini, oltre che
la potestà di decidere per essi, ove vi sia incapacità a
pervenire ad un componimento delle rispettive ragioni).
Eccezionalità del mandato da cui deriva il discendente corollario
della particolare (eccezionale) protezione istituzionale che per tale
ragione la legge gli assicura, ma anche la discendente conseguenza che egli
deve ritenersi - a sua volta - disponibile ad una compressione del proprio
diritto di intervenire nelle questioni del Paese e quindi di praticare un
peso diverso da quello che gli é proprio e che - si assume - tale
deve essere in via esclusiva e senza possibili devianze.
In secondo luogo, sostiene chi argomenta in favore del divieto assoluto
di comunicare da parte del giudice, vi é poi il principio della
separazione dei poteri, costituzionalmente statuito, che deve essere
valorizzato in via assoluta: per cosí dire, inattaccabile anche in
via incidentale, come viceversa si verificherebbe ove si consentisse al
magistrato - in quanto tale - di esprimere un'opinione di per sé
determinativa di un sindacato di legittimità (a volte postumo, a
volte addirittura preventivo: in ogni caso individuante un indirizzo
legislativo o un condizionamento dell'esecutivo).
La chiave di valutazione che deve sospingere a non condividere una tale
prospettazione del problema non é necessariamente collegata alle sue
argomentazioni di sostegno che, isolatamente esaminate, possono anche
suonare di per sé condivisibili, ma deve viceversa risiedere in una
visione realistica e "a tutto campo" della vita e della realtà
quotidiana del Paese, delle sue istituzioni e dei suoi cittadini.
L'unica tesi sostenibile é che non puó chiedersi, ai giorni
nostri, ad alcuno (e tantomeno al magistrato) di vestire una sorta di veste
sacra che lo escluda (ma, alla fine anche - necessariamente - lo estranea)
da una partecipazione intellettualmente propositiva alla vita pubblica.
Quello che viceversa si deve chiedere e si puó esigere dal
magistrato é che egli sia istituzionalmente corretto, non solo nel
suo essere giudice all'interno di sé, ma anche nelle sue
manifestazioni esterne. Ma, per conseguire ció, non occorre e non si
deve, non si puó privare il magistrato di un diritto - quale é
quello d'opinione - che gli é cromosomicamente proprio.
Molto piú semplicemente e seriamente si deve invece procurare che
la magistratura, nel suo complesso e attraverso i suoi organi di controllo,
davvero e realmente resi funzionanti perché indipendenti anche entro
se stessi, autoregoli i limiti costituzionali che le sono imposti anche at
traverso le condotte dei suoi singoli appartenenti.
Ma se le considerazioni sopra svolte non dovessero risultare di per
sé sufficienti a risolvere il problema della giustificazione del
divieto di iscrizione del magistrato ai partiti politici, la soluzione
puó essere allora anche altrove ricercata, con una diversa proposta
di approccio risolutivo che ha peraltro il pregio della grande
semplicità.
Il primo argomento rinviene ragionando a contrario .
Premesso che il nostro ordinamento, al contrario di quello di altri Paesi
europei (quali, per esempio, la Repubblica federale di Germania), non
configura in termini giuridicamente specifici l'entità "partito
politico" (il richiamo contenuto nell'articolo 49 della Costituzione
é infatti rimasto normativamente isolato), discende la ovvia e
necessaria considerazione che - in assenza di un contenitore definito - in
particolare per quanto riguarda l'univoca individuazione di regole di
funzionamento interno e di conseguenti garanzie per gli associati, tali da
realizzare obbligatorie certezze democratiche, davvero sarebbe imprudente
l'inversa soluzione, cioé quella della facoltà di iscrizione
al partito o al movimento politico.
Il secondo argomento é quello che, trovando spunto dall'impianto
costituzionale vigente della separazione dei poteri (da nessuno revocato in
dubbio), conferisce al ragionamento il carattere della pressoché
matematica esaustività.
Ove non fosse negata al magistrato la facoltà di iscriversi ad un
partito o a un movimento politico, non potrebbe ovviamente essere poi negata
- perché vi sarebbe, al contrario, un inemendabile debito logico - la
conseguente possibilità, per piú magistrati, di iscriversi ad
un medesimo partito politico.
Ed allora dovrebbe accettarsi l'ineludibile ed incontrollabile effetto
"cascata", della possibilità che si costituisca ed operi un "partito
politico dei magistrati". Se cosí fosse (e cosí
inevitabilmente potrebbe essere, ove non vi fosse un arresto in radice del
problema), e non essendo cosí stato solo per il residuale "effetto
minaccia" dell'articolo 98 della Costituzione, é indubitabile che si
verserebbe in un radicale travisamento della sopra richiamata impostazione
democratico-costituzionale che il Paese ha voluto darsi, oltre che in
un'inaccettabile condizione anche dal punto di vista meramente logico.
Va da sé infatti che obiettivo del partito o del movimento
politico non puó che essere quello del conseguimento del primato, non
solo di scelta legislativa, ma anche di governo del Paese.
Ed é irrevocabile in dubbio che un Paese autenticamente
democratico, non puó certo essere governato da un partito composto da
chi é anche giudice, anche nell'ipotesi in cui vi sia un consenso
popolare che legittimi tale evento.
* * *
Poche parole vanno spese a commento dell'articolato, che é di
grande facilità di lettura e che si propone di regolare il fenomeno
congiuntamente con quelli ad esso connessi.
L'articolo 1 ha semplice funzione delimitativa della portata della legge
e l'articolo 2 sancisce viceversa il divieto dei magistrati (di tutti i
magistrati, con la sola eccezione di quelli tributari, per lo piú non
professionali) ad iscriversi non solo ai partiti politici, ma anche a tutti
quei movimenti che comunque hanno una rappresentatività nelle
assemblee politiche ed amministrative, sia a carattere locale, che no.
L'articolo 3 approfondisce la disciplina, regolando (con il pari divieto)
la possibilità di ricoprire cariche di partito, anche non essendovi
iscritti, e di partecipare alle relative attività, se non nei casi e
con le condizioni previste: condizioni che mirano a consentire agli organi
di autogoverno e alle autorità governative di operare i necessari
controlli, al fine di evitare il dirottamento delle risorse dai fini
istituzionali cui le stesse sono destinate.
L'articolo 4 e l'articolo 5 pongono particolari regole, per i magistrati
che intendono candidarsi nelle competizioni elettorali, finalizzate a
conseguire massima trasparenza sia sotto il profilo economico (di qui la
necessità di perfettamente rappresentare le intese tra di essi e i
partiti nelle cui liste sono candidati, anche da indipendenti), sia sotto il
profilo della qualità e della collocazione della propaganda
elettorale.
L'articolo 6 si preoccupa, viceversa, di precisare - al di là di
ogni possibile capziosa interpretazione (per cosi dire, indiretta o
analogica) - la assoluta libertà dei magistrati di essere
organicamente partecipi a qualsiasi altra associazione o organizzazione
(anche a carattere sindacale).
Anche in questo caso ragioni di trasparenza hanno indotto a prevedere che
il magistrato dia comunicazione delle proprie decisioni di iniziativa
associativa, al fine di impedire - attraverso il bene della chiarezza - il
culto del sospetto e i tentativi di delegittimazioni striscianti.
Le limitazioni imposte dal comma 3 del detto articolo 6 (in materia di
legale rappresentanza o di incarichi particolari nell'interesse di enti
diversi da quelli "di categoria") sono in tutta evidenza dettate dalla
necessità di tutela di ragioni prima di tutto di buon senso, e non da
altro.
L'articolo 7, infine, determina le sanzioni a carico di chi dovesse
contravvenire al disposto della legge, sanzioni aventi carattere
esclusivamente disciplinare o amministrativo, e graduate secondo criteri di
prevalenza delle varie ipotesi di violazione delle norme.
L'articolo 8 é norma transitoria tesa a disciplinare uno
"sganciamento" indolore dei magistrati dalle eventuali situazioni di
incompatibilità in cui potranno trovarsi al momento dell'entrata in
vigore della legge.
DISEGNO DI LEGGE |
Art. 1.
(Finalità della legge)
1. Il diritto dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili e
militari di iscriversi a partiti o movimenti politici, ad enti o
associazioni, ad organizzazioni o associazioni sindacali o di categoria
é disciplinato dalla presente legge.
|
Art. 2.
(Divieto di iscrizione a partiti
1. I magistrati non possono iscriversi a partiti politici o a movimenti
politici anche se non rappresentati nel Parlamento europeo, nel Parlamento
nazionale, nelle assemblee e nei consigli regionali, nei consigli
provinciali e nei consigli comunali.
|
Art. 3.
(Partecipazione all'attività dei partiti
1. I magistrati, ancorché non iscritti ai soggetti indicati
nell'articolo 2, non possono assumere cariche all'interno di essi, ovvero
stabilmente partecipare all'attività dagli stessi pubblicamente
svolta, ovvero svolgere attività pubblica nel loro interesse.
a)
il Consiglio superiore della magistratura, relativamente ai magistrati
ordinari;
|
Art. 4.
(Comunicazioni inerenti le spese per le competizioni elettorali)
1. I magistrati che intendono partecipare alle competizioni elettorali
devono, entro dieci giorni dall'atto dell'accettazione della candidatura,
comunicare ai Consigli rispettivamente competenti le intese convenute,
direttamente o indirettamente, con qualsivoglia terzo e con i soggetti di
cui all'articolo 2, con riferimento ai contributi di propaganda e alle spese
in ogni caso pertinenti alla competizione elettorale.
a)
gli importi da riceversi in danaro o con altri mezzi di pagamento;
4. I magistrati devono altresí, al termine delle competizioni
elettorali ed entro trenta giorni dalla proclamazione degli eletti,
comunicare ai Consigli rispettivamente competenti l'elenco analitico delle
spese sostenute ai fini elettorali, indicando specificamente gli eventuali
contributi di cui al comma 1, comunque ricevuti dai soggetti di cui
all'articolo 2 e da ogni altro.
|
Art. 5.
(Divieto di propaganda elettorale nell'ambito delle amministrazioni di
appartenenza)
1. I magistrati che intendono partecipare alle competizioni elettorali
possono svolgere attività politica di propaganda personale o in
vantaggio dei partiti o dei movimenti politici nelle cui liste risultano
candidati, anche in posizione indipendente, soltanto al di fuori degli
uffici ed ambiti delle amministrazioni di rispettiva appartenenza.
|
Art. 6.
(Iscrizione ad associazioni anche
1. I magistrati hanno diritto di iscriversi ad organizzazioni o
associazioni sindacali o di categoria e relative correnti, con obbligo di
darne comunicazione ai Consigli rispettivamente competenti, entro trenta
giorni dalla richiesta o dalla relativa accettazione, ove la stessa sia
prevista.
|
Art. 7.
(Sanzioni)
1. La violazione delle disposizioni di cui alla presente legge comportano
l'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare da parte degli organi
competenti.
|
Art. 8.
(Norme transitorie)
1. I magistrati che esercitano le funzioni giudiziarie e che, al momento
della data di entrata in vigore della presente legge, risultino iscritti ai
soggetti di cui all'articolo 2 dovranno darne comunicazione ai rispettivi
consigli competenti nel termine di trenta giorni e dovranno cessare di farne
parte entro i successivi centocinquanta giorni.
|