Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 1-00190

Atto n. 1-00190

Pubblicato il 20 ottobre 2009, nella seduta n. 267
Esame concluso nella seduta n. 343 dell'Assemblea (02/03/2010)

D'ALIA , CUFFARO , FOSSON , GIAI , PETERLINI , PINZGER , POLI BORTONE , SERRA , THALER AUSSERHOFER

Il Senato,

premesso che:

l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha sempre proclamato il proprio impegno per il rispetto dei diritti dell’uomo e delle liberà fondamentali, in particolare quelli garantiti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, così come i Paesi appartenenti all’Unione europea hanno esplicitamente confermato il proprio impegno riguardo ai diritti fondamentali nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottata a Roma nel 1950, che all’art. 3 prevede: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”;

il principio del non refoulement è il caposaldo della protezione internazionale dei rifugiati. Esso è enunciato all’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, vincolante anche per gli Stati parte del Protocollo del 1967 che recita: “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) - in nessun modo - un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”;

obblighi di non refoulement che completano quelli derivanti dalla Convenzione del 1951 sono stabiliti anche da altre norme di diritto internazionale relative ai diritti umani. Un'esplicita disposizione sul non refoulement è contenuta nell’art. 3 della Convenzione di New York contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984, che proibisce il trasferimento di una persona in un Paese dove vi siano fondati motivi di ritenere che la stessa sarebbe in pericolo di essere sottoposta a tortura;

il principio di non refoulement si traduce nell’obbligo di non trasferimento, diretto o indiretto, di un rifugiato o di un richiedente asilo in un luogo nel quale la sua vita o libertà sarebbe in pericolo a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale od opinioni politiche. Anche il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un Paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l’unica forma di respingimento: il rinvio indiretto verso un Paese terzo che potrebbe successivamente inviare la persona verso il Paese di temuta persecuzione costituisce respingimento, ed in questo caso entrambi i Paesi sarebbero ritenuti responsabili. Quindi, nessun richiedente asilo dovrebbe essere rinviato verso un Paese terzo che non possa garantire criteri base di protezione, quali osservanza del principio di non respingimento, impegno ad esaminare in maniera imparziale ed obiettiva la domanda di asilo della persona, nonché capacità e volontà di fornire efficace protezione in tutti i casi;

la comunità internazionale ritiene che il divieto di refoulement dei rifugiati, così come contenuto nell’art. 33 della Convenzione del 1951, e completato dagli obblighi di non refoulement previsti dal diritto internazionale, sia una norma consuetudinaria secondo il diritto internazionale. Come tale esso è vincolante per tutti gli Stati, compresi quelli che non hanno aderito alla Convenzione del 1951 e/o al relativo Protocollo del 1967;

il principio di non refoulement è inoltre inderogabile. Infatti l’unica eccezione all’osservanza dello stesso, contenuta al comma 2 dell’art. 33 della richiamata Convenzione del 1951, che ammette il respingimento se il rifugiato è pericoloso per la sicurezza dello Stato, non inficia tale carattere in quanto occorre tener conto di altre norme del diritto internazionale, in particolare dell’art. 3 della Convenzione contro la tortura: allo Stato ospitante sarebbe comunque vietato trasferire qualsiasi persona se tale azione esponesse quest'ultima, ad esempio, ad un reale rischio di tortura o di altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti;

il principio di non respingimento non è soggetto ad alcuna limitazione geografica: gli Stati sono obbligati a rispettarlo in qualunque luogo nel quale esercitino la loro giurisdizione, acque internazionali incluse. L’obbligo di non refoulement ai sensi dell’art. 33 della Convenzione del 1951 è vincolante su tutti gli organi di uno Stato parte della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967, così come di ogni altra persona o ente che agisce per loro conto;

pertanto, un’interpretazione che restringesse l’ambito di applicazione dell’art. 33, comma 1, della Convenzione del 1951 a comportamenti che si verificano dentro il territorio di uno Stato parte sarebbe contraria ai termini della disposizione, e sarebbe anche incoerente con le norme pertinenti di diritto internazionale. Infatti per gli obblighi di non refoulement, il criterio decisivo non è se i migranti si trovino nel territorio dello Stato, quanto piuttosto se essi si trovino sotto l’effettivo controllo e autorità di quello Stato. Rilevante a tal fine è la sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Issa ed Ors contro la Turchia, dove si afferma che: uno Stato può essere considerato responsabile di violazioni dei diritti e delle libertà contenute nella Convenzione di persone che si trovano nel territorio di un altro Stato, ma che si trovano sotto l’autorità e il controllo del primo Stato attraverso l’azione di suoi agenti – sia essa legale o non legale – nel secondo Stato. In tali situazioni la responsabilità deriva dal fatto che l’art. 1 della Convenzione non può essere interpretato in modo da consentire a uno Stato parte di perpetrare violazioni della Convenzione sul territorio di un altro Stato, che non potrebbe perpetrare sul suo territorio. Quindi, l’obbligo di non respingere un rifugiato o un richiedente asilo vieta, indipendentemente dal luogo dal quale esso venga effettuato, non solo l’espulsione e il respingimento alle frontiere dello Stato ma anche qualsiasi rinvio o riaccompagnamento verso il luogo della temuta persecuzione o verso uno Stato che a sua volta non offra adeguata protezione;

inoltre il principio del non refoulement si applica non solo nei confronti di chi è stato già dichiarato rifugiato ma nei confronti anche di chi potrebbe esserlo dal momento che il riconoscimento dello status di rifugiato ha valore dichiarativo: una persona non diventa un rifugiato perché è stata riconosciuta come tale, ma è riconosciuta come tale proprio perché è un rifugiato. Pertanto gli Stati prima di procedere a qualsiasi forma di espulsione o respingimento devono assicurarsi che le persone da respingere/espellere non siano o non saranno a rischio di subire trattamenti proibiti dalle Convenzioni internazionali e devono mettere le stesse nella condizione di poter portare all'attenzione delle competenti autorità un eventuale bisogno di protezione internazionale;

considerato che:

l’art. 10, terzo comma, della Costituzione recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”; da ciò deriva in capo allo Stato italiano l’obbligo costituzionale di garantire il diritto d’asilo;

il Testo unico sulla disciplina dell’immigrazione e sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, e successive modificazioni ed integrazioni, sancisce il principio del non refoulement. In particolare l’art. 19, comma 1, recita “In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. Inoltre, al comma 2 si dispone il divieto di espellere minori e donne in stato di gravidanza;

da circa otto anni, i Paesi meridionali dell’Unione europea, in particolare l’Italia, hanno visto arrivare, e in maniera crescente, sulle proprie coste migliaia di persone in fuga da guerre e persecuzioni o in cerca di una vita migliore. Si tratta di flussi migratori “misti”, costituiti cioè sia da migranti per ragioni economiche che da potenziali rifugiati;

complessivamente, secondo dati dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, alla fine del 2008 in Europa, vi erano 1,6 milioni di rifugiati. La distribuzione dei rifugiati nei Paesi europei non è omogenea. Si passa da Paesi come Norvegia, Germania e Svezia che ospitano oltre 7 rifugiati ogni 1.000 abitanti, ad altri, come alcuni Paesi dell’Europa meridionale, dove si conta meno di un rifugiato ogni 1.000 residenti. In Italia i rifugiati sono circa 47.000, pari a 0,7 ogni 1.000 abitanti, ovvero un rifugiato ogni 1.500 residenti circa;

più del 70 per cento delle 31.200 domande d’asilo presentate nel 2008 in Italia provengono da persone sbarcate sulle coste meridionali del Paese. Il 75 per cento circa dei 36.000 migranti sbarcati sulle coste italiane nel 2008 – ovvero tre su quattro – ha presentato domanda d’asilo, sul posto o successivamente, mentre il tasso di riconoscimento di una qualche forma di protezione (status di rifugiato o protezione sussidiaria/umanitaria) delle persone arrivate via mare è stato di circa il 50 per cento. Nel 2008, il maggior numero di domande di asilo in Italia è stato presentato da cittadini provenienti dalla Nigeria, seguiti da persone in fuga dalla Somalia e dall’Eritrea, dall’Afghanistan, dalla Costa d’Avorio e dal Ghana;

l’Italia ha sottoscritto in data 4 febbraio 2009 il Protocollo di attuazione dell’Accordo di collaborazione Italia-Libia del 29 dicembre 2007 che prevede l’organizzazione di pattugliamenti marittimi congiunti, nonché il Trattato di amicizia Italia-Libia che, tra le altre cose, all’art. 19 prevede accordi di collaborazione per combattere l’immigrazione clandestina;

alla luce di ciò sono stati sempre più frequenti i respingimenti dei migranti verso la Libia. La Libia, nonostante non abbia firmato la Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 ma abbia sottoscritto la Convenzione dell’Organizzazione dell’Unione africana (OUA) del 1969 sul tema, non possiede una legge sull’asilo né un sistema di accoglienza e protezione dei rifugiati. Essa non dà, quindi, alcuna garanzia sulla possibilità di ottenere protezione internazionale da parte di chi ne ha titolo, in quanto non possiede un sistema per la determinazione dello status di rifugiato e non concede di fatto protezione ai rifugiati. A tal riguardo, numerose sono le denunce di violazione dei diritti umani come emerge dai rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch,

impegna il Governo:

a rispettare gli obblighi internazionali che scaturiscono dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dalla Convenzione ONU contro la tortura e dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani che vietano tassativamente il refoulement, in particolar modo di rifugiati o richiedenti asilo;

ad adoperarsi presso le autorità libiche affinché una delegazione di parlamentari italiani possa recarsi in visita nei campi libici di raccolta degli immigrati ai fini di verificare il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, con particolare riguardo ai richiedenti asilo e ai perseguitati e a sollecitare le medesime autorità libiche affinché procedano all'esame e all'accettazione delle richieste d’asilo sul proprio territorio e a fornire protezione;

a garantire l'effettivo accesso alla procedura di asilo e a mettere i migranti nella condizione di avanzare una domanda di protezione internazionale prima di procedere all'eventuale respingimento;

a sollecitare la Commissione europea a valutare l’opportunità di convocare un tavolo congiunto ai fini di elaborare una strategia mirata a trovare un'equa e soddisfacente soluzione al fenomeno della migrazione irregolare nel Mediterraneo rispettosa dei diritti umani e a favorire un'omogenea distribuzione dei rifugiati.