Legislatura 15ª - Relazione di minoranza N. 1817-A-BIS

SENATO DELLA REPUBBLICA

    ———– XV LEGISLATURA ———–

    

Nn. 1817 e 1818-A-bis
 
RELAZIONE DI MINORANZA DELLA 5ª COMMISSIONE PERMANENTE


(PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, BILANCIO)


(Relatore VEGAS)

Comunicata alla Presidenza il 5 novembre 2007

SUI

DISEGNI DI LEGGE

Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008) (n. 1817)

presentato dal Ministro dell’economia e delle finanze

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 1º OTTOBRE 2007

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Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2008
e bilancio pluriennale per il triennio 2008-2010 (n. 1818)

presentato dal Ministro dell’economia e delle finanze

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 1º OTTOBRE 2007

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«Giova deliberare senza conoscere? Al deliberare deve, invero,
seguire l’azione. Si delibera se si sa di poter attuare;
non ci si decide per ostentazione velleitaria infeconda.»

Luigi Einaudi, Prediche inutili, Torino, 1959

1.  Veri «costi della politica» e fiscal churning.

        Si parla tanto di costi della politica e di misure per ridurre il peso della politica su economia e società. Ma la legge finanziaria per il 2008 non è altro che l’ennesima riconferma che con questo Governo tali costi non possono che lievitare. Per l’economia e per la società, a tutti i livelli. Con questa legge finanziaria non solo non si risolvono i problemi del Paese, ma si indicano soluzioni sbagliate poiché si continua a restare nella logica dello Stato assistenziale.

        Queste politiche non sono altro che la riedizione di vecchie ricette che si basano su di una antica logica del welfare state e sulla ipotetica possibilità di garantire l’equilibrio sociale manovrando accortamente la redistribuzione delle risorse a fini politici, contribuendo a creare uno Stato debole, sovraccarico di funzioni che, conseguentemente, svolge in modo inefficiente senza riuscire a tenere sotto controllo le proprie dimensioni (state failure). Lo stesso impianto della legge finanziaria, a parte le considerazioni generali sulla sua eccessiva lunghezza e sul suo carattere omnibus appare di costruzione macchinosa e di scarsa utilità perché in grado di incidere solo marginalmente sulle grandezze di finanza pubblica senza indicare chiaramente la direzione da prendere. Anche in questo caso si tratta di uno strumento superato e da ripensare.
        Va chiarito perché giudichiamo fallimentari le soluzioni politiche prospettate in questa finanziaria. Perché si tratta di un provvedimento basato su un mix fra maggiore spesa pubblica e stabilizzazione del livello, già troppo elevato, di pressione fiscale. Ma questo mix non è in grado di stimolare lo sviluppo economico, che anzi, ha bisogno dell’opposto: minore spesa pubblica e minore imposizione fiscale per maggiori consumi e investimenti e maggiore sviluppo.
        Una delle questioni fondamentali della finanza pubblica è dunque la scelta se finanziare la spesa pubblica con il debito o, ripeto o, con le tasse. Voi siete riusciti ad aumentare entrambe!
        Gran parte di questa tesi riecheggia quanto ripetutamente sottolineato da numerosi organi di stampa oltre che da autorevoli commenti di istituti e organi istituzionali, Banca d’Italia, Corte dei conti, Unione europea, Fondo monetario internazionale, anche nel corso delle recenti audizioni di fronte alle Commissioni bilancio di Camera e Senato.
        Questa finanziaria, che non si propone di ridurre concretamente la spesa pubblica e – di conseguenza – di rendere disponibile una maggiore quota di reddito per i privati, non potrà stimolare il rilancio dei consumi delle famiglie e dello sviluppo delle imprese. Invece di attuare una politica di contenimento della spesa, come annunciato dal Governo nel DPEF, in realtà porta ad un aumento di spesa pari all’intero ammontare della legge finanziaria stessa più il decreto sul «tesoretto» – 19 miliardi di euro di spesa addizionale. Tutto ciò non porterà a nessun risanamento, aggravando ulteriormente i problemi del Paese. Questi sì che sono i veri «costi della politica»!
        È paradossale notare che queste misure non funzioneranno nemmeno nel senso di ridurre la conclamata equità sociale ma, piuttosto, contribuiranno ad accentuare i dislivelli, i disagi e le difficoltà sofferti oggi dalle famiglie nella vita di tutti i giorni e dalle imprese nella lotta per la competizione – sempre più globalizzata – sui mercati mondiali.
        L’azione di questo Governo si dimostra quindi – nuovamente – di scarsa credibilità. Per essere credibile, una manovra siffatta dovrebbe infatti passare attraverso una più decisa riduzione di spese e imposte, attraverso la liberazione di energie economiche e finanziarie atte a liberare risorse e di conseguenza a trainare consumi e investimenti e stimolare sviluppo. Se poi prendiamo in considerazione quelle che sono le difficoltà dell’attuale contesto economico, possiamo facilmente comprendere quanto sia dannosa una manovra finanziaria meramente basata su finanziamenti addizionali e marginali ai vari comparti della spesa pubblica. Così come è assodato che – in presenza di vari fenomeni economici quali: la globalizzazione, l’euro, la competizione sempre più agguerrita delle imprese, l’emergere dei servizi low cost – un’impostazione di tal genere, ristretta e «marginalistica» rischia in definitiva di limitare – se non deprimere – consumi privati e investimenti, senza conseguentemente produrre effetti significativi per l’economia nel suo complesso.
        Per giungere ad un risanamento efficace non esistono quindi alternative: la spesa pubblica va ridotta, con intelligenza, selettivamente, ma con un’azione decisa, tesa a ridurre l’incidenza dello Stato sull’economia e quindi sui bilanci delle famiglie e delle imprese.
        Siamo consapevoli che l’attuazione di questa politica è di difficile realizzazione per la presenza di numerosi ostacoli, quali: la ben nota rigidità della spesa pubblica stessa, la circostanza che numerose spese tendono ad auto-giustificarsi, il che ne rende problematica una riduzione rapida o drastica e, infine, le vischiosità e le resistenze alla riduzione dell’intervento pubblico dovute all’azione di gruppi di pressione che cercano in tutti i modi di mantenere la «fetta» di spesa pubblica di loro pertinenza. L’insieme di tutti questi effetti può essere altamente negativo per il Paese. Pertanto, un’azione politica razionale non può non impegnarsi per rimettere il sistema su binari consoni, che gli consentano di funzionare, partendo da consumi e investimenti individuali.
        Per questo occorre oggi superare il mito del modello dell’equità sociale imperniato sull’azione statale che il Governo difende anche contro ogni evidenza pratica con le conseguenze che sono di fronte agli occhi di tutti: aumento della pressione fiscale, aumento della spesa pubblica, rallentamento della riduzione del rapporto fra deficit e PIL, mancato rispetto dei parametri europei. Non è lo Stato ma il mercato, attraverso la sua azione, a stabilire e ristabilire condizioni di equità al proprio interno, proprio grazie all’azione degli agenti economici. Lo Stato, con il suo intervento, non fa altro che disturbare e ritardare il raggiungimento dell’equilibrio e dell’equità stessa. Per questo è necessario non prevaricare con le scelte pubbliche di vari oligarchi le scelte pubbliche dei cittadini. Per questo è il momento di voltare pagina.
        Occorre attuare una politica economica diversa, dicendo un chiaro no ad una crescita inarrestabile del costo della politica come intermediazione a tutti i livelli della società. Tutto ciò trova attuazione attraverso il fiscal churning, la circostanza cioè che i contribuenti pagano per ottenere dei servizi, ma non sanno esattamente dove i loro soldi vadano a finire e la spesa pubblica è spesso reindirizzata in modo casuale agli stessi soggetti che sono stati tassati in precedenza. Spesso, quindi, accade che il contribuente finanzi direttamente con le imposte che paga il servizio che riceve e, per di più, deve subire anche il peso dei costi di transazione che deve sostenere in conseguenza degli oneri burocratici della pubblica amministrazione.
        Dobbiamo invece perseguire un modello di economia ispirato ai princìpi del buon padre di famiglia, in cui gli impegni finanziari siano attentamente calibrati sulle risorse disponibili (sapere quanti soldi sono disponibili nel portafoglio prima di procedere all’acquisto e non procedere senza sapere quali siano le disponibilità economiche del momento) e nel quale sia disintermediata dalla pubblica amministrazione una quota sempre maggiore della ricchezza, da distribuire a cittadini, giovani, famiglie e imprese per soddisfare le legittime esigenze economiche dei vari soggetti.
        Per fare questo, ad esempio, al fine di agire effettivamente a favore delle giovani generazioni, riteniamo inutili e controproducenti «mancette», sussidi e erogazioni di carattere marginale di reddito. Intendiamo ribadire che se un soggetto dispone già del reddito sufficiente per sé e per la propria famiglia, appare in definitiva molto ingiusto un intervento fiscale che lo metta in condizione di non essere più autosufficiente cui segua un ulteriore intervento pubblico con un finanziamento redistributivo teso a compensare in parte la sottrazione del fisco. L’effetto finale è quello di rendere la persona meno libera e meno autonoma, di deresponsabilizzarla nei confronti degli obblighi verso sé e la propria famiglia e – soprattutto – di renderla dipendente dalla benevolenza del potere politico per «obbligare» questo soggetto a condurre una vita di livello eventualmente inferiore rispetto a quella che avrebbe potuto condurre senza l’intervento del fisco.
        Vogliamo invece che cittadini, giovani, famiglie e imprese siano messi in condizione di operare in autonomia secondo le proprie strategie e secondo le proprie aspirazioni nei settori chiave dell’economia: servizi, pensioni, sanità, istruzione oltre che – logicamente, parlando delle imprese – sui vari mercati nazionali, europei e globalizzati.
        Il primo passo, lo ribadiamo con forza, deve essere necessariamente una riduzione dei costi della politica attraverso la progressiva riduzione dell’intervento pubblico nell’economia.
        Analogo discorso vale per le imprese. E’ necessario adottare una politica diversa per le imprese, che preveda sia minori interventi statali da un lato, sia – dall’altro – una minore imposizione fiscale. Tutto ciò dovrà necessariamente contribuire ad accrescere la disponibilità finanziaria delle imprese, liberate sia per competere con minori «lacci e lacciuoli», sia per immettere la maggiore ricchezza che ne deriva nel sistema economico. Da questo punto di vista, la legge finanziaria e la promessa di riduzioni del carico fiscale che gravano sulle imprese non è altro che un’operazione di raggiro mediatico, come sarà più avanti precisato.
        È stato autorevolmente sostenuto che in Italia i salari – e quindi i redditi – dei giovani sono troppo bassi. Questo è dovuto alla politica salariale consociativa della politica dei redditi! Una maggiore redditività delle imprese dovrà ragionevolmente tradursi in un diverso sistema salariale per giovani e neoassunti, legando i salari alla produttività. Evitando che sia la produttività dei giovani (precari) a garantire unicamente maggiori stipendi per quelli (dipendenti) che giovani non sono più! Occorre contrastare il predominio della politica dei redditi praticata da questo Governo che ha l’unico risultato di favorire chi è dentro ed escludere chi è fuori, garantendo la costante espropriazione dei diritti sindacali dei giovani, lavoratori precari, a favore dei meno giovani, lavoratori a tempo indeterminato.
        Anche ciò legittima una riduzione dell’intervento pubblico nell’economia.
        La Politica che noi vogliamo è diversa, e intende esserlo, dalla politica di questo Governo. Loro ritengono che essa non possa che avere una funzione redistributiva con l’obiettivo, illusorio, di ridurre le differenze di reddito tra ricchi e poveri. Per noi invece, è fondamentale considerare che in molti casi la «forbice» di reddito fra ricchi e poveri si allarga proprio per l’eccesso di meccanismi di intermediazione economica e sociale a tutti i livelli. Che avvantaggiano chi nel mercato del lavoro è a tempo indeterminato contro chi fatica per entrarci, elevando le barriere di ingresso. Per noi, le tasse non sono altro che un male necessario che lo Stato deve amministrare con parsimonia e limitandosi ai soli casi nei quali un intervento nell’interesse generale da parte dello Stato è l’unica soluzione possibile in mancanza di alternative. Ma, soprattutto, la nostra convinzione è che non si possa ricorrere costantemente e strutturalmente ad una maggiore imposizione fiscale al solo scopo di finanziare una sempre maggiore spesa pubblica. Va ricordato che le economie comuniste dell’Est Europa sono crollate proprio perché basate su questo modello dirigista, che ha provocato la povertà e l’infelicità dei cittadini che ne sono stati soggetti.
        Come dimostra l’esperienza storica, nel dopoguerra la spesa pubblica ha seguito un andamento crescente, ma il livello di disagio dei soggetti meno abbienti non è andato migliorando, mentre il tasso di crescita del PIL è andato rallentando. Deve pertanto essere chiaro che non esiste una correlazione diretta fra un maggiore livello di spesa pubblica e maggiore benessere. Vale invece il contrario! In presenza di andamenti crescenti della spesa, si registrano crescite inferiori dell’economia, maggiore deresponsabilizzazione dei cittadini e perfino maggiore domanda di sussidi.
        Al posto di un orientamento forzosamente redistributivo, di erronea equità sociale, inefficace e antieconomico, un Governo attento dovrebbe badare a non depauperare il contribuente del frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi ma dovrebbe anzi consentirgli di essere pienamente libero di disporre delle proprie risorse per consumi o investimenti, non per il pagamento di tasse e imposte. Questa è la logica alla base della nostra proposta di detassazione del lavoro straordinario, con cui chiediamo che i lavoratori possano essere incentivati a lavorare di più con l’obiettivo di disporre di una maggiore quota marginale del proprio lavoro, senza dover per questo sopportare oneri di nuove tasse.
        La nostra proposta è, invece, quella di consentire a cittadini, famiglie e imprese, di riacquistare la propria autonomia economica e di disporre conseguentemente di una maggiore libertà politica. È il momento di abbandonare il mito della redistribuzione come strumento per l’equità sociale, per adottare un approccio diverso, basato sulla disintermediazione dello Stato e lasciare liberi cittadini, giovani, famiglie e imprese di creare ricchezza attraverso il perseguimento dei propri fini economici.
        La legge finanziaria persegue, invece, un’azione di redistribuzione basata sul mito dell’equità sociale i cui effetti sono, nella migliore delle ipotesi, neutrali, se non negativi per l’economia. Va sottolineato, infatti, che per molti servizi pubblici la qualità dei servizi ottenuti attraverso tali politiche – sia di gestione che di prezzo – appare inferiore soprattutto nel caso di servizi a domanda individuale a ciò che il cittadino potrebbe procurarsi autonomamente pagando direttamente il servizio stesso.
        Per raggiungere l’obiettivo di garantire il benessere delle famiglie e la competitività delle imprese dobbiamo pertanto ridurre il livello di intermediazione del sistema, riducendo il finanziamento dei servizi a domanda individuale e consentendo ai cittadini in possesso di un «normale» livello dei redditi di accedervi in maniera autonoma proprio grazie alla maggiore disponibilità finanziaria creatasi. Questo obiettivo va accompagnato da un minor prelievo fiscale e dalla possibilità del cittadino di pagare da sé i servizi che desidera, oltre che dalla possibilità che – paradossalmente – i cittadini a basso reddito siano indirettamente costretti a finanziare – attraverso le tasse – l’utilizzo dei medesimi servizi da parte dei cittadini abbienti. Noi vogliamo agire sul fiscal churning che moltiplica i livelli di intermediazione della pubblica amministrazione senza creare nuovo benessere ai cittadini.
        Un discorso analogo va fatto per ciò che concerne le imprese. Le misure previste nella legge finanziaria in materia di ammortamenti anticipati e deduzione della spesa per interessi non solo – secondo alcuni – non sono a saldo zero a causa dell’ampliamento della base imponibile che il Governo ha inserito contestualmente nella riforma delle aliquote – ma in tal modo pregiudicano l’effetto di shock positivo per l’economia cui avrebbe portato un abbattimento di oltre 5 punti dell’imposta sul reddito delle società (IRES). Il Governo ha inoltre previsto che tali misure abbiano effetti diversi a seconda del livello di indebitamento delle imprese. Questa distinzione, frutto di considerazioni etico-politiche per le quali anche fra le imprese vi sarebbero – per questo Governo – figli e figliastri – appare per noi inaccettabile, in quanto ispirata dalla distinzione tra imprese buone e cattive, meritevoli e non. Inoltre, essa penalizza ingiustamente le imprese che, per loro condizione (o valutazione) di mercato siano costrette a ricorrere all’indebitamento e favorisce analogamente quelle nelle quali tali caratteristiche strutturali non sono presenti.
        Al contrario, noi riteniamo che tutte le imprese devono essere poste in condizioni di uguaglianza sul mercato, in quanto la competizione non può che esplicarsi attraverso il mercato e non svilupparsi grazie agli effetti di vantaggi fiscali.
        Ma la distinzione tra figli e figliastri «pesa» nell’immaginario politico di questo Governo, tanto che viene confermata dall’emendamento della legge finanziaria approvato in Commissione bilancio con la nuova formulazione dell’articolo 1, ove l’accesso ai benefici derivanti dalla eventuale riduzione delle imposte nel 2008 viene circoscritto ai soli lavoratori dipendenti. Noi, al contrario, intendiamo ribadire che la capacità contributiva del singolo dipende non dal tipo di lavoro svolto o dalla posizione ricoperta, ma dal livello di reddito posseduto.
        La maggioranza sta offrendo agli Italiani non uno Stato che garantisce la concorrenza, che produce efficientemente beni pubblici, che abbatte gli ostacoli all’attività produttiva, ma uno Stato dirigista e distorsivo della concorrenza, che crea esso stesso ostacoli alla produzione e alla competitività.
        Riepilogando, ci troviamo con questa legge finanziaria di fronte a provvedimenti che appaiono del tutto inadeguati allo scopo del risanamento e dello sviluppo dell’economia e non sono in grado di determinare o stimolare un salutare shock dell’economia, un big bang o effetti comunque benefici per il sistema economico nel suo complesso.

2.  La Legge finanziaria in dettaglio

a. Impostazione ed entrate

        Malgrado le promesse, gli impegni presi e gli accordi dei quali si era parlato ad alti livelli istituzionali, la legge finanziaria presenta comunque una struttura molto corposa, contenente norme di carattere decisamente spurio. Non a caso il Presidente del Senato, nell’esaminare il contenuto proprio della legge finanziaria, ha effettuato un intervento censorio consistente, anzi forse il più consistente degli ultimi anni, inviando al Governo un segnale assolutamente non trascurabile sotto il profilo della costruzione normativa della legge stessa. In realtà, nella sostanza ed una volta eliminata la parte di finanziamento minuto, la legge finanziaria si riduce relativamente a poco.

        In questa manovra, d’altra parte, non ricevono uno shock positivo neanche i consumi interni, poiché le misure adottate per gli incapienti e per la casa (per quanto poco sia meglio che niente) non sono tali da incidere sulla propensione al consumo dei consumatori con i redditi più bassi. Non va poi trascurato che, sui consumi della famiglie di livello reddituale medio, pesano ancora gli effetti negativi della legge finanziaria del 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato»), con la quale le aliquote nominali dell’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRE) sono stati solo apparentemente diminuite, mentre l’effetto combinato:

            a) delle aliquote diminuite;

            b) della trasformazione in detrazioni delle deduzioni;
            c) delle sovrimposte comunali e regionali;

        aveva determinato un aumento della pressione fiscale sulle famiglie, per livelli che si aggirano già intorno ai 30.000 euro lordi l’anno.

        Questo meccanismo si è rivelato assolutamente inadeguato a esercitare una spinta sullo sviluppo industriale o sui consumi delle famiglie.

b. Legge di bilancio: riforma e vincoli
        Analogamente, appare non più idoneo allo scopo lo strumento della legge finanziaria, ridotta ad essere una mera legge di spesa. La finanziaria è, nel sistema attuale, sempre meno in grado di incidere sul quadro macroeconomico oltre ad essere ormai fortemente condizionata dal fatto di agire su di un consolidato talmente ampio da renderla inefficace come strumento legislativo e come strumento di politica economica. Uno strumento, ormai, in grado di dispiegare i propri effetti solo in base ad una logica marginalistica e, quindi, inadeguata alle esigenze del sistema.

        Quest’anno è cambiata la struttura del bilancio, ma solo esteticamente. In sostanza non è cambiato molto; l’unità elementare di voto è rimasta comunque l’unità previsionale di base mentre l’aggregazione generale è stata realizzata a legislazione vigente mantenendo la struttura della legge del 1977, la quale consentiva in qualche modo di redigere un bilancio per funzioni. Quando venne discussa la legge del 1997, fu sottolineata una necessità di cambiare il meccanismo, evitando di basarsi per il futuro sui centri di costo (con il tempo, infatti, tale approccio si è infatti rivelato inadatto a fornire un ausilio particolarmente utile alla comprensibilità del bilancio). Si propose, in alternativa, di passare decisamente ad un meccanismo di bilancio articolato per funzioni (in quanto «funzioni» e «missione» sono elementi concettualmente simili, per struttura logica), al fine di consentire una maggiore leggibilità del bilancio.
        La scelta compiuta, di lasciare invariato un meccanismo che aggrega le missioni, ma che nella sostanza riconduce la decisione parlamentare all’unità previsionale di base, ha fatto invece sì che la manovrabilità del bilancio sia ancora delegata in capo ai centri di costo optando quindi, sostanzialmente, per una versione del bilancio basata sull’organo amministrativo decisore della spesa.
        Questo processo, ovviamente, non ha risolto la maggior parte dei problemi, se non in prospettiva futura, anche se si può concordare con l’idea che rappresenti un work in progress. Riteniamo tuttavia necessario giungere al più presto ad un’aggregazione funzionale delle decisioni relative alle missioni.
        Dalla lettura del bilancio si rileva inoltre un elemento tutt’altro che nuovo: una rigidità della spesa tale, in percentuale, da renderlo, nonostante tutte le innovazioni normative, uno strumento generalmente poco manovrabile. La parte discrezionale risulta assai limitata, mentre sarebbe stato preferibile disporre di un bilancio costruito «per missioni» sul quale fosse possibile l’intervento del legislatore – in questo caso del Parlamento – al fine di modulare le varie missioni in più o in meno, privilegiando così un certo tipo di spesa rispetto ad un altro. Oggi questo non è possibile, in quanto il bilancio funziona sulla base di autorizzazioni legislative.
        Gli obiettivi da porsi dovrebbero quindi essere i seguenti:

            a)  strutturare per missioni (o per funzioni) un nuovo modello del bilancio (creando così il presupposto per una valutazione dell’azione amministrativa);

            b)  affiancare tale struttura con un bilancio vero e proprio, redatto in conformità al meccanismo della contabilità economica e non di quella finanziaria.

        Ciò consentirà, in sostanza, di disporre di meccanismi decisionali riferiti all’efficacia dell’azione amministrativa.
c.  Rendiconto e spending review: pregi (pochi) e rigidità (molte)
        Oltre a questa problematica, si pone anche la necessità di operare un serio rafforzamento del rendiconto rispetto al bilancio. In base al nostro meccanismo «ottocentesco» di bilancio di spesa (rimasto sostanzialmente invariato da allora) l’azione politico-amministrativa tende infatti ad articolarsi prevalentemente in termini di autorizzazioni (amministrative) e poco in termini di efficacia (della spesa).

        Un nuovo tipo di bilancio potrebbe rappresentare lo strumento utile per perseguire l’obiettivo ottimale del controllo della spesa. Oggi, invece, il rendiconto è ancora considerato alla stregua di un atto accettato da Parlamento e Governo in modo abbastanza acritico: difficilmente si perviene ad un’analisi puntuale del rendiconto e della sua efficacia. Per fare ciò appare necessario procedere ad una modifica dei regolamenti parlamentari che consenta di approfondire l’esame dei rendiconti, eventualmente anche mediante l’istituzione di una Commissione ad hoc che – alla stregua di quanto avviene al Parlamento europeo – sia dotata di penetranti poteri di controllo e di audizione, anche dei responsabili amministrativi per capire effettivamente come viene erogata la spesa e valutare il grado di adempimento degli obiettivi dell’intervento pubblico.
        È noto come, su tale questione, il Ministro dell’economia e delle finanze ha avviato la cosiddetta spending review. Nel corso dell’audizione presso le Commissioni bilancio riunite, il responsabile della Commissione tecnica istituita presso il Ministero dell’economia e delle finanze ha fornito interessanti spunti di ragionamento, che tuttavia sono più applicabili all’ambito di un bilancio di tipo economico che non di un bilancio di tipo finanziario, come quello attuale. La spending review viene infatti considerata sotto un profilo di scienza delle finanze o comunque economico. Tuttavia, in base a quanto è stato possibile verificare ad oggi, il quadro, per essere completato, richiede un approccio di carattere più specificamente giuridico.
        Data l’attuale struttura del bilancio, l’ambito che riveste maggiore interesse non è tanto la possibilità di individuarne, vederne e valutarne gli effetti economici, quanto la possibilità di comprendere:

            a) quale tipo di normativa produce determinati effetti economici;

            b) come vada organizzata la normativa stessa (quanti sono i dipendenti, qual è il trattamento stipendiale);
            c) come si possa intervenire, quali cioè possono essere le modificazioni normative in grado di portare a una razionalizzazione e a un contenimento della spesa.

        Questo è il tema che ha di fronte il Parlamento. Le altre proposte, per quanto interessanti, rischiano di rimanere solo sulla carta se non tradotte in effetti normativi.

        Si rischia, in particolare, di restare ancorati ad una logica economica che non ha riscontro in quella finanziario-amministrativa, che poi costituisce l’unico strumento per incidere realmente sulle grandezze di bilancio, che non può portare ad effetti se non collegandoli ad una diminuzione dei diritti concessi con le norme che impattano direttamente sul bilancio.
        Occorre quindi decidere se passare direttamente ad un metodo di bilancio economico, abbandonando la cultura amministrativa che ha contraddistinto questo Paese per un secolo e mezzo, oppure se mantenere tale cultura amministrativa, affiancandola però ad un meccanismo di controllo più penetrante sul rendiconto, e realizzare una spending review basata sia sugli effetti della normativa sia sulle eventuali correzioni che ad essa si possono apportare. Come corollario di questa impostazione, bisognerà ovviamente andare verso una razionalizzazione delle strutture ministeriali in modo da affiancarle alle missioni e renderle più omogenee.

d. Il tema del bilancio consolidato

        Un altro tema si presenta in modo abbastanza imperativo: la necessità di arrivare ad una sorta di bilancio consolidato, come avviene per i grandi gruppi industriali. Stiamo infatti progressivamente sfilando dal bilancio dello Stato tutta una serie di spese erogate dalle pubbliche amministrazioni, di cui siamo obbligati a tener conto in sede di Patto di stabilità europeo. Tali spese rischiano tuttavia di sfuggire al nostro controllo.

        In tema di federalismo, ad esempio, vi è l’idea di affidare l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) direttamente alle regioni. La stessa cosa vale per le addizionali comunali e provinciali. Tutto ciò, per quanto appaia ragionevole sotto il profilo dell’approccio federale e della gestione dei diversi livelli istituzionali, crea problemi perché alla fine è lo Stato che risponde nei rapporti diretti con il contribuente. Se il contribuente eroga tributi e imposte per finanziare la spesa pubblica generale, occorrerà poi vedere quanto ogni livello di spesa impatta sul contribuente stesso, che è il destinatario finale della norma di comando, per valutare il livello di sopportabilità e tollerabilità della pressione fiscale o tributaria. Nel contesto attuale tale aspetto non è preso in considerazione, per non parlare dei rapporti con l’Unione europea. Infatti, il principale riferimento ed intermediario di questo sistema e, in quanto tale, responsabile finale è sempre lo Stato.
        Un meccanismo decisionale molto frammentato è sicuramente in grado di rivelarsi più efficace ai fini di una maggiore responsabilizzazione dei diversi livelli istituzionali, ma ciò che serve è una visione globale. L’obiettivo dovrebbe essere quello di studiare un bilancio consolidato non solo in grado di consentire l’acquisizione di determinati elementi conoscitivi, ma anche di permettere l’elaborazione di una vera e propria manovra ex ante, perché spesso veniamo a conoscenza di dati finanziari importanti solo a posteriori e siamo costretti a prendere atto dei risultati di finanza pubblica senza poterli influenzare a livello unitario. Alla luce di quanto avvenuto, si ritiene necessario riflettere su questo tema in futuro.

e.  Decreto legge n. 159 del 2007 e problema dell’extragettito

        La legge di bilancio è stata affiancata da altri strumenti, il primo dei quali è il decreto-legge 1º ottobre 2007, n. 159, il cui disegno di legge di conversione, approvato dal Senato – ovviamente con il voto contrario dell’opposizione – lo scorso 25 ottobre 2007, è attualmente presso la Camera dei deputati.

        Rispetto a tale provvedimento – come già dettosi pone un concreto problema di utilizzabilità dell’extragettito. Così com’è emerso, l’extragettito desta più di una perplessità perché, in effetti, va registrato un suo incremento in corrispondenza alla progressiva crescita delle entrate dello Stato. Nutriamo seri dubbi proprio in merito alla sua struttura. Tra l’altro, il Governo ha più volte ribadito il concetto che l’extragettito fosse la risultanza della lotta all’evasione. Se, al contrario, osserviamo i dati relativi al bilancio d’assestamento, possiamo constatare che gli emendamenti presentati fanno luce sulla diminuzione dell’IRPEF rispetto ai dati iniziali del bilancio e probabilmente ciò non riflette una maggiore attività di accertamento. Si è registrata, invece, una crescita dell’IRES, ma ciò non dipende da un attività amministrativa di lotta all’evasione, quanto forse da particolari condizioni economiche. Il tutto unito ad una serie di interventi normativi – principalmente il decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2007, n. 127, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria (cosiddetto decreto-legge «tesoretto») – che hanno inasprito il carico tributario sul reddito delle imprese, prima classificato nel complesso delle spese di produzione.
        Si è verificato quindi un aumento del gettito, ma è sicuramente imprudente interpretarlo come un dato assodato e attribuirgli valenza pluriennale, dal momento che l’IRES – come dimostrato negli ultimi dieci anni – presenta un andamento abbastanza ondivago e non un trend costante di crescita nel tempo. A volte tale andamento appare legato a fattori economici o ad altri meccanismi e sarebbe pertanto opportuno non porre l’attuale incremento dell’IRES alla base della realizzazione di un complesso di spese. Questo è il principale rilievo che si intende muovere alla politica governativa. Il Governo ha assunto come parametro di riferimento un anno in cui si presentavano favorevoli condizioni economiche per finanziare spese permanenti riferite anche ad anni in cui non è certo che la situazione sarà altrettanto rosea. Inoltre, ciò che è più grave, la legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato») prevedeva esplicitamente, in caso di sopravvenienza, la restituzione dell’extragettito attraverso la riduzione della pressione fiscale. Ciò non si sta verificando ed è alquanto preoccupante.
        Sempre con riferimento al citato decreto-legge n. 159 del 2007, va rilevato che la copertura deriva, oltre che dall’extragettito, da 1,3 miliardi di euro di fondi inizialmente destinati all’Unione europea e poi decurtati nel bilancio di assestamento (una decisione che sembra preordinata al solo fine della copertura) e dai risparmi derivanti da un taglio del Fondo aree sottoulizzate (FAS) che merita una seria critica.
        Un altro rilievo può essere formulato per la parte della copertura della finanziaria operata tramite residui. Tale operazione, infatti, è in conflitto con la legge stessa di contabilità.
        Nel complesso, la manovra finanziaria e il citato decreto-legge n. 159 del 2007, determinano un aumento di spese, alcune delle quali mancano di essere registrate: mi riferisco, ad esempio, al contratto degli statali, rispetto al quale la tabella allegata alla manovra prevede la copertura solo per la cosiddetta «carsica», laddove mancano i finanziamenti per il rinnovo vero e proprio. Malgrado il fatto che si assiste, in questa fase, ad una legislazione di incremento della spesa corrente, alcune voci non banali risultano assenti e il quadro generale ne risulta, per certi aspetti, falsato.

3.  Questa manovra finanziaria non attua alcun risanamento
        Alla base delle critiche alla manovra vi è inoltre una questione di carattere generale, sollevata da molti commentatori italiani, dalla Banca d’Italia, dalla Corte dei conti, dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea. Anziché proseguire sulla strada del risanamento finanziario o in vista di un’azione forte che inverta le tendenze in atto, tale manovra si limita a sopravvivere e, in alcuni casi, torna indietro rispetto ad obiettivi che erano già stati conseguiti.

        È opportuno fare, ad esempio, riferimento a tutta la materia pensionistica. Mentre il resto del mondo procede verso l’allungamento dell’età pensionabile, il protocollo sul welfare sembra procedere esattamente in senso opposto, creando di fatto i presupposti per un aggravamento futuro di tali problematiche.
        Secondo gli accordi europei, l’Italia avrebbe dovuto diminuire progressivamente il rapporto deficit-PIL. Il Governo sostiene che tale obiettivo possa essere ridimensionato, giacché la situazione economica è migliore del previsto. Su tale punto non si può essere d’accordo, in quanto se l’economia è in crescita, appare preferibile approfittare del momento favorevole per proseguire successivamente sulla strada dello sviluppo, piuttosto che rinviare il risanamento ad un futuro incerto. Alcune previsioni in merito non destano particolare ottimismo e non è auspicabile rinviare l’azione di intervento. Tra l’altro, se il Governo ritiene che non sia il caso di intervenire quest’anno, perché gli obiettivi sono in parte conseguiti, le azioni di risanamento potrebbero non essere necessarie e potremmo dedicarci a spendere.
        Questo ragionamento potrebbe essere in parte condivisibile. La prospettiva governativa non è invece quella di non realizzare più interventi fino a quando non si arrivi al pareggio di bilancio – obiettivo finale del Patto di stabilità europeo –, bensì quella di non intervenire quest’anno e rimandare gli interventi agli anni successivi, quando si riveleranno necessari. Ci si chiede obiettivamente che senso abbia tutto ciò, perché se devono essere realizzati degli interventi, sarebbe preferibile farlo in un periodo in cui l’economia è in crescita, piuttosto che rinviarli ad un futuro incerto in cui tali interventi potrebbero essere di più difficile attuazione a causa di condizioni economiche non favorevoli.
        Sotto questo profilo francamente non si giustifica l’intera struttura del combinato disposto (decreto-legge e legge finanziaria) perché sarebbe stato più opportuno dare alla manovra un’impostazione completamente diversa. L’orientamento prevalso è stato, invece, quello di dare corso ad una serie di spese che potranno sì rivelarsi vantaggiose per i destinatari (in quanto dotate di una inopportuna colorazione elettoralistica), ma sicuramente non sono in grado di invertire tendenze negative in atto e di perseguire obiettivi che tutti condividiamo (in primo luogo, il rilancio dello sviluppo del Paese), perché nessuna possiede un impatto d’urto sufficiente, una force de frappe tale da giustificare un cambiamento dei fondamentali dell’economia italiana.

a. Copertura delle spese e inasprimento fiscale
        Vale inoltre la pena di ricordare che, non solo nella finanziaria dell’anno scorso, ma anche nella risoluzione approvativa del DPEF di quest’anno, si era previsto di finanziare gli interventi attraverso una riduzione di spesa e senza modificare il livello delle entrate. Ciò non è avvenuto, dal momento che assistiamo, soprattutto per quanto concerne il decreto-legge, ad un ricorso costante e consistente alle entrate, talvolta ottenuto attraverso un inasprimento fiscale, e a riduzioni di spese molto modeste in rapporto alla percentuale complessiva della massa movimentata. In ogni caso, molte delle riduzioni di spese restano sulla carta e non riusciranno effettivamente a realizzarsi.

        Sostanzialmente, il combinato disposto legge finanziaria e decreto-legge comporta una spesa complessiva di circa 19 miliardi di euro che vengono in parte finanziati con l’aumento spontaneo delle entrate – prassi perlomeno discutibile sotto il profilo della copertura – senza prevedere veri e propri tagli di spesa. Ad adiuvandum, il Ministro dell’economia e delle finanze ha promesso ai sindaci italiani l’utilizzazione della leva fiscale (le cosiddette imposte di scopo). Si tratta di una riedizione dell’imposta di soggiorno già introdotta l’anno scorso e rivelatasi inefficace, dacché il danno d’immagine prodotto era superiore al guadagno ottenuto, ed era applicata solo in alcuni comuni. Si presuppone quindi un ulteriore inasprimento della pressione tributaria, soluzione che è in ogni caso da scongiurare.
        Tutta questa impostazione della manovra da parte del Governo non è assolutamente non condivisibile e meglio sarebbe stato, al limite, non far niente. Infatti, i dati del tendenziale dimostrano che esso è migliore del programmatico. Quindi, sarebbe stato meglio se il Governo non avesse fatto nulla piuttosto che spendere risorse in rivoli e rivoletti non tenendo conto degli obiettivi fondamentali.
        Per inciso, appare opportuno ricordare che laddove i meccanismi di responsabilizzazione delle regioni in materia di spesa sanitaria (per certi aspetti anche condivisibili) prevedono un inasprimento automatico delle aliquote IRAP in caso di sfondamento, essi risultano molto penalizzanti per le nostre imprese e, comunque, appaiono in grado di frustrare gli effetti benefici eventualmente derivanti dall’applicazione dell’abbassamento dell’aliquota in finanziaria.

b.  Manovra, accordo sul welfare e sua copertura
        Una parte della manovra, che è quasi un convitato di pietra ma che si proporrà a breve, è relativa all’accordo sul welfare e finisce per costituire una parte qualificante della spesa. Su tale aspetto va sottolineato con forza che la Casa delle Libertà non condivide assolutamente la modifica della cosiddetta «legge Maroni» sull’età del pensionamento. Infatti, mentre tutto il mondo procede verso l’allungamento dell’età pensionabile, l’Italia torna indietro attraverso meccanismi che lasciano qualche dubbio anche sotto il profilo della copertura. Tra l’altro, appare opportuno rilevare che l’intera procedura di approvazione di tale accordo presenta elementi non chiari sui quali sarebbe utile soffermarsi: l’accordo è stato prima stipulato convocando solo alcune delle parti sociali; successivamente, questo accordo è stato sottoposto a referendum e avrebbe dovuto, pertanto, acquisire una certa «sacralità»; dopodichè, si è valutata l’idea di modificare tale referendum, e non appare oggi chiaro se esso valga ancora, o no. E’ nuovamente opportuno sottolineare che, quando si toccano i diritti dei cittadini in materia pensionistica, bisognerebbe procedere con maggiore attenzione.

        Esiste, inoltre, un serio problema di copertura. In un primo tempo il costo dell’accordo sul welfare era stato quantificato in 10 miliardi di euro, mentre la quantificazione formalizzata nella legge finanziaria è leggermente più bassa. Alcune modifiche, previste nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri, suscitano poi seri dubbi. Per esempio, nell’accordo originario era previsto un tetto di 5.000 pensionamenti annui per i lavori usuranti. Questo tetto è stato poi eliminato e, probabilmente, il numero dei prepensionamenti per i lavori usuranti raddoppierà o salirà ancora di più. In questo caso, l’impatto finanziario dell’accordo è destinato a modificarsi e forse costerà il doppio rispetto ai 10 miliardi inizialmente previsti. Ovviamente, non disponiamo dei dati definitivi ma il costo potrebbe essere consistentemente più elevato.
        Un aspetto molto più preoccupante è l’eliminazione (e ignoriamo se sarà reintrodotta) della fissazione di una soglia limite del 60 per cento del trattamento pensionistico rispetto al trattamento stipendiale. Se tale misura è una petizione di principio, una pura affermazione, essa ha poco senso se non seguita da provvedimenti concreti. In caso contrario, invece, praticamente essa significa far saltare i meccanismi della cosiddetta «legge Dini». Tale legge potrà essere considerata una legge buona o cattiva ma va comunque riconosciuto che essa ha consentito di operare una grande riforma del sistema pensionistico, grazie all’introduzione di un metodo di calcolo diverso, destinato ad avere stabilità negli anni. I calcoli fatti indicano finora un tasso di sostituzione tra stipendi e pensioni nell’ordine del 35-40 per cento. Passare dal 40 al 60 per cento, non significa solo far saltare i meccanismi della «legge Dini» ma anche fare sì che la differenza non potrà che essere messa a carico dello Stato e dei contribuenti, con effetti valutabili in molte decine di euro. In sostanza, ciò rischia di far saltare tutto il sistema della finanza pubblica e ciò causa grande perplessità.
        Infine un’ultima, breve notazione sull’accordo del welfare, la cui copertura è garantita anche, in parte, da un aumento dell’aliquota contributiva dei parasubordinati. Nel corso delle audizioni conoscitive svolte dalle Commissioni bilancio riunite, alla domanda posta su tale questione ai rappresentanti sindacali è stato risposto che l’aumento delle aliquote dei parasubordinati serve a garantire un migliore trattamento di pensione ai medesimi. Si rileva che ciò sarebbe vero qualora tale aumento non fosse poi utilizzato per la copertura dell’accordo sul welfare. Se ne deduce che la finalità dell’aumento dell’aliquota potrà anche essere l’aumento del trattamento pensionistico dei parasubordinati, ma se queste risorse sono utilizzate al fine di coprire l’accordo sul welfare, esse non andranno a favore dei parasubordinati, bensì dei lavoratori regolari anziani, con lo scopo di migliorare il loro trattamento pensionistico o, meglio, per consentire loro di andare in pensione prima. Su tale punto si pone un problema sicuramente non irrilevante di equità intergenerazionale.

c.  Quattrocento euro in più per ogni famiglia

        Come si è visto, il Governo e la sua maggioranza, disinteressandosi completamente della questione del perseguimento degli obiettivi del Patto di stabilità europeo e del tema della «vera» riduzione della pressione fiscale, si sono dedicati anima e corpo all’imprudente esercizio di trovare tutti i modi possibili per spendere il frutto dell’extragettito, nel tentativo di tenere in piedi grazie ad un approccio da «Grande Elemosiniere» una maggioranza disomogenea e rissosa. In questo modo, Governo e maggioranza hanno bruciato con due decreti ed una finanziaria il «tesoretto» – invereconda espressione con la quale si vorrebbe qualificare come fortunata sopravvenienza ciò che non è altro che il sacrificio imposto ai contribuenti che hanno dovuto sopportare sulle loro spalle un inasprimento di ben due punti di pressione fiscale nell’ultimo anno.

        L’aspetto paradossale è che non solo Governo e maggioranza hanno sprecato circa 20 miliardi di euro tra i due decreti sul tesoretto e una legge finanziaria di spesa, ma, ciò nonostante, non sono nemmeno riusciti a trovare le risorse per finanziarie spese necessarie, come l’abolizione del ticket sulla diagnostica, il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, il finanziamento delle infrastrutture, il finanziamento dei finti tagli che derivano dal comma 507 delle finanziaria dell’anno scorso e i debiti pregressi di natura corrente – un totale di almeno 7 miliardi di euro – che resteranno da finanziarie comunque nel corso del 2008. Un bel sistema per scappare avvelenando i pozzi!
        A tutto ciò vanno aggiunte le spese approvate dalla Commissione bilancio, che ben lungi dal costituire un baluardo nei confronti delle richieste di finanziamento avanzate da tutti i partiti della maggioranza, ha svolto la funzione di «Grande Elemosiniere» dicendo sì a tutti, come si evince dalla quantità degli emendamenti approvati in Commissione, tra i quali spiccano assunzioni di personale precario addirittura calibrate su requisiti che verranno raggiunti solo in futuro. Non è trascurabile, d’altronde, l’impatto finanziario di tali misure (si veda la tabella allegata). L’esame in Commissione della legge finanziaria ha incrementato le spese – considerando solo quelle quantificate, senza tener conto degli oneri sottostimati e di quelli non evidenziati – di 2,3 miliardi solo per il 2008. Se si considera l’intero triennio, la somma è di 5,8 miliardi, di cui 4,5 solo di spesa corrente: ben 400 euro in media per ogni famiglia!

 

SPESE IN CONTO CORRENTE

SPESE IN CONTO CAPITALE

2008

2009

2010

2008

2009

2010

+ 1922.2

+ 1241.8

+ 1415.1

+ 412.3

+ 407.3

+ 407.3

TOT. TRIENNIO + 4579.1

TOT. TRIENNIO + 1226.9

Totale generale (Conto corrente + conto capitale) + 5806

2008

2009

2010

+ 2334.5

1649.1

1822.4

 

DI CUI, DAL MOMENTO DELL’ABBANDONO DELL’AULA DA PARTE DELLA CDL

SPESE IN CONTO CORRENTE

SPESE IN CONTO CAPITALE

2008

2009

2010

2008

2009

2010

+ 1424,6

+ 660,6

+ 941,7

+ 66

+ 60

+ 60

TOT. TRIENNIO + 3026,9

TOT. TRIENNIO + 186

        n.b. Le cifre sono espresse in milioni di euro

        È ridicolo, ad esempio, pensare che i nuovi assunti destinati al settore fiscale si possano ripagare con il frutto della lotta all’evasione o che il controllo delle condizioni economiche dei cittadini più poveri possa condurre risparmi nell’ordine del centinaio di milioni di euro o che basti dettare norme generiche sul contenimento delle spese degli enti locali o del taglio dei consumi intermedi per far quadrare, con un colpo di bacchetta magica, conti che non tornano.
4. Le nostre proposte

    Ad avviso della Casa delle Libertà, quella all’esame del Parlamento è una finanziaria da buttare. Non adempie agli obblighi del Patto di stabilità europeo, non rilancia lo sviluppo, non aiuta le famiglie. Si limita a distribuire «mance» preelettorali. Non è così che un Governo responsabile e preoccupato del bene del Paese deve agire.

        La nostra impostazione è radicalmente diversa. Bisogna avere il coraggio di selezionare gli obiettivi e concentrare le risorse, al fine di conseguire almeno un risultato visibile. Meglio un «colpo ben assestato» a un settore dell’economia che uno zucchero a velo buonista su tutto, che non risolve nessun problema. Anzi, potenzialmente, li aggrava in futuro.
        Da questo approccio derivano le proposte alternative della Casa delle Libertà, che si basano innanzitutto sulla considerazione che, in caso di risorse scarse, il primo dovere è quello di evitare di intraprendere nuove spese inutili. Per questo abbiamo presentato emendamenti per cancellare le spese superflue previste nei decreti sui cosiddetti «tesoretti» e nella finanziaria.
        All’interno delle grandezze di finanza pubblica occorre poi procedere ad una seria riallocazione delle risorse, concentrandole su pochi settori cruciali, in modo da costituire la massa d’urto sufficiente per cambiare aspettative e comportamenti di famiglie e imprese, in modo da colpire al cuore il problema centrale, che è quello dello sviluppo. Che non può essere aggredito con provvedimenti marginali o irrisori, ma solo con una decisa sterzata in almeno uno dei tre ambiti seguenti:

            – investimenti delle imprese,

            – redditi delle famiglie,
            – infrastrutturazione del Paese.

        Ben ci rendiamo conto che l’elenco delle necessità non si limita a questi tre settori, ma quando la casa brucia bisogna in primo luogo portare l’acqua dove è urgentemente necessario.

        Abbiamo concentrato quindi l’attività emendativa su pochi emendamenti (meno di 20) che si concentrano su:

            a) diminuzione delle imposte delle imprese,

            b) un nuovo regime fiscale per le famiglie,
            c) la considerazione della casa come bisogno primario e non manifestazione di ricchezza,
            d) la necessità di non fermare la realizzazione delle infrastrutture,
            e) la sicurezza come bene primario di tutti i cittadini.

        Le proposte si possono compendiare nelle seguenti:

a) Meno tasse sulle imprese

        Una riduzione dell’IRAP al 3 per cento, con una riduzione tripla di quella proposta dal Governo. Nessuna modifica della base imponibile dell’IRES con conseguente riduzione dell’imposta sul reddito di impresa. Una clausola di salvaguardia sull’IRES a favore del contribuente.

b) Un nuovo regime fiscale per le famiglie

        La famiglia va considerata unitariamente come soggetto fiscale. Tenendo presente che molti nuclei familiari, soprattutto con figli, hanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Molti giovani, tra l’altro, rinunciano a sposarsi o ad avere figli, proprio a causa delle difficoltà economiche. Si tratta di una vera e propria mostruosità del sistema fiscale. La vita delle persone non deve essere in funzione del fisco, ma il fisco deve essere in funzione della vita delle persone. Per tale ragione, se il fisco nuoce alle famiglie, è il fisco che va cambiato. Proponiamo di farlo con un meccanismo – che potrà anche costituire lo strumento per il passaggio ad un sistema basato sul cosiddetto «quoziente familiare», ma che nel frattempo è semplice ed efficace. Si propone di operare una consistente deduzione dal reddito imponibile, in caso di matrimonio e di figli. In questo modo i contribuenti sanno con chiarezza quante tasse in meno pagheranno, sono in grado di programmare meglio la loro vita lavorativa e, soprattutto, godono di uno sconto fiscale rilevante e permanente.

        Per le famiglie monoreddito: sconto del 10 per cento sul reddito complessivo (il tetto massimo non può superare i 100.000 euro lordi l’anno) qualora solo uno dei coniugi svolga attività lavorativa, sia dipendente sia autonoma, che attività di impresa. La stessa deduzione del 10 per cento potrà essere applicata nel caso in cui il reddito complessivo dell’altro coniuge non superi i 3.000 euro.
        Nel caso di coniugi entrambi lavoratori: lo sconto si abbassa al 4 per cento per ciascun coniuge nel caso in cui entrambi lavorino. Si potrà godere della deduzione a patto che il reddito complessivo non superi i 100.000 euro lordi l’anno.
        La riforma tiene conto del livello del reddito: è previsto un incremento della deduzione per chi ha redditi inferiori a 25.000 euro e una diminuzione per redditi superiori a 50.000 euro. Si avvantaggia chi ha un reddito minore.
        Per ogni figlio a carico si prevede una riduzione dell’imponibile del 10 per cento; lo sconto sale al 15 per cento nel caso di figli disabili. Il beneficio potrà essere applicato a tutti: figli naturali, adottivi, affidati o affiliati.

Confronto tra l’attuale e il regime fiscale proposto per le famiglie

Famiglia monoreddito (30.000 euro circa di reddito) con due figli:

            – Vecchio regime: 690 euro per il coniuge + 1.000/1.220 euro (in media) di detrazione per figli a carico = 2.000 euro circa
            – Nuovo regime: deduzione di 9.000 euro, per un risparmio di imposta medio di 3.000 circa
            – Differenza: 3.000–2.000= 1.000 euro in media
Famiglia monoreddito (42.000 euro circa di reddito) con due figli:
            – Vecchio regime: 690 euro per il coniuge + 1.000/1.220 euro (in media) di detrazione per figli a carico = 2.000 euro circa
            – Nuovo regime: deduzione di 12.660 euro, per un risparmio di imposta medio di 3.220 circa
            – Differenza: 3.220–2.000= 1.220 euro in media

    Per gli incapienti: concessione di un contributo speciale annuale per il sostentamento della famiglia ai nuclei familiari che in sede di dichiarazione dei redditi presentino un importo di imposta netta inferiore a 100 euro oppure nel caso siano esentati dalla presentazione della dichiarazione. Il contributo, pari a 2.000 euro l’anno, viene erogato a ciascun componente della famiglia ed è commisurato all’importo dell’IVA assolta per l’acquisto di beni primari.

        Relativamente alle spese sanitarie: per la parte che eccede 129,11 euro, la soglia massima di detraibilità per tali spese (ora prevista) non vale qualora esse siano sostenute a favore dei figli di minore età, spettando, invece, la detrazione d’imposta nella misura massima del 23 per cento del loro importo.
        Per i libri di testo: deducibilità dal reddito imponibile spetta anche per le spese per l’acquisto di libri di testo scolastici e di materiale tecnico-scolastico sostenute per i figli minorenni in misura non superiore a 500 euro per ciascun figlio.

c) Meno tasse sulla casa, più case per gli italiani

        La Casa delle Libertà propone la totale e permanente abolizione dell’ICI sulla prima casa, che viene sottratta dall’imposizione; il congelamento degli estimi catastali con la sospensione di tutte le revisioni di estimi catastali per un quinquennio. Per agevolare la costruzione e l’acquisto della prima casa è prevista l’istituzione di un Fondo rotativo in conto capitale per lo sviluppo del patrimonio abitativo. Vengono concessi contributi straordinari fino al 30 per cento del valore di un immobile e il finanziamento potrà essere restituito a partire dal quinto anno dall’erogazione, senza oneri di interessi. E’ prevista infine una deduzione per il pagamento dell’affitto dell’abitazione principale: 20 per cento del canone di locazione annuo, fino a un massimo di 2.000 euro annui, per redditi entro i 20.000 euro; 10 per cento del canone di locazione annuo, fino a un massimo di 2.000 euro annui, per redditi compresi tra 20.000 e 30.000 euro. Mentre i redditi da locazione di unità immobiliari urbane sono sottoposti ad un’imposta sostitutiva del 20 per cento.

d) Più investimenti in infrastrutture

        Di fronte ad un Governo che vive di veti, la Casa delle Libertà propone l’indispensabile rifinanziamento della «legge obiettivo», privilegiando il cofinanziamento delle grandi direttrici già finanziate dall’Unione europea. Si tratta, in particolare, della Lisbona-Kiev, della Genova-Rotterdam e della Berlino-Palermo. Se l’Italia non provvederà rapidamente a decidere le opere e a finanziarle, si rischia seriamente di perdere i contributi comunitari e di pagare di tasca nostra infrastrutture realizzate all’estero. Sarebbe una vera pazzia.

e) Più risorse per la sicurezza

        La Casa delle Libertà propone di triplicare le risorse del Fondo per la sicurezza – che viene portato da 100 milioni previsti dal Governo a 300 milioni – oltre ad agevolazioni tributarie in materia di servizi di sorveglianza.

        Si prevede inoltre la deducibilità dall’IRPEF delle spese per la prestazione di servizi privati di sorveglianza e di protezione e per l’acquisto di impianti di video sorveglianza.

        Fondo straordinario per la lotta alla criminalità: si istituisce un fondo straordinario per il 2008 con lo stanziamento di 500 milioni di euro a favore dei prefetti e da destinare per fronteggiare l’emergenza criminalità con mezzi e personale. Occorrono i fatti, a cominciare da una seria politica di investimento nel settore della sicurezza.

5. La «rottura procedurale» in Commissione

        L’esame in Commissione è stato turbato da un episodio che ha impedito l’ordinaria conclusione dell’iter del provvedimento. Infatti, i Senatori appartenenti alla Casa delle Libertà hanno abbandonato i lavori della Commissione stessa, dopo che un importante emendamento, senz’altro condivisibile, relativo all’abolizione dei ticket sulla diagnostica per il 2008, è stato posto ai voti in assenza di relazione tecnica «bollinata» dalla Ragioneria generale dello Stato. Poiché la Commissione aveva già deciso di far sottoporre a relazione tecnica tutti gli emendamenti del Governo e del Relatore, al fine di valutarne più compiutamente le implicazioni finanziarie, il fatto che l’emendamento di maggior rilievo economico sia stato presentato senza il documento in questione, e al solo fine di evitare che la Commissione avesse notizia dei rilievi fortemente critici espressi dal competente organo dell’amministrazione, ha introdotto, ad avviso dei Senatori della Casa delle Libertà, un grave vulnus ad un procedimento di garanzia del valore delle deliberazioni del Parlamento. Trattandosi di una questione relativa alle regole, non si poteva che trarne adeguate conseguenze.

        È bene ricordare che non si tratta di una questione esclusivamente formale. Il mancato corredo della relazione tecnica, infatti, era funzionale a consentire l’approvazione di un emendamento di spesa scoperto nella sostanza, anche se formalmente coperto in maniera fittizia. Ed è proprio questo il punto. I Senatori della Casa delle Libertà hanno voluto segnare anche fisicamente, con la loro uscita dall’aula della Commissione, la formale presa di distanza da una maggioranza che ha utilizzato la finanziaria e il Senato come un bancomat, per finanziare aumenti della spesa pubblica che non hanno altro scopo che foraggiare una politica che ha tutte le caratteristiche del finanziamento della spesa preelettorale. E poiché, in tema di spesa pubblica, non bisogna considerare l’argomento sotto la falsa prospettiva dell’andamento dei saldi, ma esclusivamente da quello dell’incremento del livello generale della spesa, questo è l’effetto più pernicioso della finanziaria al nostro esame: vale a dire che ogni euro di spesa in più non potrà che tradursi in un euro di tasse in più per i cittadini italiani. Questo è il vero «costo della politica»: usare le tasse che derivano dal sudato lavoro dei contribuenti per dilapidarle in spesa pubblica clientelare.

    *  *  *

        Onorevoli Senatori, per tutti questi motivi, la Casa delle Libertà non può che negare il proprio assenso ad una legge di bilancio e ad una legge finanziaria che vanno esattamente nel senso opposto da quello richiesto dagli Italiani per il bene del nostro Paese.

Vegas, relatore di minoranza