Legislatura 19ª - Atto di Sindacato Ispettivo n. 1-00008 (testo 2)
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Atto n. 1-00008 (
(riformulazione del n. 1-00008)
Pubblicato il 20 luglio 2023, nella seduta n. 90
PATUANELLI, MAIORINO, PIRRO, DI GIROLAMO, NAVE, GUIDOLIN, MAZZELLA, ALOISIO, BEVILACQUA, BILOTTI, CASTELLONE, CASTIELLO, CATALDI, CROATTI, DAMANTE, DE ROSA, FLORIDIA Barbara, LICHERI Ettore Antonio, LICHERI Sabrina, LOPREIATO, LOREFICE, MARTON, NATURALE, PIRONDINI, SCARPINATO, SIRONI, TREVISI, TURCO
Il Senato,
premesso che:
in Italia il fenomeno dei working poor (lavoratori il cui reddito è inferiore alla soglia di povertà relativa, dovuto anche al lavoro a tempo parziale, pur essendo regolarmente occupati) è in crescita, così come, secondo quanto riferito dal rapporto Eurostat "In-work poverty in the EU" del 16 marzo 2018, è in crescita la distanza che li separa dal resto dei lavoratori;
nel nostro Paese, l'11,7 per cento dei lavoratori dipendenti riceve un salario inferiore ai minimi contrattuali: dato questo ben al di sopra della media dell'Unione europea, che si attesta al 9,6 per cento. Ciò che allarma di più è l'aumento record, oltre il 23 per cento, registrato tra il 2015 e il 2016. A ciò si aggiungono i dati sulle prospettive di vita: stando ai dati attuali (fonte Censis) ben 5,7 milioni di giovani (tra i quali i precari, i cosiddetti NEET, i working poor e quelli in "lavoro gabbia") rischiano di avere nel 2050 pensioni sotto la soglia di povertà;
considerato che:
la garanzia di una retribuzione dignitosa e adeguata per tutti i lavoratori favorirebbe senz'altro la realizzazione di un mercato del lavoro più inclusivo, equo e paritario, abbattendo le disuguaglianze, anche in termini di divario retributivo di genere (gender pay gap);
come dimostrato da illustri economisti, la misura che più è idonea a contrastare il fenomeno della povertà lavorativa è la fissazione legislativa dei minimi salariali;
la necessità di interventi nazionali sul salario minimo in un contesto di garanzia europea di adeguatezza delle retribuzioni è avvertita con maggior urgenza anche alla luce della crisi prodotta dall'emergenza epidemiologica, energetica e relativa all'inflazione economica conseguente alla guerra in corso, che ha colpito in modo particolare proprio i settori caratterizzati da un'elevata percentuale di lavoratori a basso salario, quali, a titolo esemplificativo, quello del commercio al dettaglio, dei servizi, del turismo e agricolo;
valutato che:
in base agli studi condotti dalla Commissione europea riportati anche nella proposta di direttiva relativa ai salari minimi, l'aumento dei costi del lavoro verrebbe in gran parte compensato da un incremento dei consumi da parte dei lavoratori a basso salario, così da sostenere la domanda interna. Inoltre, sempre in base alle stime dell'Unione europea, l'eventuale impatto negativo sull'occupazione sarebbe di scarso rilievo, rimanendo nella maggior parte dei casi al di sotto dello 0,5 per cento del tasso di occupazione totale, raggiungendo l'1 per cento in soli tre Stati membri;
nonostante nel nostro Paese si registri una copertura quasi totale della contrattazione collettiva (che si attesta al 98 per cento della forza lavoro impiegata nel settore privato e riguarda oltre il 99 per cento delle aziende private), purtroppo un consistente numero di lavoratori percepisce salari non dignitosi. Ciò è quanto emerge dall'ultimo rapporto annuale dell'Istituto nazionale della previdenza sociale che, ipotizzando diversi importi del salario minimo regolato dalla legge, individua: 2.596.201 lavoratori "sotto soglia", se si considera un salario minimo tabellare (e un importo minimo pari a 8 euro lordi) e 4.578.535,00 pari al 29,7 per cento dei lavoratori se si considera un salario tabellare pari a 9 euro lordi;
il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali dei lavoratori italiani continua ad arretrare, con un aumento previsto nel 2023 pari al 2,5 per cento, di molto inferiore alla crescita dei prezzi, tenuto conto che l’inflazione acquisita per l’anno è del 6,1 per cento;
l'insufficienza dei salari percepiti dai lavoratori italiani risulta inequivocabilmente confermata anche dalle stime relative al numero di soggetti che, pur essendo titolari di un rapporto di lavoro, percepiscono (o meglio percepiranno fino al 31 dicembre 2023) il reddito di cittadinanza, misura abrogata dal “decreto lavoro”;
più precisamente, in base alle informazioni in possesso dei firmatari del presente atto di indirizzo, sono 365.436 i beneficiari della misura che, alla data dell'8 gennaio 2021, risultavano titolari di un rapporto di lavoro attivo. Ciò significa che almeno 365.436 individui percepiscono un trattamento economico che non consente loro di superare la soglia di povertà;
sono 6,9 milioni i lavoratori dipendenti con contratto scaduto, il 55,6 per cento del totale. I 4,5 miliardi di euro stanziati recentemente dal decreto-legge n. 48 del 2023 (decreto lavoro) per il taglio del cuneo fiscale fino a dicembre 2023, ad esempio, si sarebbero potuti utilizzare per detassare gli incrementi salariali derivanti dai rinnovi dei contratti stessi, così da rendere permanente l’aumento in busta paga;
secondo uno studio dell’INAPP, realizzato nel 2021, con un salario minimo a 9 euro lordi all’ora il 23,3 per cento delle lavoratrici vedrebbe crescere i propri salari. Colpisce, pertanto, che il Governo guidato dalla prima Presidente del Consiglio dei ministri donna nella storia d’Italia si scagli contro una misura che avvantaggerebbe soprattutto le lavoratrici, che fra part-time involontario e condizioni di lavoro precarie restano, insieme ai giovani, ancora più svantaggiate sul lavoro;
considerato inoltre che:
da una verifica dei dati disponibili sui minimi contrattuali applicati in concreto emerge come sia certamente necessario individuare dei criteri affidabili di selettività dei soggetti collettivi abilitati a fissarli, fondati su trasparenti riscontri in termini di rappresentatività e, al tempo stesso, offrire direttive orientative agli agenti negoziali sui limiti che in ogni caso si devono garantire; un doppio sostegno alla contrattazione senza il quale la realtà mostra che, nonostante gli sforzi e l'impegno di parte sindacale, i risultati possono essere deludenti;
in alcuni settori, infatti, i minimi salariali fissati nei cosiddetti contratti leader non sembrano adeguati e "sufficienti", alla luce delle disposizioni costituzionali e degli indicatori internazionali. Per citare solo alcuni esempi, soffermandosi sui contratti collettivi tra i più applicati secondo i dati forniti dall'INPS, si possono richiamare: il contratto collettivo nazionale di lavoro del settore del turismo (dove il trattamento orario minimo è pari a 7,48 euro), quello delle cooperative nei servizi socio-assistenziali (in cui l'importo orario minimo ammonta a 7,18 euro), il contratto collettivo per le aziende dei settori dei pubblici esercizi, della ristorazione collettiva e commerciale e del turismo (che stabilisce il minimo orario contrattuale in 7,28 euro) e il contratto collettivo del settore tessile e dell'abbigliamento, che stabilisce una retribuzione minima pari a 7,09 euro per il comparto dell'abbigliamento;
in alcuni casi la retribuzione scende addirittura al di sotto della soglia dei 7 euro: è quanto si osserva per il contratto collettivo nazionale per i servizi socio-assistenziali, in cui il minimo retributivo è fissato in 6,68 euro o per quello relativo alle imprese di pulizia e dei servizi integrati o dei multiservizi che prevede un minimo retributivo orario pari a 6,83 euro. Infine, anche se non rientra tra i contratti collettivi di lavoro maggiormente applicati, occorre ricordare che quello della vigilanza e dei servizi fiduciari, anch'esso non rinnovato dal 2015, prevede un minimo salariale di soli 4,60 euro all'ora per il comparto dei servizi fiduciari e un importo di poco superiore a 6 euro per i servizi di vigilanza privata;
a ciò si aggiungono ulteriori ragioni che ostacolano l'effettività del diritto a percepire una giusta retribuzione. Tra queste, particolare rilievo si deve certamente riconoscere al proliferare dei contratti collettivi "pirata", ossia quei contratti collettivi, diffusi soprattutto in alcuni settori, stipulati da soggetti dotati di scarsa o inesistente forza rappresentativa, finalizzati a fissare condizioni normative ed economiche peggiorative per i lavoratori rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, dando vita a dannosi fenomeni di distorsione della concorrenza;
in alcuni settori, quali a titolo esemplificativo quello alimentare, della logistica e socio-sanitario, è frequente la presenza del fenomeno delle esternalizzazioni "al ribasso". Una soluzione a queste problematiche potrebbe essere rappresentata dall'introduzione del salario minimo legale che proprio nell'ambito degli appalti, pubblici e privati, potrebbe portare a risultati significativi, ancor più necessari dopo le modifiche introdotte al codice degli appalti, con particolare riferimento agli appalti “a cascata” consentendo di sottrarre con maggiore decisione il costo del lavoro dal gioco della libera concorrenza tra imprese;
il moltiplicarsi dei contratti collettivi (troppi e spesso non rappresentativi, soprattutto nel caso dei "contratti pirata"), oggi pari a 1.011, costituisce infatti un'ulteriore forma di dumping salariale;
quali concause si possono inoltre individuare: la frammentazione dei settori prevalentemente collegata ai mutamenti economici, organizzativi e tecnologici; la proliferazione di forme di lavoro atipico, che sfuggono ad un immediato inquadramento nell'ambito del lavoro autonomo o subordinato; il massiccio ricorso delle aziende alle esternalizzazioni. Dal quadro delineato si può agevolmente concludere che l'attuale assetto della contrattazione collettiva necessita di essere sostenuto e promosso dall'ordinamento statuale al fine di garantire a tutti i lavoratori italiani l'applicazione di trattamenti retributivi dignitosi;
osservato che:
l'introduzione di una disciplina sul salario minimo che valorizzi il ruolo della contrattazione collettiva deve però tenere conto di alcuni ostacoli. Infatti, i contratti collettivi non hanno un'efficacia erga omnes, attesa la mancata attuazione dei commi secondo, terzo e quarto dell'articolo 39 della Costituzione, ma la giurisprudenza utilizza, nella stragrande maggioranza dei casi, i trattamenti minimi fissati dal contratto collettivo quale parametro per l'individuazione della retribuzione sufficiente ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione;
tuttavia, in ragione dell’assenza della misurazione della rappresentanza delle organizzazioni datoriali e sindacali, attualmente si contano nell’archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro presso il CNEL oltre 1.000 contratti. Pertanto, nella piena consapevolezza della massiccia presenza dei contratti “al ribasso” (o pirata) appare opportuno introdurre nella legislazione disposizioni che misurando la rappresentanza, determinino quali contratti collettivi di settore possano fungere da parametro per la determinazione del salario minimo;
rilevato che:
in materia di giusta retribuzione sono state presentate diversi disegni di legge sia al Senato che alla Camera dove, da qualche mese, è iniziato l’esame dei predetti provvedimenti;
lo scorso 4 luglio 2023, le forze di opposizione (con l’eccezione di Italia Viva) hanno depositato alla Camera una proposta di legge per l’introduzione del salario minimo legale a prima firma dell’on. Giuseppe Conte (AC 1275);
la proposta prevede che ai lavoratori sia riconosciuto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, salvi restando i trattamenti di miglior favore. Viene, inoltre, specificato che a ulteriore garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione, venga comunque introdotta una soglia minima inderogabile di 9 euro lordi all’ora, per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali è più debole il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali;
secondo i calcoli depositati recentemente dall’ISTAT in sede di audizione sui disegni di legge in materia di salario minimo, l’eventuale introduzione di un salario minimo pari a 9 euro lordi all’ora comporterebbe aumenti per 3,6 milioni di rapporti di lavoro (3 milioni circa di lavoratori) con un aumento medio di 804 euro a rapporto e una crescita del monte salariale di quasi 2,9 miliardi di euro;
la giusta retribuzione così definita non riguarda solo i lavoratori subordinati, ma anche i rapporti di lavoro che presentino analoghe necessità di tutela nell’ambito della parasubordinazione e del lavoro autonomo;
dalle forze di maggioranza, sono stati presentati 12 emendamenti alla proposta di legge, tra i quali figura un emendamento interamente soppressivo dell’intero disegno di legge che rappresenta chiaramente le intenzioni del Governo riguardo a una misura volta a garantire equità e tutela della posizione di debolezza del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro;
il voto in Commissione Lavoro della Camera degli emendamenti è previsto per il prossimo 25 luglio. La proposta di legge è calendarizzata in Assemblea per il 28 luglio,
impegna il Governo:
1) ferma restando l'applicazione generalizzata del contratto collettivo nazionale di lavoro e a ulteriore garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione, a introdurre una soglia minima salariale inderogabile, pari a 9 euro all'ora, per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali è più debole, prevedendo che la soglia si applichi soltanto alle clausole relative ai “minimi”, lasciando al contratto collettivo la regolazione delle altre voci retributive;
2) a valorizzare i contratti collettivi "leader", ossia quelli siglati dai soggetti comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale che presentino maggiore connessione, in senso qualitativo, all'attività produttiva del luogo di lavoro;
3) a definire specifici criteri atti a misurare il grado di rappresentatività sia delle organizzazioni sindacali che datoriali, valorizzando i criteri autoprodotti dall'ordinamento intersindacale negli accordi interconfederali stipulati dalle confederazioni maggiormente rappresentative;
4) a sancire il principio secondo il quale le parti sociali sono abilitate a stabilire il trattamento minimo complessivo e il trattamento economico minimo;
5) a istituire una commissione composta da rappresentanti istituzionali e delle parti sociali comparativamente più rappresentative che avrà come compito principale quello di proporre periodicamente l’aggiornamento del trattamento economico minimo orario, prevedendo che l’aggiornamento, su proposta della commissione, sia disposto con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, e avrà anche compiti di controllo e di monitoraggio sull'effettivo rispetto della retribuzione complessiva sufficiente e adeguata alla qualità del lavoro prestato e sull'andamento della contrattazione collettiva nei vari settori;
6) ad introdurre un'apposita procedura giudiziale, di matrice collettiva, volta a garantire l'effettività del diritto dei lavoratori a percepire un trattamento economico dignitoso.