Senato della Repubblica | XVIII LEGISLATURA |
COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 19 GENNAIO 2022
Modifiche al codice di procedura penale in materia di impugnazione delle sentenze
Onorevoli Senatori. – Il disegno di legge interviene in ordine al regime dell'impugnazione delle sentenze di proscioglimento da parte dei pubblici ministeri, questione già interessata dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46 – recante « Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento » –, con conseguente scrutinio della Corte costituzionale. In particolare, come noto, la citata legge (cosiddetta « Pecorella ») nel suo punto nodale escludeva la possibilità per il pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento, salvo l'emergere di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado. Successivamente, la Consulta, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'incostituzionalità della norma sopra riferita in quanto negazione del principio di parità delle parti, impedendo al pubblico ministero il potere di impugnare una sentenza di primo grado in appello.
Proprio sulla violazione dell'articolo 111, secondo comma, della Costituzione, la Corte pone l'accento ricordando come « il secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione, inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 – recante “Inserimento dei principi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione” – nello stabilire che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità” – abbia conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, “pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali” ».
Ma invero, nella citata decisione, per la Corte « le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici – essendo l'una un organo pubblico che agisce nell'esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi, l'altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell'iter processuale, in un'assoluta simmetria di poteri e facoltà ».
La Consulta si premura di affermare che giammai potrà ipotizzarsi che « la posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l'organo dell'accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi – posizione di vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche al carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati mezzi d'indagine – abiliti di per sé sola il legislatore, in nome di un'esigenza di “riequilibrio”, a qualsiasi deminutio, anche la più radicale, dei poteri del pubblico ministero nell'ambito di tutte le successive fasi ».
Né può ritenersi secondaria l'obiezione che a fronte di una sentenza di proscioglimento in primo grado, ribaltata in appello, la decisione possa ritenersi immune da ogni ragionevole dubbio, secondo la nota regola del beyond any reasonable doubt (BARD), come direbbero gli anglosassoni. Ed ancora, non è certo un caso che l'intero sistema delle impugnazioni sia per sua natura attento a garantire, anzitutto, la possibilità di contestare una sentenza sfavorevole all'imputato, garantendo la possibilità di una revisione del primo giudizio di condanna.
Sul punto giova ricordare l'articolo 2 del protocollo numero 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali o l'articolo 14, paragrafo 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Tali norme prevedono che la persona condannata per un reato abbia diritto a che l'accertamento di colpevolezza sia esaminato da un tribunale superiore o di seconda istanza. Diritto riconosciuto solo all'imputato e non all'accusa. Non è certo un caso che nella Relazione finale della Commissione di studio, presieduta da Giorgio Lattanzi, per la riforma della giustizia penale, del 24 maggio 2021, si possa leggere, quale suggerimento per il nuovo processo penale: « prevedere l'inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero ». Questo perché « l'indisponibilità per il pubblico ministero di un rimedio finalizzato a ottenere un nuovo giudizio di fatto in sede di appello discende: da un canto, con riguardo alle sentenze di proscioglimento, dallo standard dell'oltre ogni ragionevole dubbio, che promana dall'articolo 27, comma 2, della Costituzione e rende inconcepibile sul piano logico il raggiungimento della certezza processuale dopo un giudizio di proscioglimento, se non in presenza di vizi di motivazione che escludano la riproponibilità della valutazione alternativa e a seguito di una articolata e problematica rinnovazione istruttoria; d'altro canto, per la sentenza di condanna, dalla natura che l'appello si vede riconosciuta nelle fonti internazionali e nel quadro costituzionale, che ne sanciscono, come ricordato, la funzione di tutela del diritto di difesa dell'imputato ».
Del resto, sempre secondo la Relazione Lattanzi: « Dopo trent'anni dall'introduzione della riforma in senso accusatorio il tempo è ormai maturo per ripensare alla funzione da attribuire all'appello nell'innovata architettura del contraddittorio. In fondo, negli ultimi tre lustri il legislatore ha effettuato due tentativi di segno opposto. Da un lato, la legge n. 46 del 2006 ha puntato sulla parziale riduzione dell'appello avverso le sentenze di proscioglimento, che è stata censurata come irragionevole dalla Corte costituzionale (sentenze n. 26 del 2007 e 85 del 2008). Dall'altro lato, la legge n. 103 del 2017 ha mirato al rafforzamento dei poteri istruttori in seconde cure nell'ipotesi di appello del pubblico ministero: anche questa prospettiva si è dimostrata piuttosto critica, nella misura in cui ha prodotto un meccanismo assai dispendioso e problematico, destinato a produrre veri e propri cortocircuiti logici quando opera nei casi di giudizio abbreviato (e nelle ipotesi di impugnazione della parte civile).
Per ridisegnare il sistema delle impugnazioni alla luce delle coordinate costituzionali e convenzionali si deve dunque prendere le mosse proprio dalle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, che ha rimarcato – in modo sempre più accentuato – la “diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell'articolo 112 della Costituzione – e, dunque, più ‘malleabile’, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti – quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all'articolo 24 della Costituzione – e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi – quello dell'imputato” (sentenza n. 34 del 2020) ».
E proprio la sentenza della Corte citata dalla Relazione Lattanzi, la n. 34 del 2020, ci ricorda che: « Sulla premessa che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale, questa Corte ha posto in evidenza come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti “margini di ‘cedevolezza’ più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell'imputato”. Il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere, infatti, configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, enunciato dall'articolo 112 della Costituzione; quando, invece, sull'altro fronte, il potere di impugnazione dell'imputato si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione), che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni di segno inverso ».
Da ultimo va rilevato come la presunzione di innocenza e il diritto a un equo processo sono sanciti negli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), nell'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), nell'articolo 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (ICCPR) e nell'articolo 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. In tempi più recenti si ricorda la direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, recepito in parte con il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188. L'articolo 3 della direttiva rubricato « Presunzione di innocenza » afferma: « Gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza ». Tale innovato quadro normativo porta a rileggere sotto una nuova luce la posizione del pubblico ministero.
La dottrina si interroga quindi sul nuovo ruolo assunto dal pubblico ministero: « Cerbero della legalità » o « avvocato dell'accusa » (utilizza questi termini suggestivi A. Macchia). Secondo la già citata giurisprudenza dalla Corte costituzionale, sentenza n. 34 del 2020, la limitazione del potere di appello della parte pubblica persegue l'obiettivo di assicurare la ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d'appello. In particolare, le preclusioni che riguardano sentenze che hanno accolto la « domanda di punizione » proposta dal pubblico ministero e che non hanno, altresì, inciso in modo significativo sulla prospettazione accusatoria (mutando la qualificazione giuridica del fatto, escludendo aggravanti a effetto speciale o applicando una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato) risultano, agli occhi della Consulta, contenute e non sproporzionate rispetto all'obiettivo.
Tale assetto sembra avvicinare « il ruolo del pubblico ministero a quello di una vera e propria parte processuale, portatore di interessi, per certi versi, maggiormente “individualistici” o comunque non spiccatamente pubblicistici » perché le limitazioni già introdotte nel nostro ordinamento al potere d'appello sembrano « avvicinarlo ad una “parte in senso stretto” », del resto « non si può non obiettare che il pubblico ministero nel processo penale riveste già a tutti gli effetti il ruolo di parte » (considerazioni che si possono approfondire nel fascicolo n. 9 del 2020 di Sistema penale, a cura di Anna Barbieri).
Ebbene dunque, questa rilettura del quadro normativo e del ruolo del pubblico ministero impone di rivedere la stessa interpretazione del principio della parità delle armi che ispirò all'epoca la sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2007.
Art. 1.
(Modifica all'articolo 428
del codice di procedura penale)
1. All'articolo 428, comma 1, del codice di procedura penale, la lettera a) è abrogata.
Art. 2.
(Modifica all'articolo 593
del codice di procedura penale)
1. All'articolo 593, comma 2, del codice di procedura penale, le parole: « Il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di proscioglimento. » sono soppresse.
Art. 3.
(Modifica all'articolo 606
del codice di procedura penale)
1. All'articolo 606, comma 2, del codice di procedura penale, dopo le parole: « o inappellabili » sono aggiunte le seguenti: « nonché dal pubblico ministero nei casi di sentenza di proscioglimento in primo grado ».