Senato della RepubblicaXVIII LEGISLATURA
N. 1350
DISEGNO DI LEGGE
d'iniziativa dei senatori CASTIELLO, MININNO, GALLICCHIO, DONNO, ORTOLANI, MAUTONE, MARINELLO, ROMAGNOLI, CASTELLONE, LANNUTTI, FEDE, URRARO, RICCIARDI, CAMPAGNA, LANZI, MATRISCIANO, TRENTACOSTE, ANASTASI, DI MICCO e LOREFICE

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 20 GIUGNO 2019

Disposizioni per il contrasto al fenomeno del mobbing

Onorevoli Senatori. – La conoscenza del fenomeno mobbing nell'Europa continentale si è sviluppata negli anni ’80 del secolo scorso grazie soprattutto agli studi del prof. Heinz Leymann, psicologo tedesco emigrato in Svezia, che ebbe il merito di riconoscere per primo la forte connessione tra alcuni problemi psicologici denunciati da suoi ammalati e le difficoltà che le stesse persone denunciavano di incontrare sul luogo di lavoro.
È stato lo stesso Leymann a utilizzare la parola mobbing, che in inglese significa accerchiare, isolare, ma in Inghilterra il fenomeno in questione è definito bullyng at work-place; negli Stati Uniti sono state utilizzate definizioni quali work abuse, mentre in Francia il fenomeno viene definito come harcèlement moral.
Il termine, ormai di uso comune nel linguaggio corrente, deriva dall'inglese to mob che significa attaccare, assalire tumultuosamente, circondare qualcuno, ed è stato inizialmente coniato dall'etologo Konrad Lorenz per descrivere l'attacco di un gruppo di uccelli contro l'intrusione di un altro animale.
Più precisamente, in ambito scientifico appare sostanzialmente consolidata la definizione data dal Leymann: « una comunicazione (o meglio, un rapporto – n.d.a.) conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o tra superiori e dipendenti nella quale la persona attaccata viene posta in una posizione di debolezza e aggredita direttamente o indirettamente da una o più persone in modo sistematico, frequentemente e per un lungo periodo di tempo, con lo scopo o la conseguenza della sua estromissione dal mondo del lavoro ».
Si tratta di un fenomeno di notevole rilevanza sociale, per la sua diffusione e la gravità delle possibili conseguenze, che si sostanzia in una violenza o persecuzione psicologica, attuata con una serie di comportamenti di varia natura (anche legittimi se considerati individualmente) che la vittima viene a subire nell'ambiente di lavoro. Non è richiesto che la condotta persecutoria sia finalizzata ad indurre la vittima ad abbandonare il lavoro: in ogni caso, anche senza tale proposito, il mobbing si sostanzia in un abuso perpetrato volontariamente nei confronti della dignità di una persona e dal quale possono derivare danni di natura psicologica, fisica ed economica.
La considerazione dell'essere umano non più solo come titolare di diritti a contenuto patrimoniale o di un diritto alla protezione della propria salute tanto fisica quanto psichica, bensì come persona che ha diritto a vedere rispettata, in ogni circostanza, la propria dignità e la propria sfera esistenziale, ha condotto alla necessità di una tutela della persona nella sua interezza e in tutte le sue attività costituzionalmente tutelate, con conseguente evoluzione dalla nozione di danno non patrimoniale.
Infatti, con la sentenza interpretativa n. 233 del 30 giugno – 11 luglio 2003 la Corte costituzionale (peraltro preceduta da diverse pronunce della Cassazione in tal senso: vedi ad esempio Cassazione 31 maggio 2003 n. 8827) rigettava una eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Roma in ordine all'articolo 2059 del codice civile, osservando che il predetto articolo poteva essere interpretato in modo costituzionalmente corretto ricomprendendo nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona e quindi il danno morale soggettivo, il danno biologico in senso stretto, il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale, il danno esistenziale.
In particolare, dopo tale decisione, le fattispecie di danno sono state integrate con la individuazione – pur all'interno del danno non patrimoniale – del danno esistenziale, inteso quale danno al benessere della persona, considerato come un valore in sé indipendentemente dal fatto dell'insorgenza nella vittima di uno stato patologico qualificabile come malattia.
Il Parlamento europeo, con la risoluzione 2001/2339, impegnava i Paesi membri a dotarsi di una legislazione anti-mobbing. Su questo piano dunque il nostro Paese è in ritardo rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei che, come la Svezia o la Francia, si sono già dotati di regole volte a prevenire e sanzionare i comportamenti che possono qualificarsi come mobbing.
L'importanza dell'intervento legislativo deriva però non solo dalla esigenza di allinearsi agli altri Paesi dell'Unione europea, ma dalla necessità di assicurare adeguata tutela alla dignità ed integrità della persona. Ormai non è più procrastinabile un intervento destinato a prevenire, o quanto meno limitare, le conseguenze deleterie che le pratiche di mobbing possono avere sulla vita della vittima, con ricadute negative sulla intera realtà sociale ed economica del Paese. Le conseguenze pregiudizievoli alla integrità psico-fisica della vittima, coinvolta in una spirale negativa dai risvolti sovente drammatici, hanno infatti pesanti ripercussioni nella vita di relazione ed interpersonale, in specie in ambito familiare (cosiddetto doppio-mobbing). Il decadimento dello stato di salute si ripercuote, poi, sulla struttura sanitaria nazionale, in termini di aggravio delle spese per l'assistenza. La stessa azienda risente della diminuzione della produttività e della motivazione al lavoro, spesso non limitata alla vittima, ma anche ai colleghi, e dell'eventuale risarcimento qualora venga avviata un'azione legale; la collettività subisce infine i costi dei trattamenti sanitari e dell'eventuale riduzione, o addirittura della perdita, della capacità lavorativa della vittima.
Un intervento legislativo chiarificatore ed adeguatamente severo può, inoltre, evitare il frequente ricorso alla giurisdizione per reprimere ogni tipo di condotta asseritamente vessatoria, con il conseguente aumento di cause per risarcimento del danno da mobbing.
Come è noto, le regioni non possono legiferare sul mobbing: con la sentenza n. 359 del 10-19 dicembre 2003, su ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della legge regionale del Lazio n. 16 dell'11 luglio 2002, per violazione dell'unicità di legislazione (avendo introdotto una nozione di mobbing prima che vi fosse una definizione del fenomeno da parte del legislatore nazionale) e per aver assegnato compiti precisi al Servizio sanitario nazionale (SSN), sottratto al potere direttivo delle singole regioni.
Dopo questo intervento della Corte costituzionale, alcune regioni si sono dotate di una legislazione latamente anti-mobbing: la regione Umbria, con la legge del 28 febbraio 2005, n. 18; la regione Friuli-Venezia Giulia, con la legge 8 aprile 2005, n.7 (recante interventi regionali per l'informazione, la prevenzione e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dalle molestie morali e psico-fisiche e da fenomeni vessatori e discriminatori nell'ambiente di lavoro), nonché la regione Abruzzo, con la legge 11 agosto 2004, n. 26; questi enti, tenuto conto dell'esperienza negativa toccata alla legge regionale del Lazio, hanno evitato di dare una definizione del fenomeno mobbing e inserito la propria normativa – che pure spesso riecheggia quella della regione Lazio – in un quadro più generale di miglioramento socio-culturale della qualità della vita dei cittadini.
Tutti questi provvedimenti hanno retto al vaglio di costituzionalità, perché non contengono una definizione generale, anticipatoria rispetto all'intervento del legislatore nazionale; in concreto, la tutela anti-mobbing viene collocata nell'ambito della tutela delle condizioni di lavoro e, quindi, in certo modo, ricondotta alla nozione di benessere dei lavoratori.
Anche la recente legge regionale della Campania n. 29 del 9 ottobre 2017, ancorché dichiaratamente volta alla « prevenzione dei fenomeni del mobbing e del disagio lavorativo », non si spinge a fornire una definizione del mobbing e prevede l'utilizzazione dei servizi per la prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPISAL – SPRESAL) già contemplati nel decreto legislativo n. 81 del 2008 e promuove la istituzione di sportelli territoriali di ascolto presso i comuni.
Pertanto, dopo i numerosi progetti di legge presentati in Parlamento nel corso delle precedenti legislature e tutti caducati, l'intervento del legislatore statale si rivela necessario.
Il presente disegno di legge intende approdare ad una definizione normativa che sancisca i princìpi fondamentali di intervento nonché le forme di tutela del lavoratore e le responsabilità di coloro che mettono in atto comportamenti illeciti.
Il disegno di legge si compone di otto articoli.

Articolo 1. (Definizioni e ambito di applicazione)

Il mobbing viene definito come una serie di « atti di molestie, vessazione o persecuzione, che hanno lo scopo di incidere sui diritti o sulla dignità del lavoratore, o alterarne la salute fisica o mentale, o mettere in pericolo il suo futuro professionale ».
Poiché i comportamenti suscettibili di risolversi in forme dì violenza o persecuzione psicologica non sono facilmente definibili a priori ed assumono caratteristiche diverse, anche in dipendenza del contesto lavorativo in cui la vittima è inserita, si è preferito evitare di redigere un elenco che avrebbe necessariamente valore esemplificativo e non decisivo.
Peraltro, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 359 del 2003, ha ribadito che, a norma dell'articolo 117 della Costituzione, è precluso alle regioni di intervenire in ambiti di potestà normativa concorrente, dettando norme che vanno ad incidere sul terreno dei princìpi fondamentali. Pertanto appare preferibile indicare le linee guida fondamentali per la configurazione del mobbing, senza procedere ad una lunga e non risolutiva elencazione.
Quanto all'ambito di applicazione, è espressamente previsto che la legge si applica ai dipendenti pubblici e privati, nonché ai dipendenti dei partiti politici e delle associazioni previste dall'articolo 36 del codice civile.
La norma inoltre intende espressamente tutelare da possibili rappresaglie il lavoratore che non si sia piegato al comportamento mobbizzante o che abbia fornito testimonianza al riguardo o segnalato casi a sua conoscenza, anche ai fini del successivo articolo 6.

Articolo 2. (Tutela giudiziaria)

È stabilita la competenza del giudice del lavoro, mentre per i dipendenti pubblici sottratti alla giurisdizione ordinaria vige la giurisdizione del giudice amministrativo.
La tutela viene completata dalla consueta possibilità di agire ai sensi dell'articolo 700 del codice di procedura civile.
Inoltre, l'interessato che ne ravvisi i presupposti potrà, in alternativa al giudizio ordinario, attivare le procedure di cui all'articolo 44 del decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 216, quelle di cui all'articolo 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67, e quelli di cui all'articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198, secondo la disciplina dettata dall'articolo 28, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150.
La legge non prevede una fattispecie penale, apparendo inopportuno incrementare il sistema di panpenalismo tanto dannoso all'effettivo funzionamento della giustizia, anche perché è evidente che se il comportamento mobbizzante viene posto in essere attraverso atti che già di per sé costituiscono reato (ad esempio, ingiurie) oppure provoca conseguenze rilevanti sul piano penale (ad esempio lesioni personali, volontarie o colpose) tali condotte sono direttamente sanzionate in sede penale.
L'effettività della tutela è dunque assicurata dalla celerità del rito del lavoro, dalla eventuale applicabilità dell'articolo 700 e soprattutto dalle due innovazioni introdotte con gli articoli 3 e 4 della presente legge.

Articolo 3. (Onere della prova)

L'articolo 3 introduce l'inversione dell'onere probatorio. L'operatività del riconoscimento del principio di vicinanza alla prova (in virtù del quale l'onere della prova viene ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione) induce ad affermare che la vittima debba essere esonerata dal fornire la prova della sussistenza dell'intento persecutorio e sia tenuta solo a dimostrare i fatti nella loro materialità. È, invece, a carico del convenuto l'onere di provare la non sussistenza degli atteggiamenti di violenza o persecuzione psicologica. Viene in tal modo introdotta una deroga al principio della presunzione di buona fede, addossando al convenuto l'onere di provare, in presenza di una continuazione di atti oggettivamente dannosi, la carenza dell'intento persecutorio.
Analoga inversione dell'onere probatorio è stata introdotta in Francia con la legge n. 73 del 2002, articolo 169, che ha inserito nel codice del lavoro, all'articolo 122.52, tale meccanismo.

Articolo 4. (Risarcimento del danno e inosservanza dell'ordine del giudice)

L'articolo 4 contiene l'importante innovazione del risarcimento minimo in caso di inadempimento dell'ordine di cessazione della condotta mobbizzante, in aggiunta al risarcimento dell'eventuale ulteriore maggior danno (che però andrebbe dedotto e provato dal lavoratore, mentre in caso di inosservanza dell'ordine del giudice tale prova non è richiesta, essendo il danno insito nella inosservanza).
Il comma 2 prevede poi, espressamente, la pubblicità della decisione di merito. Tale previsione, già presente in molte proposte di legge presentate al Senato (n. 122 del 6 giugno 2001; n. 1280 del 21 marzo 2002; n. 924 del 5 dicembre 2001; n. 986 del 20 dicembre 2001; n. 3255 del 22 dicembre 2004), è volta a restituire al lavoratore la piena onorabilità della propria immagine.

Articolo 5. (Responsabilità disciplinare)

Il comma 1 è destinato a sanzionare in sede disciplinare, e all'occorrenza civile e penale, il comportamento di chiunque – all'insaputa o con il beneplacito del datore di lavoro – compia gli atti riferibili all'articolo 1.
Analogamente è perseguibile in sede disciplinare, e se del caso anche civile e penale, chiunque denunci come posti in essere nei propri o negli altrui confronti i comportamenti dei cui all'articolo 1.

Articolo 6. (Accertamento non giurisdizionale)

L'articolo 6 è volto a sottolineare i doveri di accertamento in capo al datore di lavoro, il quale evidentemente non potrà mai dedurre la propria estraneità ai fatti, qualora ne sia stato informato dalla vittima, dai colleghi o dalle rappresentanze sindacali.

Articolo 7. (Nullità degli atti posti in essere in conseguenza o a fini di mobbing)

L'articolo 7 rappresenta uno sviluppo del principio affermato dall'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, al fine di rendere ben edotto il lavoratore ed il datore di lavoro dei rispettivi diritti ed obblighi.

Articolo 8 (Prevenzione ed informazione)

L'articolo 8 rafforza e ribadisce gli obblighi del datore di lavoro, anche ai fini dell'articolo 2, lettera b), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e dell'articolo 28 del medesimo decreto legislativo.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

(Definizioni e ambito di applicazione)

1. Ai fini della presente legge costituisce mobbing in danno del dipendente la continuazione di atti di molestia, vessazione o persecuzione, che ha lo scopo di incidere sui diritti o sulla dignità del lavoratore, o alterarne la salute fisica o mentale, o mettere in pericolo il suo futuro professionale.

2. Nessun dipendente può essere penalizzato, sanzionato, licenziato o discriminato, direttamente o indirettamente, in particolare per quanto riguarda retribuzione, formazione, riclassificazione, assegnazione, qualifica, classificazione o promozione professionale, trasferimento o rinnovo del contratto per aver subito, o rifiutato di subire, gli atti definiti nel comma 1 o per aver reso testimonianza di tali azioni o averle segnalate al datore di lavoro.

3. La presente legge si applica a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, a tempo indeterminato o a termine, inclusi i rapporti di lavoro previsti all'articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

4. La presente legge si applica anche ai dipendenti dei partiti politici, nonché delle associazioni regolate dall'articolo 36 del codice civile.

Art. 2.

(Tutela giudiziaria)

1. Le controversie aventi ad oggetto le ipotesi di cui all'articolo 1 della presente legge sono disciplinate a norma del libro II, titolo IV, del codice di procedura civile.

2. Nel caso di rapporti di lavoro previsti all'articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il giudizio deve essere introdotto dinanzi al tribunale amministrativo regionale competente per territorio.

Art. 3.

(Onere della prova)

1. Il dipendente interessato espone i fatti che suggeriscono l'esistenza di vessazione o persecuzione ai fini dell'articolo 1 e ne fornisce la prova.

2. In presenza di tali elementi, spetta al convenuto provare che le sue azioni non costituiscono vessazione o persecuzione e sono giustificate da fattori oggettivi, non riconducibili ad un disegno persecutorio.

Art. 4.

(Risarcimento del danno e inosservanza
dell'ordine del giudice)

1. Il datore di lavoro che non dia immediata esecuzione all'ordine di far cessare la condotta vessatoria emesso dal giudice con sentenza o in sede di procedimento d'urgenza è condannato al pagamento, in favore del ricorrente, dell'importo di euro 100 per ogni giornata dell'inadempimento, in aggiunta al risarcimento dell'eventuale maggior danno, patrimoniale e non patrimoniale, subito dal lavoratore.

2. Nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito possa contribuire a riparare il danno, il giudice con la sentenza può, su istanza di parte, ordinare che il provvedimento sia pubblicato a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estratto in uno o più organi di stampa di cui almeno uno a diffusione nazionale.

Art. 5.

(Responsabilità disciplinare)

1. A coloro che pongono in essere gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 1 si applicano le sanzioni disciplinari previste dal contratto collettivo applicabile, salva eventuale ulteriore responsabilità civile o penale.

2. Responsabilità analoga a quella di cui al comma 1 grava su chi consapevolmente denuncia inesistenti atti o comportamenti riconducibili all'articolo 1, al solo fine di trarne un vantaggio.

Art. 6.

(Accertamento non giurisdizionale)

1. Qualora gli atti e i comportamenti di cui all'articolo l siano portati a conoscenza del datore di lavoro, anche tramite rappresentanze sindacali, il datore di lavoro ha l'obbligo di verificare la fondatezza dei fatti e di prendere i provvedimenti necessari per il loro superamento, ai sensi dell'articolo 28 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

Art. 7.

(Nullità degli atti posti in essere
in conseguenza o a fini di
mobbing)

1. Sono nulli gli atti e le decisioni del lavoratore o del datore di lavoro riconducibili a violenza o persecuzione psicologica come definiti nell'articolo 1 che si riferiscano, rispettivamente, alle dimissioni o al licenziamento, nonché alle variazioni delle qualifiche, o delle funzioni o delle attribuzioni, o delle mansioni, o degli incarichi.

2. Sono altresì nulli i trasferimenti in altre sedi o in differenti aree del medesimo sistema lavorativo posti in essere in relazione o nell'ambito di violenza o persecuzione psicologica.

Art. 8.

(Prevenzione ed informazione)

1. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i datori di lavoro pubblici e privati:

a) adottano, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente, previa consultazione del rappresentante per la sicurezza, le misure organizzative e gestionali necessarie ai fini della prevenzione delle situazioni di violenza o persecuzione psicologica in occasione di lavoro, ivi comprese apposite regole di comportamento; ne richiedono l'osservanza da parte dei singoli lavoratori e permettono ai lavoratori di verificarne l'applicazione mediante il rappresentante per la sicurezza;

b) prendono, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente, previa consultazione del rappresentante per la sicurezza, per il caso di individuata situazione di violenza o persecuzione psicologica in occasione di lavoro, appropriati provvedimenti al fine di garantirne la pronta cessazione;

c) assicurano che ciascun lavoratore e rappresentante per la sicurezza riceva una formazione specifica e adeguata in ordine ai rischi relativi alle situazioni di violenza o persecuzione psicologica in occasione di lavoro e alle misure adottate per la prevenzione di tali situazioni.

2. I lavoratori osservano le misure organizzative e gestionali adottate dal datore di lavoro ai fini della prevenzione delle situazioni di violenza o persecuzione psicologica in occasione di lavoro.