Senato della RepubblicaXVIII LEGISLATURA
N. 972
DISEGNO DI LEGGE
d'iniziativa dei senatori MAIORINO, FLORIDIA e PERILLI

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 15 NOVEMBRE 2018

Disposizioni in materia di professionismo sportivo e di parità di genere nello sport

Onorevoli Senatori. – A seguito dell'approvazione della legge 23 marzo 1981, n. 91, recante norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, le federazioni sportive hanno riconosciuto come « professionistiche » solo sei discipline sportive, il cui esiguo elenco si è di recente ulteriormente ridotto a quattro. Ad oggi le discipline sportive che possono essere definite come professionistiche sono il calcio, il golf, il basket – solo nella categoria A1 – e il ciclismo, con un dettaglio che peraltro non deve sfuggire all'attenzione, ossia che sono tutte discipline prevalentemente maschili.
Com'è noto il dilettantismo sportivo ricomprende quel vastissimo settore di discipline sportive che non si possono qualificare quali professionistiche, in mancanza un riconoscimento in tal senso della federazione di appartenenza, e che tuttavia fanno parte del sistema CONI. In tal senso, l'abrogato decreto del Ministro della salute 17 dicembre 2004, in materia di obblighi assicurativi, definiva gli atleti dilettanti come « tutti i tesserati che svolgono attività sportiva a titolo agonistico, non agonistico, amatoriale, ludico motorio o quale impiego del tempo libero, con esclusione di coloro che vengono definiti professionisti ».
La legge n. 91 del 1981 stabilisce che sono professionisti gli atleti, gli allenatori e i dirigenti che svolgono l'attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità e attribuisce la qualificazione dell'attività sportiva, quale professionistica o dilettantistica, ad una scelta discrezionale delle federazioni che, di fatto, sfocia nell'arbitrio. Una tale disciplina, che consegna al gradimento delle singole federazioni – persone giuridiche private – la scelta se dotarsi o meno di un settore professionistico, non sembra affatto in linea con l'imperativo di tutela offerta dalla Costituzione ai rapporti di lavoro.
In ambito europeo lo sport è definitivamente ricompreso tra le materie di competenza dell'Unione europea, in virtù del fatto che l'articolo 165 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea ha conferito a quest'ultima il mandato di incentivare, sostenere ed integrare le iniziative degli Stati membri in ambito di politica dello sport. Tuttavia, già in precedenza l'Unione si era occupata della materia sportiva e degli enti sportivi. Per la Corte di giustizia dell'Unione Europea, infatti, ai fini dell'applicazione del diritto comunitario non rileva la distinzione tra attività sportive professionistiche e dilettantistiche, quanto piuttosto la natura economica o meno dell'attività svolta. Inoltre, la giurisprudenza europea chiarisce che, ai fini della qualificazione di un atleta quale professionista, è sufficiente che questi percepisca una retribuzione periodica a fronte di un obbligo di effettuare una prestazione sportiva in forma subordinata costituente la sua attività principale. Dunque, per l'ordinamento europeo valgono criteri obiettivi e non mere enunciazioni formali.
Anche l'ente dilettantistico di cui l'atleta fa parte, pertanto, verrà considerato in ambito europeo quale impresa – e non come ente no profit – con conseguente applicazione della normativa in materia. Di conseguenza non dovrebbe essere ammissibile una differenziazione di trattamento tra gli enti professionistici e quelli dilettantistici, laddove questi ultimi svolgano sostanzialmente un'attività economica.
La giurisprudenza nazionale (tribunale di Pescara, 18 ottobre 2001, in Il Foro italiano, 2002, I, 897) espressamente statuisce che « la distinzione (peraltro assai sfuggente nell'agonismo del nostro tempo) tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva, si mostra, pertanto, priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione » e afferma che l'articolo 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, obbliga le federazioni a garantire « la partecipazione all'attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità ». Inoltre, la stessa giurisprudenza nega che la natura privatistica delle federazioni possa giustificare l'applicazione di princìpi contrari all'ordine pubblico, che comportino una discriminazione, e che costituiscono il limite dell'attività negoziale.
Un'altra grave criticità sulla quale è necessario un intervento riguarda il mancato riconoscimento della giusta dignità alle donne nello sport.
Le atlete, qualsiasi sport pratichino e indipendentemente dal numero di vittorie, sono considerate dilettanti, con i limiti che questa dimensione reca con sé: disparità di trattamento economico, mediamente inferiore a quello dei colleghi del 30 per cento, assenza di tutela in caso di maternità e, in alcuni e non rari casi, nessuna posizione previdenziale e infortunistica. L'attuale quadro legislativo, nel quale le sportive donne sono forzatamente dilettanti, espone queste ultime al rischio, in caso di infortunio, di non accedere ad alcuna forma risarcitoria o di non percepire alcuna indennità prevista per i casi di invalidità temporanea o malattia, a meno che esse non abbiano stipulato, direttamente e a proprie spese, una polizza ad hoc.
Secondo quando riportato dal CONI, nel 2016 si sono registrati 4,5 milioni di tesserati fra dirigenti, tecnici, atleti, di cui solo il 27,2 per cento sono donne. In occasione della XXXI Olimpiade, l'ultima disputata, svoltasi a Rio de Janeiro nel 2016, la squadra italiana era composta di 297 atleti, 155 uomini e 142 donne, ossia la più numerosa rappresentanza femminile di sempre.
Le atlete più conosciute possono guadagnarsi da vivere con le sponsorizzazioni o diventare testimonial nelle pubblicità, ma la sola alternativa concreta per le più vincenti è quella di entrare a far parte delle squadre dei Corpi sportivi militari così da guadagnare lo status di dipendente pubblico e con esso la possibilità di mantenere lo stipendio anche oltre gli anni dell'agonismo. I Corpi militari, assumendo queste atlete, hanno ritorni in termini di prestigio e visibilità. Oggi le atlete sono ritenute « professioniste di fatto » che non possono essere considerate, quindi, né lavoratrici autonome né subordinate e non percepiscono il trattamento di fine rapporto.
Ai livelli dirigenziali la questione della rappresentanza di genere è forse ancora più grave, mentre, ad esempio, in Francia la dirigenza femminile nello sport è una prassi consolidata. Luisa Rizzitelli, ex pallavolista e presidente dell'Associazione nazionale atlete (Assist), che da anni porta avanti la battaglia per l'inclusione delle donne nello sport professionistico, ha fatto notare a mezzo stampa che non vi è mai stato un presidente del CONI donna e neppure una presidente di federazione (salvo una parentesi di due mesi negli sport equestri), sottolineando anche che il numero di dirigenti di sesso femminile che ricoprono ruoli apicali nel CONI e nelle federazioni è ancora bassissimo.
Questa situazione permane in Italia nonostante il dettato dell'articolo 37 della Costituzione, secondo il quale « la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni del lavoratore ».
Appare utile ricordare la risoluzione 32/130 del 1977 con la quale le Nazioni Unite riconoscevano il diritto allo sport come diritto dell'uomo perché legato alla funzione educativa, culturale e sociale; la Carta internazionale per l'educazione fisica, l'attività fisica e lo sport adottata dall'UNESCO nel 1978; la Convenzione di New York sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna; la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma di azione adottate dalla Conferenza mondiale sulle donne nel 1995 che, oltre ad affrontare l'argomento della discriminazione di genere nello sport, sottolineano la necessità di incrementare la partecipazione delle donne nei processi decisionali del mondo sportivo.

Anche l'Unione europea è intervenuta più volte per denunciare la disparità di genere nell'accesso e nello svolgimento dell'attività sportiva e, nel 2003, ha adottato la risoluzione donne e sport (2002/2280 (INI)) nella quale lo sport femminile è definito come espressione del diritto alla parità e alla libertà di tutte le donne. La Commissione europea, inoltre, ha presentato un Libro bianco sullo sport nel quale si legge che l'attività sportiva è soggetta all'applicazione del diritto comunitario, come il divieto di discriminazione in base alla nazionalità, le norme relative alla cittadinanza dell'Unione e la parità uomo donna per quanto riguarda il lavoro.
Nonostante l'Europa fornisca modelli virtuosi, la parità nello sport è ancora molto lontana in Italia. La Carta europea dei diritti delle donne nello sport è stata proposta per la prima volta dall'Unione italiana sport per tutti (Uisp) nel 1985 e trasformata nella risoluzione del Parlamento europeo sulle donne nello sport nel 1987. La Carta europea dei diritti delle donne nello sport rappresenta dunque il primo tentativo per il riconoscimento e la rivendicazione delle pari opportunità di uomini e donne nello sport in ambito europeo. La Carta ricorda alle società sportive e alle federazioni delle diverse discipline alcuni diritti come la promozione delle pari opportunità nella pratica sportiva, la ricerca di strumenti utili a promuovere la partecipazione femminile a qualsiasi pratica sportiva e ai processi decisionali, l'inclusione delle donne nei posti dirigenziali, il diritto a praticare lo sport in un ambiente sano e nel rispetto della dignità umana.
In materia di parità di genere, lo scopo del presente disegno di legge è, quindi, quello di qualificare come professionistico l'impegno costante di una molteplicità di donne che praticano sport a livello agonistico al pari degli uomini e in tutte le discipline regolamentate dal CONI, ma che oggi gareggiano con la qualifica di « dilettanti », con i limiti che ciò comporta, nonché quello di equiparare a livello contrattuale le prestazioni di donne e uomini che praticano l'agonismo.
Il presente disegno di legge propone dunque una serie di modifiche alla legge 23 marzo 1981, n. 91, recante norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, al fine di introdurre un limite temporale entro il quale il CONI prima, e le federazioni poi, debbano provvedere a definire criteri e norme volte alla regolamentazione della distinzione tra attività dilettantistica e professionistica. Si prescrive inoltre che tale attività debba essere svolta nel pieno rispetto dei princìpi di parità di genere, ponendo dunque il divieto di qualsiasi forma di discriminazione in materia di professionismo sportivo e della relativa disciplina del lavoro e in materia di affiliazione alle federazioni.
Si prevede infine una specifica modifica al decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, recante riordino del Comitato olimpico nazionale italiano, volta a promuovere il rispetto del principio di parità di genere nello svolgimento dei compiti di regolamentazione dell'attività sportiva dilettantistica e professionistica di competenza del Consiglio nazionale del CONI.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

(Modifiche alla legge 23 marzo 1981, n. 91)

1. Alla legge 23 marzo 1981, n. 91, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) l'articolo 2 è sostituito dal seguente:

« Art. 2. – (Professionismo sportivo) – 1. Ai fini dell'applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, senza discriminazione di genere, che esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica. Per ogni disciplina regolamentata dal CONI è vietata qualsiasi forma di discriminazione di genere da parte delle federazioni sportive nazionali per quanto attiene la qualifica di atleta professionista »;

b) all'articolo 4, primo comma, dopo le parole: « conformemente all'accordo stipulato, » sono inserite le seguenti: « in attuazione del principio della parità di genere, »;

c) all'articolo 10:

1) al primo comma, le parole: « con atleti professionisti » sono sostituite dalle seguenti: « con atleti e atlete professionisti »;

2) è aggiunto, in fine, il seguente comma:

« Qualora elementi di fatto, relativi alle qualificazioni degli sportivi professionisti o alla costituzione e all'affiliazione delle società sportive, siano idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del genere, spetta alle federazioni sportive nazionali riconosciute dal CONI l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione ».

Art. 2.

(Norma transitoria)

1. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il CONI stabilisce le direttive per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica ai sensi dell'articolo 2 della legge 23 marzo 1981, n. 91, come sostituito dall'articolo 1, comma 1, lettera a), della presente legge. Le federazioni sportive nazionali, sulla base delle direttive di cui al periodo precedente, provvedono, entro i successivi sei mesi, ad emanare le disposizioni per l'applicazione dei princìpi di cui al medesimo articolo 2 della legge n. 91 del 1981.

Art. 3.

(Modifica al decreto legislativo
23 luglio 1999, n. 242)

1. All'articolo 5, comma 2, lettera d), del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: « , assicurando l'attuazione del principio della parità di genere ».

Art. 4.

(Clausola di invarianza finanziaria)

1. Dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.