Senato della RepubblicaXVIII LEGISLATURA
N. 60
DISEGNO DI LEGGE
d'iniziativa della sanatrice CIRINNÀ

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 23 MARZO 2018

Disposizioni per il contrasto alla discriminazione matrimoniale

Onorevoli Senatori. – Il diritto al matrimonio è uno dei diritti fondamentali di ogni persona. Tale è riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, che all'articolo 16 recita: «Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione (....)».
Una tale previsione non era per nulla scontata se pensiamo che limitazioni al diritto di matrimonio fondate sulla razza, la cittadinanza o la religione erano ben presenti in diversi paesi. Anche in Italia, il regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, convertito dalla legge 5 gennaio 1939, n. 274, recante provvedimenti per la difesa della razza italiana, voluto dal governo fascista, aveva proibito il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza e subordinato il matrimonio del cittadino italiano con persona di nazionalità straniera al preventivo consenso del Ministero per l'interno.
Anche successivamente alla Dichiarazione del 1948, d'altronde, forti limitazioni all'esercizio del diritto previsto dal citato articolo 16 rimasero in vigore in diverse parti del mondo.
Valga per tutti l'esempio degli Stati Uniti d'America, dove l'ultimo divieto ai matrimoni interrazziali venne abrogato solo il 12 giugno 1967.
Fu grazie alla lotta di una coraggiosa donna di colore come Mildred Jeter e del suo sposo Richard Loving che la Corte Suprema degli Stati Uniti d'America dichiarò contrarie alla Costituzione le leggi che in Virginia e in altri Stati americani vietavano i matrimoni misti, riconoscendo la legittimità del matrimonio contratto dai due giovani a Washington.
Poco dopo la promulgazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, l'articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, approvata a Roma il 4 novembre 1950, ha disposto che uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia.
La Corte europea dei diritti umani ha stabilito, con la storica sentenza Schalk e Kopf c Austria del 24 giugno 2010, che tale diritto non debba essere limitato al matrimonio tra persone di sesso opposto.
Il Parlamento europeo ha chiesto più volte agli Stati dell'Unione, a partire dalla risoluzione dell'8 febbraio 1994, di rimuovere «gli ostacoli frapposti al matrimonio di coppie omosessuali ovvero a un istituto giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e consentendo la registrazione delle unioni».
L'articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea approvata a Nizza il 7 dicembre del 2000 afferma che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio». La stessa Carta di Nizza, recepita all'interno del Trattato costituzionale europeo già approvato dal Parlamento italiano, afferma all'articolo 21 il contrasto ad ogni forma di discriminazione diretta o indiretta motivata da orientamento sessuale («tendenze sessuali» secondo l'impropria traduzione dell'inglese «sexual orientation» da parte dell'ufficio traduzioni dell'Unione europea).
L'estensione del matrimonio civile alle coppie dello stesso sesso è stata introdotta da allora in sedici Paesi europei (Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia, Portogallo, Islanda, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Finlandia, Malta, Irlanda, Germania, Austria).
La stessa misura è stata adottata in altre aree del mondo: Canada, Repubblica Sudafricana, Argentina, Uruguay, Nuova Zelanda, il distretto di Città del Messico, Stati Uniti d'America, Colombia, Australia.
Altri Paesi estendono alle coppie omosessuali alcuni o tutti i diritti del matrimonio attraverso nuovi istituti giuridici analoghi al matrimonio: così in Svizzera, Repubblica Ceca, Andorra, Ungheria, Slovenia, Ecuador, Liechtenstein, Cipro, Croazia, Estonia, Grecia, Italia. In Europa sono pochissimi gli Stati (Repubblica di San Marino, Principato di Monaco, Città del Vaticano, più alcuni Stati ex sovietici) che non prevedono alcun riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso.
Con la sentenza n. 138 del 2010 la Corte costituzionale ha dichiarato che all'unione omosessuale spetta il diritto fondamentale di vivere una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri, e che spetta al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette. La Consulta ha anche affermato che spetta al Parlamento stabilire se tale diritto vada riconosciuto come necessaria conseguenza dell'articolo 2 della Costituzione, laddove si afferma la promozione delle formazioni sociali ove si svolge la personalità del cittadino, o anche sulla base dell'articolo 29, come estensione del matrimonio civile anche alle coppie dello stesso sesso.
La Corte costituzionale, infatti, ammette che il modello di famiglia cui la Costituzione fa riferimento non possa essere cristallizzato alla situazione del 1948 o essere riferito a un immobile diritto naturale. È fuor di dubbio, infatti, che i costituenti non avessero pensato all'ipotesi del matrimonio fra due persone dello stesso sesso, ma è altrettanto certo che la dottrina riconosce l'evoluzione della nozione sociale di famiglia e che la nostra Carta fondativa vada interpretata, soprattutto in relazione ai costumi sociali, secondo una lettura evolutiva.
Di fatto la nostra Costituzione non definisce mai il genere dei coniugi ma si limita a riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Sulla base di questi presupposti la Corte suprema di cassazione, con la sentenza n. 4184 del 2012, ha stabilito che anche le coppie dello stesso sesso sono «titolari del diritto alla vita familiare» con riferimento alla precedente sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 e recependo così quanto già sancito dalla Corte europea dei diritti umani. La Corte suprema di cassazione ha confermato che, secondo la sentenza della Corte costituzionale, il riconoscimento del diritto al matrimonio tra due persone dello stesso sesso e la sua garanzia «sono rimessi alla libera scelta del Parlamento».
Negli ultimi anni anche la giurisprudenza delle più importanti Corti costituzionali straniere si è mossa rapidamente verso il riconoscimento della legittimità dell'apertura del matrimonio alle coppie dello stesso sesso, confermando le scelte compiute dai legislatori nazionali (Corte costituzionale belga, sentenza del 20 ottobre 2004, n 159; Corte suprema del Canada, sentenza del 19 dicembre 2004; Corte costituzionale portoghese, sentenza n. 359 del 2009; Corte costituzionale spagnola, sentenza n. 198/2012; Consiglio costituzionale francese, decisione del 18 ottobre 2013).
Altre autorevoli Corti si sono spinte sino ad assumere che la restrizione del matrimonio alle sole coppie composte da uomo e donna sia del tutto illegittima, in quanto in violazione del principio di uguaglianza. In questo senso si sono espresse la Corte suprema degli Stati Uniti d'America (Obergefell v. Hodges), con sentenza del 26 giugno 2015, che ha aperto il matrimonio in tutti gli Stati Uniti e, più di recente, la Corte costituzionale austriaca con sentenza 4 dicembre 2017, di particolare rilevanza per l'affinità e la vicinanza con l'ordinamento giuridico e le tradizioni culturali del nostro Paese.
Il Parlamento italiano è oggi chiamato ad assumersi la responsabilità storica di porre fine alla discriminazione nell'accesso al matrimonio di due persone dello stesso sesso attraverso una legge ordinaria che non richiederebbe, a differenza di quanto affermato da alcune parti, una modifica costituzionale, secondo quanto confermato anche dalla Cassazione nella giurisprudenza citata. Non si tratta qui di modificare la nozione di matrimonio ma di rimuovere un ostacolo discriminatorio all'accesso ad un diritto fondamentale.
Nel 1948 l'ipotesi del matrimonio fra due donne o fra due uomini non fu tenuta in nessuna considerazione dai padri costituenti anche a fronte della totale assenza di un dibattito pubblico sul tema e di una richiesta da parte dei soggetti interessati, troppo impegnati a sottrarsi al lacerante stigma sociale per reclamare l'uguaglianza dei diritti. Oggi, al contrario, è comprovato che esista nella società italiana una realtà assai diffusa di convivenze omosessuali stabili e alla luce del sole che reclamano l'uguaglianza dei diritti.
Dal 5 giugno 2016, infatti, è in vigore in Italia la legge n. 76, «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Dall'agosto 2016, data di entrata in vigore del primo decreto attuativo, sono state diverse migliaia (erano quasi 3.000 nei primi otto mesi secondo dati diffusi allora dal Ministero dell'interno) le coppie dello stesso sesso ad unirsi in unione civile. Un dato che mostra come l'unica cifra disponibile fino ad allora sul numero delle coppie dello stesso sesso in Italia, le 7.513 coppie dichiaratesi tali nel censimento ISTAT del 2011, fosse, com'era facilmente prevedibile, del tutto sottostimata data la difficoltà a dichiararsi omosessuali in Italia a fronte di un persistente stigma sociale e in assenza di un riconoscimento di legge.
La legge sulle unioni civili ha sanato diverse situazioni di disparità, sul piano economico e sociale, per l'accesso ad opportunità fino ad allora negate, producendo così una rivoluzione culturale e sociale nel modo di concepire le persone gay e lesbiche e le loro famiglie. Non ha sanato però, anzi ha ulteriormente evidenziato, la questione di un accesso differenziato e perciò stesso discriminatorio alle stesse opportunità in ragione del proprio orientamento sessuale. Un trattamento che, se sul piano concreto ha prodotto la fine di ingiustizie secolari e un riconoscimento sociale fino ad allora negato, sul piano politico richiama alle politiche segregazioniste attuate negli anni ’50 dagli Stati Uniti nei confronti degli afroamericani.
Anche allora, a fronte della necessità costituzionale di fornire le stesse condizioni a bianchi e neri ma, al contempo, davanti alla richiesta di alcune parti sociali di non eliminare la differenza fra le razze di fronte alla legge, si elaborò quella dottrina del «separate but equal» che determinava la segregazione razziale pur nell'uguaglianza formale delle opportunità.
Per questo, com'è accaduto negli ultimi quindici anni in quasi tutta Europa, la fase dell'istituto separato delle unioni civili non può che essere considerata un passaggio transitorio, di certo utile ad abbattere pregiudizi e a creare un clima maggiormente positivo verso le nuove famiglie, ma che dovrà lasciare presto il campo all'accesso egualitario al matrimonio civile senza discriminazioni legate all'orientamento sessuale dei coniugi.
L'impossibilità di potere accedere in condizione di parità rispetto alle coppie di sesso diverso al riconoscimento pubblico della propria condizione sociale di coppia, d'altro canto, non rappresenta solo una violazione del principio di uguaglianza ma anche una lesione della propria dignità individuale e di coppia. Questo rappresenta un ostacolo al benessere individuale e una fonte di stress sociale a cui viene ingiustamente sottoposta una parte della popolazione a causa di una condizione personale, in violazione di quel principio di non discriminazione per orientamento sessuale che, come si è sopra ricordato, è sancito dal Trattato di Lisbona.
Il presente disegno di legge, pertanto, modifica in quanto discriminatorie le disposizioni in materia di matrimonio che indicano espressamente le parole «marito e moglie» e che quindi, pur in mancanza di un espresso divieto o di una definizione legislativa, sono indice del fatto che il matrimonio non è aperto dalla legge ordinaria italiana anche alle coppie dello stesso sesso.
In materia di cognome, si dispone che i coniugi dello stesso sesso debbano indicare il cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi, dando comunque facoltà di continuare ad usare anche il proprio cognome originario che non sia stato scelto come cognome della famiglia. Tale previsione non incide in alcun modo sul cognome nel matrimonio tra persone di sesso diverso. Si correggono inoltre le disposizioni sul cognome in materia di divorzio.
L'articolo 3 introduce una norma di chiusura che, senza incidere sui testi normativi, impone di interpretare in senso non discriminatorio ogni altra norma dell'ordinamento giuridico.
Il presente disegno di legge, redatto con il contributo dei giuristi di Articolo29.it, era già stato depositato nella XVII legislatura (atto Senato n. 15) a prima firma del senatore Sergio Lo Giudice.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

(Modifiche al codice civile in materia di matrimonio)

1. Al codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 107, primo comma, le parole: «rispettivamente in marito e in moglie» sono sostituite dalle seguenti: «reciprocamente come coniugi»;

b) all'articolo 108, primo comma, le parole: «rispettivamente in marito e in moglie» sono sostituite dalle seguenti: «reciprocamente come coniugi»;

c) all'articolo 143, primo comma, le parole: «il marito e la moglie» sono sostituite dalle seguenti: «i coniugi».

Art. 2.

(Cognome tra persone dello stesso sesso)

1. Dopo l'articolo 143-bis del codice civile è inserito il seguente:

«Art. 143-bis1. – (Cognome tra persone dello stesso sesso). – I coniugi dello stesso sesso possono stabilire un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. Lo stesso cognome è conservato durante lo stato vedovile, fino a nuove nozze. Il coniuge aggiunge al proprio cognome quello comune, se diverso».

2. L'articolo 156-bis del codice civile è sostituito dal seguente:

«Art. 156-bis. – (Cognome dei coniugi). – Il giudice può vietare a un coniuge l'uso del cognome dell'altro, quando tale uso sia gravemente pregiudizievole e può parimenti autorizzare un coniuge a non usare il cognome dell'altro, qualora dall'uso possa derivargli grave pregiudizio».

3. All'articolo 5 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) ) al secondo comma, le parole: «La donna» sono sostituite dalle seguenti: «Il coniuge»;

b) ) al terzo comma, le parole: «la donna» sono sostituite dalle seguenti: «il coniuge» e le parole: «del marito» sono soppresse.

Art. 3.

(Disposizioni finali)

1. L'espressione «marito e moglie», ovunque ricorra nelle disposizioni legislative vigenti, si intende sostituita dalla parola: «coniugi».

2. La parola: «marito» e la parola: «moglie», ovunque ricorrano nelle disposizioni legislative vigenti, si intendono sostituite dalla seguente: «coniuge».