Legislatura 18ª - Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza - Resoconto sommario n. 54 del 22/06/2022
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DOCUMENTO CONCLUSIVO, APPROVATO DALLA COMMISSIONE, SULL'INDAGINE CONOSCITIVA SULLA NATURA, CAUSE E SVILUPPI RECENTI DEL FENOMENO DEI DISCORSI D'ODIO, CON PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA EUROPEA IN MATERIA
(Doc. XVII, n. 6)
I N D I C E
1. I discorsi d'odio, la loro definizione, il contrasto attraverso il diritto .. ....Pag. 2
1.1 Il problema della definizione.......................................................................... " 3
1.2 Il contrasto attraverso il diritto nell'ordinamento italiano.............................. "...... 4
1.3 La richiesta di intervento normativo............................................................... "...... 6
2. Politiche e norme europee ed internazionali nel contrasto ai fenomeni
dei discorsi d'odio........................................................................................... "...... 6
2.1 Il diritto internazionale................................................................................... "...... 6
2.2 La giurisprudenza della Corte EDU............................................................... "...... 9
2.3 Il diritto europeo............................................................................................. "...... 9
3. Libertà di espressione e tutela della dignità della persona............................. "...... 12
4. I discorsi d'odio come limitazione della libertà d'espressione delle
categorie target............................................................................................... "...... 15
5. I discorsi d'odio e alcune categorie target...................................................... "...... 16
5.1 Antisemitismo........................................................................................... "...... 16
5.2 Islamofobia............................................................................................... "...... 17
5.3 L'odio di genere........................................................................................ "...... 18
5.4 LGBTQI+................................................................................................. "...... 19
6. Diffusione e innovazione dei media............................................................... " 20
6.1 Discorsi d'odioe media tradizionali......................................................... "...... 24
7. Forme di (auto)regolazione atte a prevenire e sanzionare i fenomeni dei
discorsi d'odio................................................................................................. "...... 25
8. Raccolta dei dati e conoscenza dei fenomeni................................................. "...... 31
9. Cause sociali, politiche e culturali della generazione e diffusione dei
discorsi d'odio e dei fenomeni di intolleranza e discriminazione................... "...... 34
9.1 Esclusione sociale e discorsi d'odio.......................................................... "...... 34
9.2 L'avvento della società multietnica e i discorsi d'odio............................. "...... 35
9.3 La crisi d'identità...................................................................................... "...... 35
9.4 La crisi valoriale....................................................................................... "...... 36
9.5 La viralità della condivisione.................................................................... "...... 37
10. Istruzione, formazione e contrasto dei fenomeni legati ai discorsi
d'odio............................................................................................................... "...... 37
Conclusioni..................................................................................................... "...... 42
1. I discorsi d'odio, la loro definizione, il contrasto attraverso il diritto
La letteratura giuridica contemporanea definisce i discorsi d'odio come una forma di incitamento all'odio e alla discriminazione diretta contro le persone in ragione della loro identità: etnica, nazionale, religiosa, sessuale e di genere.
Nel corso dei lavori della Commissione ci si è interrogati su cosa sia l’odio[1], su come si possa misurare e sulla natura dei discorsi violenti e/o aggressivi qualificabili come discorsi d’odio. Dalle audizioni è emerso che si è certamente sempre liberi di odiare[2] e che il sentimento d’odio va distinto dai discorsi d’odio. La libertà di odiare non equivale, infatti, alla libertà di manifestare espressioni d’odio, a condizione però d’intendere queste ultime in un senso molto preciso e delimitato. Viene utilizzata la locuzione discorsi d’odio mutuandola dalla cultura anglosassone – dove gli hate speech sono così definiti in rapporto al free speech[3]– maè stato sottolineato che i discorsi d’odio non sono discorsi sull’odio; il concetto stesso di odio non è detto che faccia parte del discorso, essendo piuttosto uno degli effetti prodotti da esso[4].
L'odio è stato definito come un sentimento di persistente avversione per cui si desidera il male o la rovina altrui, ma quando dal desiderio si passa all'azione per favorire o realizzare il male, subentrano delle responsabilità. L'odio è un fenomeno umano che si alimenta nel senso di vuoto, quando si banalizzano questioni complesse e difficili da affrontare. Tuttavia «Ciò che interessa ai nostri fini non è il sentimento in sé, ma i limiti necessari in un ordinamento per non venirne consumato interamente»[5].
Altro aspetto segnalato dalla maggioranza degli auditi è che, per aversi discorso d’odio, è necessario che esso abbia come destinatario un soggetto o gruppo appartenente a una categoria target: rientrano dunque in questa categoria i messaggi che stimolano, incoraggiano e incitano all’ostilità, alla discriminazione, all’odio e alla violenza contro membri di particolari gruppi minoritari. «Il discorso d’odio prende di mira determinate categorie percepite come "altre", "diverse", "deboli", "minoritarie"[6]».
Al di là del suo contenuto intrinseco, quindi, il discorso d'odio veicola altri due messaggi. Il primo è indirizzato al gruppo attaccato: ha l’effetto di compromettere il sentimento di sicurezza e di libertà delle persone o dei gruppi presi di mira, inducendoli a pensare che non vi sia spazio per loro (ossia che non possano essere accettati, integrati, inclusi) in una determinata società. L’altro messaggio è indirizzato ai membri della comunità che non appartengono al gruppo o alla categoria sociale attaccati, veicolando l’idea che le opinioni alla base del discorso d’odio siano largamente condivise, anche se non sempre espresse pubblicamente.
In termini generali, l’odio – quale movente e non come crimine in sé – è il pregiudizio, il condizionamento mentale che ispira l’azione, ovvero l’abuso verbale e/o fisico ai danni di un individuo o di un gruppo di individui a causa dell’appartenenza percepita di costui o di costoro ad un determinato insieme solitamente definito da ‘‘razza’’[7], genere, religione, orientamento sessuale, disabilità, classe, etnia, nazionalità, età, identità di genere, affiliazione politica, o qualsiasi altro tratto distintivo. In questi termini l’odio (o l’intolleranza), quale possibile valido movente, non è un fenomeno episodico, ma rappresentativo di una comunità, che si riconosce in specifici simboli e/o comportamenti attraverso i quali i suoi appartenenti si ritengono superiori agli individui appartenenti a un’altra comunità[8].
Perché ci sia un discorso d'odio, che ha natura performativa e non meramente constatativa e si caratterizza per la possibilità di determinare un'azione da parte di chi ascolta, è necessario che concorrano tre elementi: (i) la manifesta volontà di incitare all'odio, (ii) un incitamento che sia idoneo a causare atti di odio e violenza e (iii) il rischio che tali atti si verifichino[9]. Per rientrare nella tipologia del discorso d'odio non è sufficiente che il suo contenuto sia offensivo, ma occorre che sia pubblico e risulti finalizzato a suscitare verso l’interlocutore un’azione ostile, discriminatoria o denigratoria, finalità che non è sempre facilmente "misurabile".
1.1. Il problema della definizione
Nonostante un tendenziale consenso raggiunto dalla dottrina e dalla giurisprudenza sui contenuti essenziali del discorso d'odio, la difficoltà di "misurarne" le finalità e fissarne i limiti comporta, come tutti gli auditi hanno riportato, l’assenza di una definizione di discorsi d'odio univoca e giuridicamente rilevante. La condanna dei discorsi d’odio si incontra (e talvolta scontra) con la tutela della libertà d’espressione rendendo complicato – soprattutto a livello sovranazionale ma non solo – una definizione con portata vincolante.
La categoria dei discorsi d'odio non conosce una definizione univoca che ne delimiti chiaramente il perimetro. Questa mancanza risente anche della diversa sensibilità che gli ordinamenti giuridici possono esprimere, anche a seconda della maggiore o minore inclinazione a bilanciare, favorevolmente o sfavorevolmente, il diritto di parola con il diritto alla tutela della dignità umana[10].
Nella prefazione della Strategia e del Piano d'azione ONU del 2019 (la "Strategia ONU") sul fenomeno dell'odio si afferma che la stessa definizione di cosa sia odioso è controversa. La Strategia ONU, infatti, contiene una definizione indicativa e non vincolante, che qualifica il discorso d'odio come «qualsiasi tipo di comunicazione in forma di un discorso, di uno scritto o di un comportamento, che attacca o utilizza un linguaggio peggiorativo o discriminatorio in riferimento a una persona o a un gruppo di persone sulla base di fattori di identità quali religione, etnia, nazionalità, ‘‘razza’’, colore, discendenza, sesso o altri[11]».
Se la definizione non è sufficientemente corretta e descrittiva del fenomeno, si può determinare un conflitto con il principio di libera manifestazione del pensiero[12]. È utile quindi ancorarsi – affinché non si creino equivoci sulla differenza che c'è tra una libera e lecita manifestazione del pensiero e i discorsi d'odio - alla Raccomandazione di politica generale n. 15 della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza (ECRI). La Raccomandazione descrive l'hate speech come «l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi quali la ‘razza’, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale».
Rispetto alla precedente definizione del discorso d'odio del Consiglio d'Europa dell'ottobre 1997, la Raccomandazione del 2015 amplia in modo significativo le tipologie dei gruppi ritenuti più vulnerabili e consente di poter valutare i fatti, gli elementi concreti e le condotte necessarie, affinché il fenomeno possa essere riportato a una disciplina di rilevanza penale senza toccare il confine con la libertà di manifestazione del pensiero[13].
Un contributo fondamentale per la definizione di caratteristiche e limiti dei discorsi d’odio viene anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CORTE EDU)[14]: in numerosi casi in cui i ricorrenti lamentavano la lesione della propria libertà di parola a causa di normative nazionali volte a reprimere i discorsi d’odio, la Corte ha ritenuto necessario «sanzionare e prevenire la diffusione di espressioni che incitano, promuovono, giustificano l’odio fondato sull’intolleranza...purché proporzionate allo scopo perseguito»[15][16].
Il diritto dell'Unione europea non ha definito un quadro di riferimento concordato, con la sola eccezione rappresentata dalla decisione quadro 2008/913/GAI sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. Anche con la più recente Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo a un mercato unico dei servizi digitali (DSA), che modifica la direttiva 2000/31/CE e che prevede la riforma della responsabilità delle piattaforme per diffusione di contenuti illeciti, i regolatori europei hanno preferito limitarsi ad una serie di norme sugli obblighi e sulla responsabilità degli intermediari all’interno del mercato unico basati sul principio che ciò che è illecito offline, lo è anche online,[17] rimandando alla legislazione dei singoli Paesi per la definizione dei contenuti illeciti.
1.2. Il contrasto attraverso il diritto nell’ordinamento italiano
Non esiste nell’ordinamento giuridico nazionale una specifica definizione di discorso d’odio. La previsione degli articoli 2 e 3 della Costituzione fornisce copertura contro e dalle discriminazioni, mentre diverse norme criminalizzano condotte parzialmente assimilabili al concetto di hate speech. Il legislatore italiano ha scelto finora una strategia di contrasto ai discorsi d'odio fondata sullo strumento penale con riferimento alle sole espressioni che incitano all'odio e alla violenza razzista e da un punto di vista etnico-religioso. Nell'ordinamento italiano i discorsi d'odio sono inoltre annoverati nella più ampia categoria dei reati d'opinione, che prevedono la punibilità della manifestazione del pensiero che offende i beni più svariati, quali l'onore, la reputazione o la riservatezza[18].
Due sono le principali disposizioni penali: l'articolo 604-bis c.p., che punisce la propaganda e l'istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, e l'articolo 604-ter c.p., che configura una aggravante, quando un reato è determinato da finalità di discriminazione o odio razziale, etnico, nazionale, religioso. Queste fonti riproducono le ipotesi di reato che risalgono alle prime leggi di attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite (1975) e della cosiddetta legge Mancino e modifiche successive come quelle dell'apologia di genocidio.
Durante i lavori della Commissione gli auditi hanno segnalato come le due disposizioni non coprano i profili di possibile discriminazione nei confronti di categorie di soggetti sulla base dell'orientamento sessuale, il genere e la disabilità[19]. La Corte di Cassazione ha però ritenuto che una copertura di queste tipologie di atti discriminatori possa avvenire attraverso l'applicazione delle aggravanti dell'articolo 61, n. 11 e n. 6, del codice penale, che sono però di carattere generale e non hanno gli effetti che ha l'aggravante prevista dall'articolo 604-ter.
Oltre alla tutela penale esiste anche una tutela civilistica, prevista al terzo comma dell’articolo 2 del d.lgs. n. 215 del 2003, il quale afferma che possono essere considerate discriminazioni anche le molestie, ovvero «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di ‘‘razza’’ o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo». Dunque, anche civilmente le parole in odore di discriminazione sono considerate l’equivalente di un comportamento molesto e quindi sanzionabili con ammenda pecuniaria, con la rettifica sui giornali e altro[20].
Al riguardo è stata segnalata un'incongruenza tra le norme contro la discriminazione per etnia e quelle contro la discriminazione dello straniero, dove la nozione di molestia non è prevista, determinando una disparità di trattamento tra le due categorie[21].
È opinione diffusa che il ricorso al diritto penale debba costituire una extrema ratio e che la lotta ai discorsi d’odio vada affidata a strumenti diversi, principalmente educativi, formativi, culturali. Allo stesso tempo è stato dalla maggioranza degli auditi evidenziato come l’attuale impianto normativo non abbia dato prova di efficacia: esiste una grande sottostima del fenomeno data dalla difficoltà delle vittime di crimini d’odio di denunciare(under-reporting) ed esiste anche una difficoltà del soggetto pubblico che riceve la denuncia di agire con la necessaria determinazione e professionalità (cosiddetto under-recording)[22].
Secondo l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD) le criticità nella ricezione e nella trattazione della notizia di illecito dipendono prevalentemente dalla mancanza di un'adeguata formazione professionale e specializzazione delle Forze dell'Ordine volte al riconoscimento degli indicatori di pregiudizio e della motivazione discriminatoria del reato. Ed anche quando si arriva ad una denuncia, ottenere una condanna si rivela essere particolarmente complicato, soprattutto quando il mezzo attraverso il quale il crimine è stato perpetrato è la rete; in questo caso forti limiti sono costituiti dalla difficoltà della cooperazione giudiziaria internazionale, complessità delle indagini e anonimato[23].
Inoltre, grazie alla rapidità di circolazione del messaggio d'odio e dell’effetto che determina, l'intervento a 5 o 7 giorni dell'Autorità Giudiziaria è completamente inutile e lo diventerà sempre più a seguito della diffusione dell'intelligenza artificiale e delle sue applicazioni.
La Ministra della giustizia ha riferito che in cinque anni, dal 2016 al primo semestre 2021, i procedimenti penali iscritti per perseguire i reati di odio sono stati non più di 300, concentrati nei distretti giudiziari del Nord e delle grandi città di Roma (12,62 per cento) e Milano (4,85 per cento). L'80 per cento dei casi si conclude con l'archiviazione e anche nei pochi casi di rinvio a giudizio si arriva alla condanna in meno della metà dei casi (40 per cento); il resto si conclude con assoluzioni o provvedimenti di non luogo a procedere.
Questi dati confermano che il diritto penale serve perché stigmatizza determinati comportamenti, ma indicano anche che il livello delle denunce è davvero molto basso e che è complesso per il giudice ravvisare un nesso di causalità tra la parola e il reato d'odio[24].
1.3. La richiesta di intervento normativo
Le difficoltà evidenziate si sono tradotte nelle audizioni - seppur con sfumature differenti - nella richiesta di un intervento definitorio dei discorsi d’odio.
In particolare, è stata messa in luce la necessità di regolamenti chiari e di misure definite[25], per distinguere dove finisce il diritto alla critica e la libertà di manifestazione del pensiero e dove inizia l’odio insopportabile e illegale.
L’esigenza è stata sollevata non soltanto dal punto di vista teorico, da parte di giuristi e studiosi, ma anche a partire dalle esperienze sul campo, spesso riportando altresì quanto segnalato dalle stesse autorità di polizia, nella convinzione che queste manifestazioni d’odio possano avere anche effetti concreti di violenza e creare delle vittime[26].
Alla Commissione è pervenuta così la richiesta di una più chiara definizione dei fenomeni discriminatori di natura antimusulmana[27]e l’esortazione a «valutare l'eventuale ampliamento delle norme del codice penale che non coprono adeguatamente le motivazioni o le finalità di discriminazione o di odio antisemita o di pregiudizio antisemita»[28], nonché l’invito ad «ampliare la tipologia di discorsi discriminatori sanzionabili a quelli pronunciati sulla base del genere, dell'identità di genere, dell'orientamento sessuale, della religione, della disabilità» [29]e la richiesta di una penalizzazione delle manifestazioni più estreme d’odio[30].
La richiesta di allargare il campo dei discorsi sanzionabili si accompagna tuttavia alla necessità di chiarirne bene i confini dal punto di vista giuridico, per non confondere il discorso d'odio, ad esempio, con le molestie online, cioè con altre fattispecie che possono essere ovviamente meritevoli di tutele ma hanno un altro tipo di finalità, un altro tipo di motivazione, un altro tipo di trattamento culturale e giuridico[31]. Senza dimenticare la necessità di aggiornare e rivedere gli strumenti già esistenti, a cominciare dalla legge Mancino, pensata in un’epoca in cui il problema dell’istigazione all’odio in rete non esisteva ancora[32].
2. Politiche e norme europee ed internazionali nel contrasto ai fenomeni di discorsi d'odio
Nel dare conto delle politiche europee ed internazionali di contrasto ai discorsi d'odioche sono state adottate sul piano istituzionale, è necessario ribadire che, ad oggi, non esiste a livello sovranazionale ed europeo una chiara definizione di hate speech. Ciononostante, il diritto internazionale offre protezione dinnanzi ai messaggi d’odio.
2.1. Il diritto internazionale
Le disposizioni volte a contrastare l’incitamento all’odio si ritrovano nelle Dichiarazioni universali e nelle Convenzioni specificamente dedicate al contrasto delle discriminazioni.
Si considerino, in questo senso, la Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (ICERD) e il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR).
Entrambi gli strumenti dispongono di meccanismi di monitoraggio, rispettivamente il CERD, Comitato per l'eliminazione della discriminazione razziale per la Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e il CCPR, Comitato per i diritti umani per il Patto internazionale sui diritti civili e politici.Si tratta di comitati di esperti che effettuano esami periodici sullo stato d'implementazione degli obblighi internazionali negli Stati parte, all'esito dei quali predispongono delle osservazioni conclusive, evidenziando progressi e preoccupazioni e formulando raccomandazioni per migliorare gli standard nazionali.
Pur non contemplando disposizioni incentrate sull'incitamento, anche altri trattati contengono previsioni per il contrasto alla discriminazione, come la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, la Convenzione sui diritti del fanciullo e la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. In molti casi le motivazioni delle discriminazioni possono essere legate a due o più fattori concomitanti, ad esempio alla religione e al genere. Si parla in tali casi di discriminazione multipla e si utilizza anche il concetto di intersezionalità[33].
Sempre sul piano internazionale, è di fondamentale importanza la strategia adottata dalle Nazioni Unite.
Il lancio da parte del segretario generale Guterres nel 2019 della Strategia e del Piano d'azione ONU sull'hate speech, prima iniziativa di carattere sistemico dedicata al contrasto a questo fenomeno, conferma che si tratta di una priorità che coinvolge l'Organizzazione nel suo complesso, che non è circoscrivibile a un solo settore e che richiede uno sforzo coordinato.
I quattro princìpi sui quali è basata la Strategia sintetizzano gli aspetti fondamentali della questione: l'attenzione per l'equo bilanciamento con la libertà di opinione ed espressione; la responsabilità condivisa e il ruolo degli Stati e degli altri attori nella risposta al fenomeno; l'esigenza di supportare la formazione di una nuova generazione di cittadini digitali in grado di riconoscere l'hate speech e di contrastarlo; la necessità di analizzare il fenomeno in tutti i suoi risvolti e di individuarne le cause profonde [34].
Un altro contributo fondamentale del polo ONU ginevrino è stato l'elaborazione del Piano d'azione di Rabat, adottato nell'ottobre 2012.
Il documento contiene varie raccomandazioni rivolte a Stati, media, imprese, società civile e rappresentanti religiosi su come determinare un equo bilanciamento tra la libertà d'espressione e il divieto d'incitamento all’odio. Esso suggerisce inoltre dei criteri per stabilire se un'espressione d'odio costituisca un reato (il cosiddetto "test di Rabat").
Di recente, nell'ambito del contrasto dei fenomeni di hate speech e della promozione dell'inclusione e della non discriminazione nella prospettiva dell'Agenda delle Nazioni Unite, va segnalata l'adozione consensuale da parte dell'Assemblea generale, il 20 gennaio 2022, di una risoluzione sulla negazione dell'Olocausto, promossa da Israele con l'attivo sostegno della Germania e dell'Italia. Si tratta del primo testo approvato ad aver introdotto alle Nazioni Unite una definizione di negazione e distorsione dell’Olocausto, in linea con quella adottata dall'International Holocaust Remembrance Alliance, che racchiude alcuni elementi alla base del discorso d’odio. Tra questi, la diffusione di notizie false e lo stigma verso un'intera comunità a cui si attribuisce, per assurdo, la responsabilità primaria del suo stesso genocidio [35].
Nell’ottica delle politiche di contrasto al linguaggio d’odio, assumono grande rilievo i tentativi di definizione dei discorsi d'odio posti in essere dalle Raccomandazioni dell’ECRI.
In premessa, si consideri che il Consiglio d'Europa ha elaborato i principali standard giuridici a livello europeo per contrastare i fenomeni d'odio, ed ha previsto un Rappresentante speciale sui crimini d'odio e l'istituzione della Commissione contro il razzismo e l'intolleranza (ECRI), a cui l'Italia partecipa fattivamente.
Alla base dell'attività del Consiglio d'Europa nella prevenzione e nel contrasto ai discorsi d'odio vi sono due articoli della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU): l'articolo 14, che vieta qualsiasi tipo di discriminazione, e l'articolo 9, sulla libertà di religione e di credo.
Rilevante anche il Protocollo n. 12 del 2002 alla Convenzione, contenente un divieto generale di discriminazione, nonché il Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla cybercriminalità che espande la portata di tale Convenzione per includere i reati legati alla propaganda a sfondo razzista o xenofobo commessi via internet[36].
Da segnalare anche la Raccomandazione n. 20 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del 30 ottobre 1997, che definisce i confini del termine "discorsi d'odio", includendo tutte le forme di incitamento o giustificazione dell'odio razziale, xenofobia, antisemitismo, antislamismo, antigitanismo, discriminazione verso minoranze e immigrati, sorrette da un etnocentrismo o un nazionalismo aggressivo[37].
Infine, il Consiglio d’Europa nel 2020 ha istituito un Comitato di esperti sulla lotta all'incitamento all'odio, denominato ADI/MSI-DIS, che nel dicembre del 2021 ha approvato una raccomandazione che tiene conto dell’evoluzione del fenomeno d’odio e prevede suggerimenti agli Stati membri per affrontarlo all'interno di un quadro sui diritti umani. La raccomandazione raccoglie le principali sfide per rispondere al discorso d’odio, attraverso un approccio multidisciplinare che va dall’ambito sociologico-antropologico a quello psicologico-sociale, tenendo conto della giurisprudenza in merito della Corte europea dei diritti dell'uomo. La raccomandazione, adottata lo scorso 28 maggio dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, costituisce una guida non vincolante per gli Stati membri del CdE[38].
Di primario rilievo è (cfr. par. 1) la Raccomandazione n. 15, approvata l’8 dicembre 2015[39], sulla lotta contro il discorso d’odio, in cui viene chiesto, tra l’altro, agli Stati membri di utilizzare i poteri regolamentari nei confronti dei media (compresi i fornitori di servizi internet, gli intermediari online e i social media) per promuovere azioni volte a combattere l’utilizzo del discorso di odio, accertandosi al contempo che tali misure non costituiscano una violazione del diritto alla libertà di espressione e di opinione.
La Raccomandazione in questione è stata preceduta dalla Raccomandazione n. 7 del 13 ottobre 2002, che fornisce delle linee guida per la legislazione nazionale contro il razzismo, la quale, a sua volta, è stata preceduta dalla Raccomandazione 97/20 del Comitato dei Ministri del 1997, ai cui sensi «(hatespeech) deve essere inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che si diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza e che comprendono l’intolleranza espressa attraverso un aggressivo nazionalismo ed etnocentrismo, la discriminazione, l’ostilità̀ contro le minoranze, i migranti ed i popoli che traggono origine dai flussi migratori».
2.2. La giurisprudenza della Corte EDU
Non si può prescindere dalla giurisprudenza della Corte EDU, grazie alla quale si è cercato di definire il discorso d’odio (cfr. par. 1) e che - con particolare riferimento all’incitamento alla violenza - ha statuito il rilievo del modo in cui la comunicazione è effettuata, del linguaggio usato nell'espressione aggressiva, del contesto in cui è inserita, del numero delle persone cui è rivolta l'informazione, della posizione e della qualità ricoperta dall'autore della dichiarazione e la posizione di debolezza o meno del destinatario della stessa[40].
La giurisprudenza della Corte EDU in materia si incentra sull’articolo 10 della CEDUche garantisce la libertà di manifestazione del pensiero: «una delle essenziali fondamenta di una società democratica, una delle condizioni basilari per lo sviluppo della persona umana»[41][42].
2.3. Il diritto europeo
Sul piano del diritto europeo, l’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea (TUE) prevede fra i valori fondanti dell’Unione il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze. All'articolo 3, paragrafo 3, del TUE viene inoltre ribadito che «l'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni». L'articolo 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) afferma che «l'Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la ‘‘razza’’ o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale». L'articolo 19 consente l'adozione di provvedimenti legislativi per combattere tutte le forme di discriminazione. La Carta europea dei diritti fondamentali all’articolo 21 vieta «qualsiasi forma di discriminazione».
La decisione quadro 2008/913/GAI sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale (cfr. par. 1) impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché siano resE punibili: l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla ‘‘razza’’, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica; la perpetrazione di uno di tali atti mediante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale; l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra.
Norme in materia di crimini e discorsi d'odio sono altresì previste nella direttiva 2010/13/UE sui servizi di media audiovisivi. In particolare, la disciplina impone agli Stati membri di assicurare che i contenuti audiovisivi offerti dai fornitori di servizi soggetti alla loro giurisdizione non contengano alcun incitamento all’odio basato su ‘‘razza’, sesso, religione o nazionalità e non pregiudichino il rispetto della dignità umana; non comportino né promuovano discriminazioni fondate su sesso, ‘razza’ o origine etnica, nazionalità, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale. La direttiva (UE) 2018/1808 recante modifica della direttiva 2010/13/UE, in considerazione dell'evoluzione della realtà del mercato dei servizi di media audiovisivi, contiene disposizioni volte a rafforzare il contrasto all’incitamento all’odio.
Sul piano della soft law, nel 2016 la Commissione europea ha elaborato e adottato il Codice di Condotta, che prevede il coinvolgimento degli operatori digitali sulla lotta all'odio illegale online e sottoscritto da alcune delle principali social media companies, tra cui Facebook, Google, Microsoft, Twitter, Instagram, Google+, Snapchat, Dailymotion, jeuxvideo.com e Linkedin[43] .
L'adozione del Codice prevede un monitoraggio periodico in collaborazione con una rete di organizzazioni dislocate in vari Paesi dell'UE e ha rappresentato una risposta concreta per il contenimento online di tale fenomeno. Per darvi attuazione, le aziende firmatarie hanno acquisito precisi strumenti tecnologici di valutazione e riconoscimento dei contenuti caricati sulle proprie piattaforme. Di recente, il 29 aprile 2021 è stato adottato il regolamento (UE) 2021/784 che ha fornito un quadro giuridico chiaro e armonizzato per la prevenzione dell'uso improprio dei servizi di hosting e per il contrasto alla diffusione di contenuti terroristici online, garantendo nel contempo il corretto funzionamento del mercato unico digitale.
Inoltre, nell'ambito delle strategie, azioni e politiche che la Commissione europea attua per contrastare il razzismo e la xenofobia va citato innanzitutto il Piano d'azione dell'UE contro il razzismo 2020-2025, adottato il 18 settembre 2020, che stabilisce la creazione di un sistema di raccolta dei dati a protezione delle vittime e intende promuovere la diversità, contrastare gli atteggiamenti discriminatori, aumentare la fiducia delle comunità e incoraggiare le denunce[44].
Il Piano d'azione non prevede soltanto delle misure legislative, ma riconosce la dimensione strutturale del razzismo che si manifesta in diverse forme, nei confronti delle persone discriminate per il colore della pelle, di etnia rom o asiatica, nell'antisemitismo e nell'islamofobia. Il razzismo può essere anche combinato con la discriminazione rispetto ad altri fattori, tra cui il genere, l'orientamento sessuale, l'età e la disabilità e quando diventa strutturale, è la forma più profonda e pericolosa, e deve essere affrontato attraverso politiche proattive, con misure diverse e un approccio intersezionale. Il Piano d'azione dell'Unione europea contro il razzismo prevede anche la partecipazione rafforzata delle organizzazioni della società civile che lavoreranno con gruppi specifici per la sua attuazione. A questo scopo ha istituito un forum permanente delle organizzazioni della società civile, che parteciperà ai procedimenti consultivi a supporto della Commissione. La Commissione europea ha esortato i governi nazionali a sviluppare e adottare piani d'azione nazionali contro il razzismo entro la fine del 2022 sull'attuazione dei quali, entro la fine del 2023, pubblicherà una relazione. Il 16 dicembre 2021 la Commissione europea ha approvato il documento Princìpi comuni per i Piani di azione nazionali contro il razzismo e la discriminazione razziale, elaborati insieme all'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali[45].
Nel febbraio 2018, il Gruppo ad alto livello dell'Unione europea sulla diversità, l'uguaglianza e la non discriminazione ha creato un sottogruppo sull'uguaglianza dei dati per supportare gli Stati membri nel miglioramento della raccolta e dell'uso dei dati. Il sottogruppo è composto da esperti provenienti da tutta Europa che si occupano di politiche non discriminatorie, istituti nazionali di statistica e organi di uguaglianza. Già nel 2018 il sottogruppo ha sviluppato delle linee guida non vincolanti su come migliorare la raccolta e l'uso dei dati in tale ambito. La Commissione, a questo proposito, ha appena pubblicato una guida sulla raccolta e l'uso dei dati per poter elaborare un quadro delle esperienze soggettive di discriminazione e di vittimizzazione.
Per quanto riguarda la Commissione europea, nel dicembre del 2015 la stessa ha nominato un coordinatore per la lotta contro l'antisemitismo e per la promozione della vita ebraica e un coordinatore per il contrasto all’odio antislamico. Il compito principale dei due coordinatori è quello di portare all’attenzione della Commissione le preoccupazioni delle rispettive comunità di riferimento (ebraiche e islamiche). I coordinatori fungono da punti di contatto dedicati e contribuiscono allo sviluppo della strategia della Commissione volta a combattere i fenomeni del crimine e del discorso d'odio, dell’intolleranza e della discriminazione[46].
La Commissione ha adottato nel 2021 la prima Strategia dell'Unione europea sulla lotta all'antisemitismo e sulla promozione della vita ebraica che si fonda su tre pilastri: prevenire e combattere ogni forma di antisemitismo; proteggere e promuovere la vita ebraica nell'Unione europea; promuovere istruzione, ricerca e memoria sull'Olocausto[47].
Inoltre, la Commissione sta lavorando a un'iniziativa legislativa per estendere l'attuale elenco dei cosiddetti "crimini europei" all'interno dei trattati, includendo i discorsi d'odio e i crimini d'odio: l'obiettivo è di fornire un quadro giuridico comune per contrastare l'incitamento all'odio e i crimini d'odio in tutta l'Unione europea.
Come è stato affermato, infatti, il 4 febbraio scorso i Ministri della giustizia dell’Ue riuniti a Lille hanno valutato la possibilità di modificare l’articolo 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione per inserire anche il reato di incitamento all’odio[48].
Ancora, nel settembre 2020 è stata inaugurata la Piattaforma "Providers of Help to Crime Victims", per i diritti delle vittime dell'Unione europea. In occasione dell'approvazione, in data 19 giugno 2020, di una risoluzione sulle proteste contro il razzismo a seguito della morte di George Floyd, il Parlamento ha chiesto all'Unione e ai suoi Stati membri di porre fine a qualsiasi forma di profilazione razziale o etnica nell'ambito dell'applicazione del diritto penale, delle misure antiterrorismo e dei controlli sull'immigrazione, condannando tutti gli episodi di incitamento all'odio e i reati generati dall'odio, sia online che offline, e sottolineando che il discorso razzista e xenofobo non rientra nella libertà di espressione.
Da segnalare l'attività dell'Intergruppo antirazzismo all'interno del Parlamento europeo, istituito per la prima volta nel 1999, che si compone di rappresentanti di vari partiti e vuole essere un fronte contro il razzismo all'interno del Parlamento europeo. L’Intergruppo è impegnato contro ogni tipo di discriminazione, collabora con la società civile, con il Consiglio d'Europa e altri organismi. L’ARDI è un'interfaccia del Parlamento europeo nei confronti della società civile e si dedica all'organizzazione di numerosi eventi e manifestazioni. Tra le iniziative parlamentari da citare: la risoluzione del 1° giugno 2017 sulla lotta contro l'antisemitismo; la risoluzione del 7 febbraio del 2018 sulla protezione e la non discriminazione delle minoranze negli Stati membri dell'Unione europea; la risoluzione del 25 ottobre 2018 sull'aumento della violenza neofascista in Europa. È stato presentato anche un nuovo Quadro strategico dell'Unione europea per l'uguaglianza, l'inclusione e la partecipazione dei rom come piano decennale 2020-2030, a tutela dei diritti di questa minoranza. Infine, è stata varata la risoluzione del Parlamento europeo sui diritti fondamentali delle persone di origine africana in Europa.
Di primario rilievo nel contrasto all’hate speech sarà il DSA (infra. p.to 6). Si consideri, a questo proposito, che il 23 aprile 2022 è stato raggiunto dopo lunghi negoziati l'accordo politico tra Consiglio, Commissione e Parlamento europeo sulla proposta di DSA, relativo a un mercato unico dei servizi digitali, che modifica la direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico. La nuova proposta ha l'obiettivo di aggiornare le norme orizzontali che definiscono la responsabilità e gli obblighi dei prestatori dei servizi digitali, in particolare delle piattaforme online, al fine di rafforzare la responsabilità di questi ultimi in merito ai contenuti che ospitano, nell'ottica di una più efficace tutela di consumatori e utenti. Il DSA include disposizioni importanti per il contrasto della diffusione di contenuti illegali, quali l'incitamento all'odio, introducendo disposizioni normative vincolanti.La proposta mantiene i princìpi base del regime di responsabilità della direttiva e-commerce, ma introduce, per tutti i fornitori di beni, servizi o contenuti digitali che operano nel mercato interno, nuovi elementi di trasparenza e obblighi di informazione e contrasto proattivo dei contenuti illegali.
3. Libertà di espressione e tutela della dignità della persona
Nonostante le fonti sovranazionali (europee e internazionali) e la giurisprudenza della Corte EDU abbiano svolto e continuino a svolgere un ruolo di rilievo nel contrasto ai discorsi d’odio, non esiste sul piano normativo, come si anticipava, una definizione della categoria (o delle categorie) dell’hate speech (cfr. par. 1).
Corollario della mancanza di una definizione "universale" o, quantomeno, "europea" del fenomeno dei discorsi d'odio è l’assenza di norme e, quindi, di una regolamentazione dello stesso.
A questo proposito, si consideri che il DSA rinvia alla legislazione degli Stati membri in merito a che cosa si debba intendere per "contenuto illegittimo" (cfr. par. 6).
La difficoltà legata alla scelta di una definizione di discorso d’odio e alla conseguente regolamentazione dello stesso risiede non soltanto nella problematicità insita nella definizione dei confini del discorso d’odio[49], ma anche e soprattutto nel difficile bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della dignità dei singoli e del principio di non discriminazione.
Infatti, i discorsi d'odio rappresentano forme espressive al confine tra ciò che è costituzionalmente tollerato e ciò che è considerato intollerabile; tuttavia, il confine non è facilmente identificabile proprio alla luce della rilevanza che assume la libertà di manifestazione del pensiero nel contesto ordinamentale[50].
Come è stato affermato, seppur con specifico riferimento al principio della libertà di manifestazione del pensiero sancito all’articolo 21 Cost., la libertà di parola – in generale – è quello che «più sostanzia il principio del pluralismo»[51].
Il giudizio spetta caso per caso ai giudici che, di conseguenza, hanno iniziato, nel vuoto normativo, a delineare caratteristiche comuni del discorso d’odio, «individuate sulla base dell’esperienza investigativa»: plurioffensività, sottostima del fenomeno, «difficoltà del soggetto pubblico che riceve la denuncia di agire con la necessaria determinazione e professionalità» e «rischio di progressionecriminosa, derivante dall’innesco di un meccanismo di competizione e di rafforzamento di gruppo»[52].
Nel corso dei lavori della Commissione, è emerso il quesito su come può essere gestito il bilanciamento tra tutela della dignità e promozione della libertà di manifestazione del pensiero.
Per affrontare questo tema occorre tracciare una premessa concernente la definizione della libertà di manifestazione del pensiero in rapporto agli altri diritti e alle altre libertà. Esistono, infatti, due diversi approcci di studio: quello statunitense e quello europeo.
Negli Stati Uniti la libertà di espressione è considerata "sua maestà" tra tutti i diritti dello United States Bill of Rights e di fatto conosce un'estensione quasi sconfinata[53]. Nel 1919 la Corte Suprema degli Stati Uniti affermava che è necessario un «clear and present danger» per poter essere fuori dall’ambito di applicazione della libertà di espressione e che la libertà di espressione è di fatto un libero mercato delle idee. Per il costituzionalismo americano il discorso d’odio, per poter essere punito, per poter quindi esulare dall'ambito di applicazione sconfinata della libertà di espressione, deve sostanziarsi in un'idea o in una parola con la capacità di trasformarsi in azione, in un'azione imminente[54]. Anche nella dimensione digitale gli Stati Uniti considerano la libertà di espressione come smisurata estensione del proprio spazio di libertà, fino a sostenere che i social media sono l'osservatorio e il cantiere privilegiato per la libertà di espressione, quindi una sorta di agorà digitale, un mercato amplificato delle idee.
Il costituzionalismo europeo, invece, come è stato affermato, si fonda sulla tutela della dignità della persona e del principio di non discriminazione. Non è un caso che il costituzionalismo europeo conosca la categoria dell’abuso di diritto, «assolutamente alieno al costituzionalismo liberale americano». Infatti, la Convenzione europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sanciscono che il diritto può essere esercitato ma che non è legittimo abusare di una libertà[55].
A tal proposito, quanto alla giurisprudenza sovranazionale e nazionale di rilievo, si consideri che sul piano sovranazionale, con riferimento al sistema convenzionale, la libertà di parola, «comportando doveri e responsabilità» può essere sottoposta, ai sensi dell’articolo, 10 paragrafo 2 CEDU, «alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui»[56].
Analizzando la giurisprudenza in tema di discorso d’odio online[57] o offline, pur trattandosi di casi molto diversi fra loro, emerge chiaramente come la Corte EDU consideri i discorsi d'odiouna violazione dei valori fondamentali della Convenzione. La libertà di espressione non ha una vis espansiva tale da rendersi inconcepibile con la tutela di altri diritti più o meno corrispondenti[58].
Di conseguenza misure legislative nazionali volte a reprimere simili condotte non si pongono in contrasto con l’articolo 10 CEDU, purché esse siano proporzionate allo scopo perseguito[59][60].
La Corte EDU si è pronunciata diverse volte in tema di hate speech e nei due terzi dei casi ha mantenuto la censura per l’odiatore ritenendo il linguaggio d’odio un abuso di diritto ai sensi dell’articolo 17 della Convenzione, pertanto non coperto dall’articolo 10 che tutela la libertà d’espressione[61].
Sul piano dell’ordinamento giuridico nazionale, e sempre in tema di bilanciamento tra dignità dei singoli e libertà di manifestazione del pensiero, che rappresenta un approccio "classico" al tema dei discorsi d’odio, la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare, in occasione della sentenza n. 20 del 1974, che «non costituisce il solo limite alla libertà di manifestazione del pensiero, sussistendo invece altri limiti - impliciti - dipendenti dalla necessità di tutelare beni diversi, che siano parimenti garantiti dalla Costituzione (sentenze nn. 19 del 1962; 25 del 1965; 87 e 100 del 1966; 199 del 1971, 15, 16 e 133 del 1973), di guisa che, in tal caso, l’indagine va rivolta all’individuazione del bene protetto dalla norma impugnata ed all’accertamento se esso sia o meno considerato dalla Costituzione in grado tale da giustificare una disciplina che in qualche misura possa apparire limitativa della fondamentale libertà in argomento». Nello stesso anno, con la decisione n. 86 del 1974la Corte costituzionale ha statuito che un bene "supremo" che va tutelato dinanzi alla libertà di manifestazione del pensiero è quello del diritto all’onore e alla reputazione. In quell’occasione il Giudice delle leggi ha affermato che «[l]a previsione costituzionale del diritto di manifestare il proprio pensiero non integra una tutela incondizionata e illimitata della libertà di manifestazione del pensiero, giacché, anzi, a questa sono posti limiti derivanti dalla tutela del buon costume o dall’esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione. [...] E tra codesti beni ed interessi, ed in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana, è l’onore (comprensivo del decoro e della reputazione)»[62].
Pertanto, il Giudice delle leggi ha ampliato le maglie del limite alla libertà di manifestazione del pensiero previsto dall’articolo 21 Cost.[63].
Ancora, sempre con riferimento al panorama nazionale, un tentativo di bilanciamento è stato posto in essere dalla Corte di Cassazione, che ha evidenziato come "nel possibile contrasto fra la libertà di manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini, va data preminenza a quest’ultima solo in presenza di condotte che disvelino una concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato Cass. Pen. 36906/2015"[64],[65].
Se è vero che i discorsi d’odio possono essere limitati e puniti perché ledono l’uguaglianza e la pari dignità, l'estrema pericolosità del discorso d'odio sta nel fatto che scatena pulsioni antisociali potenzialmente capaci di alimentare, soprattutto nei soggetti più deboli e suggestionabili, forme emulative incontrollate basate su pregiudizi stereotipati figli di una sottocultura che considera il diverso e l'altro da sé come un nemico da abbattere o una minaccia da allontanare[66]. Allo stesso tempo, però, potrebbero allargarsi troppo le maglie della limitazione alla manifestazione del pensiero, confondendo le espressioni che in concreto costituiscono un pericolo all'ordine pubblico, o che siano il preludio effettivo di atti di discriminazione, con tutte quelle espressioni il cui intento è mostrare un disagio sociale, un malcontento, un dissenso politico[67].
In questo senso non si può non fare riferimento al contesto politico, sociale o istituzionale: una limitazione della libertà di parola, pur ispirata alla tutela fattuale della dignità dei singoli, potrebbe rivelarsi, in caso di democrazie imperfette oppure, addirittura, nel caso di Stati illiberali, pericolosa proprio con riferimento alla tutela del principio di uguaglianza e della stessa dignità.
È stato affermato, infatti, che nel bilanciamento può giocare un ruolo importante la diversa sensibilità degli ordinamenti giuridici[68].
Tuttavia, è opportuno ribadire le peculiarità del costituzionalismo europeo, che offre un’anticipazione di tutela: «[il] riferimento alla negazione del genocidio e a tutto quello che riguarda le questioni legate a una semplice idea o parola, che può anche non trasformarsi in azione, ma che, per il semplice fatto di essere offensiva delle minoranze più fragili, di quelle emarginate, di quelle che hanno già sofferto in passato, è comunque meritevole di punizione; quindi, non rientra nella libertà di espressione, pur non potendosi trasformare in azione»[69].
Sulla necessità di bilanciamento e i limiti alla libertà di espressione è stato osservato che : «questo non è soltanto il pourparler, la libertà di espressione che in qualche modo mette un po’ di pepe al dibattito; queste sono aggressioni specifiche, verbali, che diventano anche fisiche, e che devono essere penalmente perseguibili, altrimenti – ad esempio in Italia – non rispettiamo l’articolo 3 della nostra Costituzione; non tutti sono uguali davanti alle leggi se non proteggiamo tutti nella stessa maniera»[70].
4. I discorsi d'odio come limitazione della libertà d’espressione delle categorie target
L’approccio che si potrebbe definire tradizionale alla disciplina del fenomeno dei discorsi d’odio si basa sul bilanciamento tra i princìpi d'uguaglianza, di non discriminazione, di pari dignità sociale - da una parte - e di libera manifestazione del pensiero dall'altra: ciascun diritto deve trovare un proprio limite nel rispetto dei diritti dell’altro e, quindi, può essere limitato in nome della protezione degli altri diritti.
Tuttavia, nel corso dei lavori della Commissione è stata prospettata anche una strada differente per inquadrare la questione: piuttosto che mettere in contrapposizione due diritti costituzionali (rispetto della dignità umana vs libertà d’espressione), il discorso d'odio può essere visto come strumento che in primis conculca la libertà di espressione delle vittime in quanto appartenenti a minoranze target. In questa impostazione[71], l’intera discussione si articola intorno alla libertà di espressione: «qual è il danno che si infligge alle vittime di hatespeech quando si produce questo tipo di aggressione nei loro confronti?»[72].Riprendendo le riflessioni di Waldron nel suo libro «The Harm in Hate Speech»[73], questo danno viene innanzitutto inquadrato come un danno alla libertà delle vittime di esprimere se stesse, di esprimere il proprio protagonismo, la propria soggettività e presenza nel mondo, la loro identità. «Se l’hatespeech produce un danno nella libertà di espressione - e nell'esprimere innanzitutto se stessi, per le vittime, cioè coloro che appartengono a gruppi target - allora qui non si tratta soltanto di contemperare libertà e dignità, qui c'è un vulnus che sta dentro la stessa libertà di espressione, perché la libertà di espressione di chi esprime hatespeech va a colpire la libertà di espressione delle vittime [...]; quando noi difendiamo i discorsi d’odio perché vogliamo tutelare il freespeech, cioè la libertà di espressione, in realtà stiamo scegliendo la libertà di espressione degli aggressori rispetto alla libertà di espressione delle vittime»[74].
Questa lettura getta anche una nuova luce sulle numerose testimonianze, raccolte nel corso delle audizioni, che hanno sottolineato un altissimo livello di under-reporting da parte delle vittime di crimini e discorsi d'odio, permettendo di inquadrare il fenomeno anche come limitazione della libertà di espressione delle vittime che arriva sino al punto da impedire alle stesse di denunciare il reato subito.[75]
È stato affermato che la vulnerabilità delle vittime - in quanto appartenenti a minoranze target di discorsi d’odio, determina due effetti: ex ante è la causa della loro individuazione quali bersagli degli autori dei discorsi d'odio, ed ex post è la ragione del ridotto numero di denunce[76].
Tra le cause che determinano la scarsità delle denunce, viene individuato anche il sentimento di vergogna e il timore che spesso la vittima avverte e che in mancanza di un forte sostegno legale o psicologico la inducono a un atteggiamento rinunciatario e remissivo, a una incapacità nel far sentire la propria voce, a esprimersi liberamente[77].
5. I discorsi d'odio e alcune categorie target
Nel corso dell’audizione è emerso come i discorsi d’odio abbiano per destinatari soggetti appartenenti a "categorie bersaglio"[78], sfruttando le vulnerabilità situazionali in cui essi si trovano[79]. È stata ravvisata, ad esempio, una combinazione di intolleranza e discriminazione legata non solo all’appartenenza religiosa ma contemporaneamente anche al genere, al colore della pelle e talvolta anche alla provenienza socioeconomica; i vari aspetti di vulnerabilità, in questi casi, si sommano e interagiscano fra loro facendo sì che alcuni fenomeni vadano letti attraverso le lenti della cosiddetta intersezionalità[80].
È inoltre sempre più evidente il legame tra le categorie oggetto di discorso d’odio e l’esclusione dal godimento di beni e diritti[81].
L'indagine ha approfondito le modalità con cui alcuni di tali fenomeni di intolleranza si svolgono in Italia e individuato alcune linee di tendenza e alcune categorie nei confronti delle quali si manifesta il pregiudizio dei discorsi d’odio, in ossequio a quanto sancito dall'articolo 3 della Costituzione, secondo comma[82].
5.1 Antisemitismo
Un diffuso sentimento antiebraico - frutto di una storia di pregiudizio plurisecolare - è presente nella società italiana con percentuali per nulla trascurabili[83].
Come evidenziato dalla relazione sull’antisemitismo in Italia dell’Osservatorio del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, sebbene l’Italia continui a essere un Paese meno esposto di altri a derive antisemite più radicali, l’antisemitismo appare un fenomeno comunque diffuso. Il riaccendersi dell'antisemitismo è legato a episodi concreti oppure a momenti "topici", come il Giorno della Memoria che fa "accendere" gruppi di negazionisti o di estrema destra. L'emergenza Covid ha riavviato il complottismo antiebraico: «la pandemia […] ha fatto sì che una parte della popolazione […] abbia cercato nelle teorie complottiste una risposta alla difficoltà di comprensione di un evento di tale portata. Il Covid ha […] spinto alcuni gruppi a cercare un capro espiatorio. […] Nei secoli sugli ebrei si sono riversate proiezioni psicologiche diverse. Il coronavirus ha alimentato […] l’antisemitismo secondario, ossia una componente che, nell’ambito della cospirazione globalista, ha ripescato l’idea che la lobby ebraica abbia progettato di fare ammalare l’umanità con uno scopo (un po’ come l’antichissima vicenda dei Protocolli degli Anziani di Sion)»[84].
Gran parte dell'antisemitismo si è spostato sul web, dove appare meno visibile, ma è più capace di entrare nel linguaggio dominante, inserendosi nella quotidianità e normalizzando il linguaggio d'odio. Rispetto ad alcuni anni fa si registra una maggiore frequenza di discorsi aggressivi antisemiti.
Gli odiatori, se bloccati da una piattaforma si trasferiscono su un'altra, spesso più piccola, dove continuano a pubblicare i loro post antisemiti[85]. L'antisemitismo di oggi è molto più "liquido" di ieri: più il linguaggio è veloce, più è facile che sia composto di aggressività.
Per affrontare la crescita del fenomeno è necessario attuare interventi sul piano culturale, educativo e formativo, con politiche di sensibilizzazione e di convivenza, con sistemi di reporting e di monitoraggio, per comprendere quanti episodi vengono poi formalmente comunicati e denunciati nella consapevolezza delle nuove forme del discorso razzista e antisemita che assumono un profilo culturale e politico più che razziale.
Sotto il profilo normativo vi è un disallineamento tra il dettato legislativo e la realtà sociale. Per perseguire il reato di apologia del fascismo, così come articolato oggi in base alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione (divieto di riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista) e alla legge 20 giugno 1952, n. 645, e sue modifiche e integrazioni, è necessaria in chi esplicita queste forme di nostalgia la presenza di un elemento di volontà soggettiva, molto difficile da dimostrare; non basta cioè la cerimonia o la pronuncia di una frase esplicita, ma serve anche ravvisare la volontà di ricostituire il partito fascista.
In coerenza con la Risoluzione del Parlamento europeo del 1° giugno 2017 sulla lotta contro l'antisemitismo e delle Conclusioni del Consiglio europeo del 13-14 dicembre 2018, il Governo italiano, nel gennaio 2020, ha nominato una Coordinatrice nazionale per la lotta contro l'antisemitismo, nella persona della professoressa Milena Santerini. Nell'autunno del 2021 è stata presentata la Strategia nazionale di lotta all’antisemitismo, i cui elementi portanti sono il coordinamento e la promozione di una concreta collaborazione tra le istituzioni interessate, le comunità ebraiche, il mondo della cultura, delle università, della scuola, della formazione, del sociale, dello sport, dei media, della politica[86].
La Strategia nazionale si articola in un processo composto da vari passaggi: conoscenza/comprensione delle radici storiche e caratterizzazioni del fenomeno; valutazione e misurazione del fenomeno (pregiudizio antisemita e crimini d'odio); inquadramento/comprensione del problema nel contesto italiano. In termini generali si può affermare che il fenomeno dell’antisemitismo è in aumento così come la sua visibilità. Le azioni violente di ostilità antiebraica contraddistinguono i gruppi politici estremisti (destra, sinistra, islamisti) mentre la condivisione di stereotipi e di pregiudizi è trasversale ai ceti socio-culturali e alle appartenenze politiche e ideologiche. In sintesi, le forme attuali di antisemitismo in Italia possono essere raccolte nelle seguenti categorie: antigiudaismo di matrice religiosa; antisemitismo neonazista/neofascista e negazionismo della Shoah; odio verso lo stato di Israele; potere ebraico sull’economia e la finanza. Queste forme di antisemitismo si diffondono soprattutto online, sono la base della piramide dell’odio che ha al vertice la violenza anche genocidaria[87].
5.2 Islamofobia
Le discriminazioni islamofobe toccano soprattutto le persone riconoscibilmente collegate alla fede islamica: donne o ragazze che indossano l'hijab (il velo), atto che porta a una serie di fenomeni di discriminazioni plurime, dirette (quelle che, ad esempio, si manifestano attraverso l'imposizione di barriere, sia lavorative sia personali, all'ingresso di determinati settori della società) o indirette (norme che per garantire una qualsivoglia neutralità vanno poi a ledere chi è effettivamente riconoscibile come islamico): ad esempio, l'imposizione di un particolare abbigliamento sul posto di lavoro che va poi a discriminare in particolare le ragazze che indossano l'hijab[88],[89].
Analisi condotte congiuntamente da OSCAD e UNAR - Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali - rilevano come nonostante i molti anni di vita trascorsi in Italia molti cittadini islamici percepiscano un sentimento antislamico, e come l'under-reporting sia un fenomeno molto diffuso. Molto spesso accade che le vittime di discriminazione islamofoba non sappiano materialmente a chi rivolgersi, in assenza di un riferimento centrale e di un effettivo tessuto sociale che consentano di denunciare i fenomeni di odio anti-islamico. Inoltre, non essendo l'islamofobia riconosciuta come crimine d'odio, non possono essere avviate adeguate campagne di prevenzione e le denunce vengono raccolte nella categoria dei crimini etnico-religiosi o di razzismo[90].
Il tema del velo fa emergere criticità anche in ambito burocratico/amministrativo, come ad esempio nelle procedure di rinnovo delle carte di identità, nonostante le prefetture abbiano più volte chiarito la questione.
Tra le criticità evidenziate in audizione vi è la necessità di una corretta informazione che eviti, come accaduto, che in alcuni testi scolastici la religione islamica venga ricollegata a una matrice violenta, allo jihadismo, che è effettivamente riscontrabile in alcune nicchie ma che non riguarda la maggioranza dei musulmani nel mondo.
I risultati degli esercizi di monitoraggio sull'attuazione del Codice di condotta per contrastare l'incitamento all'odio online realizzati dalla Commissione europea mostrano che l'odio anti-musulmano, insieme all'odio xenofobo contro i rifugiati e i migranti, figura regolarmente in cima all'elenco dei motivi di intolleranza più di frequente riportati nel contesto di tali esercizi.
I dati annuali dell'OSCE-ODIHR mostrano la persistenza di una parte considerevole di crimini d’odio motivati da pregiudizi anti-musulmani. Nel contrasto a fenomeni individuali di discriminazione, gli aspetti su cui lavorare riguardano il deficit di registrazione delle matrici discriminatorie nelle denunce dei crimini: se mancano i dati disaggregati, se un crimine d’odio di matrice antimusulmana o antisemita viene registrato come un crimine di violenza generica, quella che non emerge è la reale dimensione del fenomeno d’odio e quindi vengono a mancare la risposta e il senso di priorità.
Per quanto riguarda invece il contrasto alle forme più strutturali, bisognerebbe affrontare, per esempio, la questione della prevalenza nei media di narrazioni e immagini stereotipate dell'Islam[91].
5.3 L'odio di genere
Il contrasto ai discorsi d'odionon può non tenere conto del tema dell'odio di genere, il quale non di rado è «parte di un odio trasversale che si somma al razzismo e all’intolleranza religiosa»[92]. «Nell'ultimo anno […] aumentano percentualmente i messaggi di odio, di disprezzo e di insulto nei confronti delle donne. La considerazione dei sociologi che hanno lavorato su questi messaggi è unanime: si colpisce la donna, perché la donna che lavora e ha un ruolo è un concorrente. Lo è sempre stata dal punto di vista del maschilismo e lo è a maggior ragione oggi, in un momento in cui le ben note vicende della pandemia hanno messo in difficoltà l'economia e le famiglie. Pertanto, il meccanismo concorrenziale, vissuto con feroce rifiuto da alcuni uomini, comporta questo tipo di insulti […] la paura della concorrenza e del ruolo […] si esprime nel negare la professionalità e la parità e lo si fa anche con un certo linguaggio»[93].
È stato osservato come nel corso della propria vita il 6,8 per cento delle donne ha avuto proposte inappropriate o commenti osceni o maligni sul proprio conto attraverso i social network[94].
Il nuovo Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne, per il triennio 2021-2023, presentato dal Dipartimento pari opportunità il 17 novembre 2021, è articolato per assi, priorità e aree d'intervento secondo le indicazioni e la struttura previste dalla Convenzione di Istanbul. Gli assi sono la prevenzione, la protezione delle vittime, la persecuzione dei colpevoli e la promozione di un percorso d'autonomia. Nell'asse della prevenzione è previsto uno specifico contesto d'intervento relativo ai media per monitorare e indirizzare linguaggi e immagini che fanno riferimento alle violenze degli uomini verso le donne. Questo può avvenire attraverso:
- un'azione diretta, attivando sedi stabili di confronto sui mass media per una comunicazione corretta e attenta a non fornire un'immagine alterata della violenza contro le donne;
- la promozione di una legge contro il sessismo e la misoginia nei media;
- tavoli di lavoro e scambi di buone prassi con i giornalisti e gli addetti ai lavori per la promozione di un corretto uso del linguaggio, al fine di evitare che si offra un'immagine distorta della violenza di genere, attivando di fatto processi di vittimizzazione secondaria.
E' stata formulata la proposta di lavorare su un adeguamento della Carta di Treviso sui rapporti tra informazione e infanzia, sulla previsione di sistemi sanzionatori e il monitoraggio dell'applicazione di quanto previsto all'articolo 5-bis del Testo unico dei doveri del giornalista in vigore dal gennaio 2021. Altra priorità è relativa al proliferare dello scambio online d'immagini intime tra giovani e meno giovani: vi è infatti la necessità di svolgere azioni di prevenzione primaria rivolte ai fruitori, che chiarisca agli utenti i danni che un invio volontario di immagini può generare, e di prevenzione secondaria, per intercettare i target a rischio e utilizzare ogni strumento di sensibilizzazione e controllo di fenomeni in crescente espansione come il cyberbullismo, la derisione online di una persona per il suo aspetto fisico e la diffusione illecita d'immagini o video sessualmente espliciti; attività che si integra con l'azione che si sta svolgendo all'interno dell'Osservatorio nazionale per la pedofilia e la pedopornografia[95].
5.4 LGBTQI+
I lavori della Commissione hanno ripetutamente evidenziato l’assenza di riferimenti alle discriminazioni perpetrate nei confronti delle persone LGBTQI+ nel nostro codice penale (articoli 604-bis e 604-ter): tema che quindi resta fuori - per il divieto di applicazione del principio di analogia in materia penale - da questa forma di specifica tutela[96]. Nel caso di violenze o discriminazioni perpetrate nei confronti delle persone LGBTQI+ si applica l'aggravante comune dei cosiddetti motivi abietti. Com'è noto, la carenza di una normativa rivolta a dare una risposta ai crimini d'odio nei confronti delle persone LGBTQI+ è stata fortemente evidenziata in particolare nel rapporto sull'omofobia e sulla discriminazione basata sull'orientamento sessuale dell'Agenzia per i diritti fondamentali dell'Unione europea, la quale sottolinea come l'Italia non riconosca forme specifiche di protezione in questa materia nei confronti delle persone LGBTQI+. Su questo aspetto il confronto parlamentare è noto e ampio. È emerso l'auspicio che si possa arrivare effettivamente a una valutazione che porti a colmare questa attuale carenza rilevata nel nostro sistema, in particolare nella punizione dei crimini d'odio esercitati nei confronti delle persone LGBTQI+[97].
6. Diffusione e innovazione dei media
Dalle audizioni che hanno analizzato i discorsi d'odiocon un punto di osservazione attento all'influenza dei media sul fenomeno, emerge - talvolta esplicitata, altre volte implicita - una considerazione: che il sistema dei media abbia subìto un salto tecnologico e culturale con l'avvento dei media digitali e, in particolare, con la sua fase più recente caratterizzata dal continuo sviluppo e diffusione capillare delle piattaforme, intese come luoghi in cui avviene l'esperienza sociale prevalente. Come ogni altro medium, le piattaforme non sono neutre[98]: esse hanno specifici funzionamenti tecnici che si ripercuotono in altrettanti effetti sociali, culturali ed estetico-comunicativi. Una delle caratteristiche ontologiche delle piattaforme è quella di essere degli strumenti di connessione. Esse favoriscono la connessione diretta degli utenti (narrowcasting), e questa connessione può assumere tratti positivi – quando l'uso è celebrativo, relazionale, ludico, etc. – o negativi, come nel caso delle comunicazioni odiose.
Il discorso d'odio online pone sfide inedite per come nasce e si diffonde. Le specificità del mezzo che utilizza fanno sì che idee che un tempo non avrebbero trovato uno spazio significativo in cui essere espresse, oggi attraverso il web possono raggiungere un pubblico ampio e avere una grandissima visibilità.[99] I social network hanno una struttura "orizzontale", che li può rendere una cassa di risonanza per i contenuti che vi circolano. La brevità dei contenuti e la velocità della loro redazione fa sì che i messaggi siano spesso semplificati ed estremizzati. Inoltre, le idee di anonimato e di impunità associate all’utilizzo di internet e alimentate dalle modalità di interazione sui social network favoriscono l’espressione di opinioni di odio e di istigazione all'odio[100].
A differenza di quello offline, l'odio online rimane attivo per lunghi periodi di tempo e in diversi formati; le espressioni d'odio in rete, anche se rimosse da un luogo, possono riapparire altrove; l'anonimato può rendere le persone meno consapevoli del valore delle proprie parole e ingenerare più o meno fondate aspettative di irresponsabilità e impunità; l'odio online, essendo transnazionale, rende più complicato individuare i meccanismi legali per combatterlo[101].
Presso il Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione, di concerto con il Ministero della giustizia e il Dipartimento per l'editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri, è stato istituito un Gruppo di lavoro sul fenomeno dell’odio online, che nel febbraio del 2021, a conclusione della sua attività, ha pubblicato un rapporto.
Nel documento è stata evidenziata la complessità del fenomeno a causa della mutevolezza della forma di discorso d'odio, dell'ampio numero di attori, dell'incertezza e indistinzione dei ruoli tra i produttori, diffusori e vittime e della velocità delle dinamiche di diffusione. Secondo il rapporto i media digitali possono essere trasformativi anche per i fenomeni di odio: non solo perché i media - che tutti possono usare per esprimersi - liberano e talvolta amplificano la voce di ciascuno senza le intermediazioni tradizionali, ma anche perché gli algoritmi e le interfacce influenzano l’esposizione, la selezione e la diffusione dell’informazione, diventando veri e propri filtri cognitivi alla percezione della realtà[102].
Come per il discorso d'odio offline, nel contrasto dell'odio online rileva il delicato bilanciamento tra diritto all’informazione, libertà d’espressione, rischio di censura e tutela della dignità della persona. Sebbene nella sostanza non si discosti dall’odio offline, l’odio online si esprime in un contesto nel quale la comunicazione è veloce, si muove in spazi potenzialmente molto ampi, sviluppa linguaggi e tecniche retoriche peculiari, con forme di ostilità indirette o implicite, spesso difficili da intendere per chi non è direttamente coinvolto.
Non è solo il contenuto dei messaggi d’odio postati o diffusi online a fare la differenza, ma anche il modo in cui essi transitano tra i diversi media, il modo in cui vengono trasformati e trasmessi da innumerevoli soggetti tra loro diversi (cittadini, politici e così via) e gli effetti a catena che possono innescare, difficili da delimitare nel tempo, nello spazio e nel numero dei soggetti sui quali vi potrebbero essere ricadute.
Da un punto di vista tecnico-informatico, il modello di impresa delle piattaforme non è direttamente connesso alle pratiche di odio, ma può favorirle perché l’interesse delle piattaforme a prolungare la presenza dell’utente al proprio interno rende più probabile una radicalizzazione delle posizioni, esacerbando lo scontro, in un'ottica funzionale all'aumento delle interazioni[103].
In questo contesto è stata ricordata l’importanza democratica del principio di neutralità, intendendosi il principio per il quale le piattaforme debbano rappresentare infrastrutture neutrali che, considerate le istanze tecnologiche e di volume dei contenuti che le caratterizzano, si impegnino in maniera trasparente e responsabile per prevenire e contrastare la presenza di contenuti illeciti, e allo stesso tempo per fornire strumenti e motivazioni che supportino la libertà di espressione come elemento cardine della nostra società democratica. Accompagnato da chiare misure di segnalazione delle pratiche di rimozione dei contenuti, da questo principio deriva l’assenza di una linea editoriale per piattaforme come Google e Facebook, l’assenza di un obbligo di monitoraggio dei contenuti caricati, e la responsabilità giuridica per le informazioni ospitate solo nel caso in cui le piattaforme, consapevoli della natura illecita dei contenuti, non si siano mobilitate in tempo per la loro rimozione e/o modifica.
Su questo punto però è stato segnalato da molti auditi come la net neutrality sia oramai una chimera perché già la semplice presenza di algoritmi di indicizzazione fa scomparire di fatto la neutralità dei prestatori di servizi online.
È certamente improprio affermare che i discorsi d’odio nascano con la rete, ma è considerazione praticamente unanime che le piattaforme li rafforzino favorendo, attraverso la logica di funzionamento dell’algoritmo, comunicazioni più radicali ed estreme, che hanno la capacità – ben dimostrata da studi internazionali e ricerche – di coagulare ingaggi di utenti, movimentando la sfera sensibile ed emotiva piuttosto che quella razionale[104].
Questo tipo di comunicazione genera una polarizzazione delle posizioni, quindi una contrapposizione forte che favorisce i discorsi d’odio, spesso indirizzati alle minoranze. I media digitali sono, tecnicamente, dei facilitatori dell'odio online: la disponibilità di media – intesa sia nel senso della possibilità di produrre messaggi attraverso dei dispositivi (smartphone, pc, tablet) sia della possibilità di diffondere messaggi (piattaforme e blog) – è la condizione di possibilità di pratiche di autocomunicazione di massa, che facilitano alcuni tipi di comunicazione e fanno emergere con forza fenomeni striscianti nella società. In questo senso si comprende la portata del salto tecnologico dei mezzi di comunicazione digitali: essi riproducono le stesse dinamiche dei tradizionali luoghi di socialità (pub, bar, sedi di associazioni, ecc.) ma amplificandone a dismisura la potenza[105].
Questo salto di scala non può essere ignorato, ed è una delle ragioni per le quali, secondo la quasi totalità degli auditi, si rende necessario uno specifico intervento normativo.
Le piattaforme si configurano come arene pubbliche in cui si verifica un conflitto narrativo. Nell’ecosistema contemporaneo, l’odio non assume i connotati tradizionali, ma diventa piuttosto un motivo dell’estetica contemporanea: un tratto stilistico-comunicativo, come una maschera che si indossa in particolari situazioni, senza che essa rappresenti in profondità l’io del soggetto. Questo spiega perché le pratiche d’odio online non mostrino una natura seriale, ma siano legate a precisi contesti[106].
Il fenomeno d’odio non si configura semplicemente ed esclusivamente come evento individuale ma come pratica strutturale, generata dalle caratteristiche dell’ecosistema digitale. Il cosiddetto "blasting", (letteralmente insabbiare il proprio interlocutore, distruggendolo), è proprio una prerogativa dell’uso dei social in cui «se qualcuno mi dà torto, mi arrabbio e cerco supporto all'interno del mio gruppo»[107].
Nei media digitali si può scegliere di vivere in un mondo "tribalizzato", tagliato su misura sulla base dei propri interessi e di quello che si cerca, determinando la nascita del fenomeno delle camere di risonanza(le echo chamber): ambienti in cui il principio di comunità non si fonda sulla prossimità fisica, ma sulla condivisione di posizioni politiche, etiche, sociali, ecc. Questi gruppi online tendono a risuonare all’unisono rispetto ai temi dell’agenda politica o mediatica, cementando le proprie posizioni anche attraverso forme di "partigianeria negativa". Le informazioni conformi alla propria visione del mondo, vere o false che siano, sono accettate e sono strumentali alla polarizzazione. Se all'interno del gruppo si volessero avviare dei meccanismi di correzione con un'attenta verifica dei fatti e delle fonti (fact checking), tale azione sarebbe utile solo a chi è già predisposto, l’effetto sugli altri sarebbe, invece, quello di rinforzare la resistenza e la polarizzazione.
All’aumentare della persistenza dell'utente all'interno dell’echo-chamber, si innesca quella che è conosciuta, scientificamente, come legge di polarizzazione dei gruppi: gli utenti che condividono lo stesso credo, nell'esprimerlo insieme sono molto più estremi nei loro comportamenti e nelle proprie comunicazioni che se presi singolarmente. Tutto questo peggiora quando due gruppi antagonisti si «incontrano»[108].
Gli studi e le analisi del fenomeno hanno dimostrato che le piattaforme che usano frequentemente algoritmi di feed sono più polarizzate rispetto alle altre, determinando paradossi come la piattaforma dell'estrema destra americana, Gab, che è meno polarizzata di Facebook e Twitter, nonostante sia un echo chamber.
Va inoltre sottolineato che le piattaforme non si limitano a produrre effetti per il solo fatto di essere entrate nella vita dei cittadini: esse, attraverso le proprie scelte e i propri algoritmi esercitano scientemente potere[109]. Ciò significa che le piattaforme possono orientare il dibattito pubblico volontariamente, così come anche le scelte individuali degli utenti, per un mero scopo economico. È bene sottolineare che alcune audizioni hanno mostrato prudenza nel connettere in modo diretto la policy delle piattaforme con le pratiche d'odio. Eppure, sebbene i salti tecno-culturali prodotti dalle piattaforme digitali potrebbero non avere un rapporto di causazione diretta con i discorsi e i reati d’odio, il fenomeno è talmente rilevante e diffuso da richiedere una prospettiva etica per l’analisi delle piattaforme digitali e dei loro funzionamenti e, di conseguenza, un serio intervento normativo[110].
Le piattaforme digitali si sono mostrate consapevoli dei rischi inerenti al loro utilizzo e del loro ruolo nella circolazione di comunicazioni tossiche; pertanto, si sono dotate di filtri algoritmici e umani utili a moderare la straordinaria mole di conversazioni e contenuti che potrebbero essere inquadrati come discorsi d'odio. YouTube, ad esempio, ha rimosso tantissimi contenuti per violazione della politica dell'azienda: nel trimestre luglio-settembre 2021 sono stati rimossi 6,2 milioni di contenuti, tra questi i contenuti d'odio sono stati l'1,8 per cento e il 70 per cento del totale è stato rimosso prima delle dieci visualizzazioni[111]. Il nostro Paese, secondo i dati di Google forniti in audizione, è ventottesimo nel mondo nella classifica dei Paesi con video rimossi, logicamente dietro a Paesi molto grandi per ragioni di volume ma anche dietro a Paesi significativamente più piccoli come Spagna, Argentina, Francia o Iraq. Quindi, sempre su base comparata, in Italia su YouTube c’è un problema di contenuti controversi significativamente più basso rispetto agli altri Paesi del mondo. E il contenuto d’odio su YouTube è una frazione molto piccola - solo l’1.8 per cento dei video rimossi sono rimossi per contenuto d’odio. Inoltre, questi video vengono individuati e rimossi molto celermente. Ogni 10.000 video visualizzati su YouTube, solo 9 sono potenzialmente violativi, e solo l’1.8 per cento di questi 9 contiene linguaggio d’odio. Insomma il tema, per quanto rilevante, appare molto marginale in una piattaforma come YouTube[112] Per quanto concerne le piattaforme del gruppo Meta, nel quarto trimestre del 2021, sia su Instagram sia su Facebook, la diffusione dei contenuti che incitavano all'odio è stata tra lo 0,02 e lo 0,03 per cento e questo significa che ogni 10.000 contenuti visualizzati da un utente medio, di questi 2 o 3 incitavano all'odio. I contenuti rimossi, circa il 96 per cento su Facebook e il 92 per cento su Instagram, sono stati identificati in maniera proattiva e automatica prima ancora che venissero segnalati dagli utenti tramite le tecnologie di intelligenza artificiale[113]. Va anche sottolineato, però, che le piattaforme stanno aumentando sempre di più gli investimenti per dotarsi di personale di moderazione dei contenuti di lingua e cultura italiana, così da verificare con maggiore precisione le decisioni dei sistemi di intelligenza artificiale contro contenuti sensibili od offensivi[114].
Questi dati, però, non restituiscono con precisione la portata enorme del fenomeno dei discorsi d’odio. L’attendibilità dei dati delle piattaforme è messa in dubbio dalla comparazione tra le informazioni provenienti dalle stesse e gli studi indipendenti condotti sui messaggi d’odio circolanti online[115]. I social sono divenuti per molti utenti dei luoghi ostili, inabitabili, proprio per il dilagare di questo tipo di comunicazione. Le intelligenze artificiali delle piattaforme, grazie alle quali avviene la quasi totalità dei controlli dei contenuti, si sono rivelate non pronte all’individuazione dei messaggi d’odio, principalmente per mancanza di competenze linguistiche.
Tuttavia, secondo molti auditi, il coinvolgimento delle piattaforme nella regolazione della libertà di espressione è divenuta un’esigenza da cui è difficile prescindere. È la conseguenza dello stesso design istituzionale della rete, concepito come spazio fluido transnazionale che rende, al momento, questi attori forse gli unici soggetti in grado di regolare efficacemente i contenuti digitali e di dare forma alla realtà dell’espressione online. Questo espone ad un rischio gigantesco il rapporto tra infrastrutture digitali e sistemi democratici: la libertà di espressione online finisce per dipendere dalle piattaforme, con ruolo potenzialmente alternativo allo Stato.
Le criticità nel processo di moderazione della libertà di espressione ad opera delle piattaforme sono state individuate in: a) assenza di chiari e conoscibili parametri di valutazione negli standard di community; b) assenza di un'effettiva motivazione giuridica e di garanzie procedurali che porta ad una sommarietà e trascuratezza del procedimento; c) approssimazione delle esemplificazioni degli standard di community; d) utilizzo degli algoritmi. Le regole stabilite dalle piattaforme rivestono una funzione di vera e propria norma che incide sui diritti fondamentali personalissimi, anche se nel redigerli non è coinvolto alcun attore pubblico. Il loro contenuto è spesso vago e lo standard di protezione della libertà di espressione altamente discrezionale. C’è inoltre una mancanza di trasparenza e di cosiddetta accountability (ossia di assunzione di responsabilità) sulle procedure di rimozione dei messaggi/post; fattori questi che portano ad una lesione non solo della singola manifestazione del pensiero, ma anche degli stessi precipitati giuridici alla base del principio di uguaglianza[116].
Sul secondo punto, ovvero l’assenza di un'effettiva motivazione giuridica e di garanzie procedurali, va evidenziato che la fase di moderazione dei potenziali discorsi d'odio inizia con una segnalazione, che può provenire o dagli utenti o dalle risultanze algoritmiche. I vari team di selezionatori (i gruppi di politica dei contenuti) o l’algoritmo sono incaricati di valutare in pochi secondi l’illiceità di un contenuto, a prescindere dal tipo di illecito. E qui si pone il primo problema, perché se per violazioni più macroscopiche, come la pedopornografia e il terrorismo, la decisione è più immediata ed intuitiva, per altre fattispecie, come sono appunto i più sfumati contorni dei discorsi d'odio, si richiederebbe competenza e sensibilità giuridica e un maggior tempo di riflessione, che comunque non potrà mai sostituire una carenza di cultura giuridica.
La terza questione riguarda l’individuazione concreta delle condotte d’odio. Ogni piattaforma ha svolto proprie analisi e adottato proprie procedure, in autonomia e senza coordinamento con le altre simili, talvolta descrivendo e altre volte esemplificando le espressioni potenzialmente riconducibili alla fattispecie del discorso d'odio.
Un ultimo aspetto consiste nella imperfezione delle decisioni algoritmiche. Ogni mese sono milioni i contenuti illeciti rimossi grazie all’uso degli algoritmi. Il tentativo di accompagnare le decisioni che riguardano interessi generali o diritti fondamentali attraverso un metodo matematico de-umanizzato è finalizzato, tra i vari aspetti, a due obiettivi primari: ridurre al massimo il margine di errore e garantire una totale imparzialità e trasparenza sulla limitazione della libertà di espressione[117].
6.1 Discorsi d'odio e media tradizionali
Nelle audizioni è stato evidenziato come sarebbe forviante relegare la discussione solo all’ambito dei nuovi media; così come sarebbe erroneo pensare che un ambito definitorio dei discorsi d'odiodebba essere esclusivamente riferito alla rete. Il mondo online è evidentemente una modalità di espressione di un ecosistema informativo che coinvolge anche i media tradizionali che negli ultimi anni hanno visto aumentare - in trasmissioni televisive di approfondimento informativo e di infotainment delle principali emittenti nazionali - il ricorso ad espressioni di discriminazione nei confronti di categorie o gruppi di persone (target)[118].
Il fenomeno hate speech deve inquadrarsi quindi nell’ottica della cross-medialità e trans-medialità: alcune trasmissioni inducono un certo tipo di discorso online che sulla rete viene rilanciato e/o amplificato; dal canto loro i media tradizionali tendono a imitare quello che accade nel mondo online e rilanciarne i trend.
È stato osservato ripetutamente durante i lavori come il linguaggio televisivo tenda sempre più a mescolare informazione ed intrattenimento e come questa ibridazione comporti un cambiamento del linguaggio che, nella migliore delle ipotesi, manca di sobrietà.
Il giornalismo professionale deve fare il massimo sforzo per mostrare il valore aggiunto della qualità dell’informazione, che significa verità sostanziale dei fatti, rispetto della deontologia, approccio etico e pluralismo, ma anche moderazione dei comportamenti e continenza del linguaggio[119].
Il mezzo radiotelevisivo - con immagini e audio - può spaccare l'opinione pubblica tra ciò che si ritiene giusto o sbagliato rispetto a quello che l'opinione pubblica stessa guarda e/o ascolta, creando l'effetto delle «tifoserie» inconciliabili, di«derby da stadio»[120].
In questo ambito, la tv di Stato ha rivendicato il suo ruolo particolare, che si declina in tre modi: informare, educare, formare. La prima grande sfida si gioca sul piano educativo, che per la Rai significa una presenza più forte sulle piattaforme e una offerta qualificata per aiutare a maturare il senso critico e il confronto, per smascherare il discorso d'odio e mettere al bando le parole che istigano all’odio, all’antisemitismo e al razzismo. La seconda è l’impegno a garantire un ecosistema informativo verificato e di qualità, in grado di stigmatizzare comportamenti e parole di odio e di fare emergere i valori che costruiscono le relazioni solidali e di rispetto reciproco. La terza sfida passa attraverso tutta l’offerta Rai, una offerta coerente con il contratto di servizio[121].
Alcuni auditi hanno affermato che la finalità dell'informazione radiotelevisiva è quella di proporre un ventaglio di posizioni che rappresentino al meglio tutti i diversi orientamenti - anche i più critici - per consentire al pubblico in primo luogo di formarsi più obiettivamente e realisticamente possibile un'opinione su persone e fatti, e di poter poi esprimere liberamente tale opinione, col solo limite imposto appunto del discorso apologetico o istigatorio verso forme di razzismo o discriminazione[122]; altri hanno precisato che l'onestà intellettuale e il senso di responsabilità dell'operatore dell'informazione dovrebbe risiedere nella sua funzione di moderatore super partes; non può limitarsi a gettare in pasto al telespettatore voci e video col mero scopo di aumentare l'indice di gradimento e gli ascolti che sono indiscutibilmente tra i parametri che determinano il successo di un programma, ma è necessaria sia la contestualizzazione dei fatti sia la rappresentazione delle opinioni e dei diversi punti di vista che nascono spontaneamente. A maggior ragione per gli argomenti di scottante attualità e di vasta portata[123].
Per contrastare il fenomeno dei discorsi d’odio è stata ritenuta quindi fondamentale una adeguata formazione dei giornalisti, nonché la promozione di comportamenti inclusivi sia all’interno che all’esterno dell’azienda[124].
All'etica del lavoro deve accompagnarsi un uso corretto e responsabile delle tecnologie e la consapevolezza della pervasività che l'informazione di oggi possiede. Si devono "raccontare" le cose come stanno e laddove il professionista accreditato, nonostante gli studi e gli approfondimenti, non giunge a conclusioni certe, deve sospendere il giudizio[125].
Anche nelle testate giornalistiche algoritmi e intelligenza artificiale rischiano di sostituirsi al lavoro umano nei media, con il pericolo che a guidare siano programmatori il cui scopo è solo ed esclusivamente il profitto[126]. Un qualsiasi tipo di intervento normativo, quindi, va pensato per l'ecosistema nel suo complesso senza attribuire meriti o colpe esclusivamente al mondo online[127].
7. Forme di (auto)regolazione atte a prevenire e sanzionare i fenomeni dei discorsi d'odio
Nel corso delle audizioni, è emersa spesso la distinzione tra costituzionalismo europeo e costituzionalismo statunitense in riferimento al tema dell'(auto)regolazione e della regolazione finalizzate a prevenire e contrastare i fenomeni dei discorsi d'odio. La nascita e lo sviluppo della rete negli Stati Uniti ha determinato sul piano giuridico l’adozione di discipline regolatorie particolarmente blande. La Communication Decency Act del 1996 prevede le condizioni di esercizio dell’attività di provider e le relative limitazioni di responsabilità, nonché il principio per cui nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo è considerato come l'editore o il portavoce di qualsiasi informazione provvista da un altro utente fornitore di contenuto informativo. La cosiddetta clausola del buon samaritano stabilisce che gli intermediari online non debbano essere ritenuti responsabili per eventuali azioni volontarie intraprese in buona fede contro determinati tipi di contenuti discutibili[128].
In Europa le prime regolazioni delle comunicazioni via web hanno introdotto, con la direttiva sul commercio elettronico del 2000, il principio della irresponsabilità del provider per i contenuti, purché non conosciuta l’illegalità, escludendo anche, in termini generali, l’obbligo di attivarsi per monitorare gli scambi all’interno delle piattaforme gestite. Si è in tal modo affermato un principio generale, la cosiddetta net neutrality, che si è sostanziata nella separazione tra la funzione di gestore della piattaforma e le attività che su di essa si svolgono.
Il primo è tenuto a consentire le seconde, non a monitorarle; una volta esclusi obblighi generali di monitoraggio, è esclusa anche la responsabilità legata ai contenuti.
La crescente diffusione delle comunicazioni via internet, se da una parte ha favorito lo sviluppo della libertà di pensiero e il rafforzamento delle democrazie pluraliste, ha portato alla consapevolezza che la manipolazione del discorso pubblico può avere effetti concreti sia in termini di creazione e consolidamento delle discriminazioni, sia con riferimento all’alterazione dei processi democratici.
Rispetto alla totale deregolamentazione della prima ora, con il passare degli anni è emersa in modo pressante nel dibattito pubblico l'esigenza di regolamentare le piattaforme e l'utilizzo di software, passando dall'autoregolamentazione agli attuali tentativi di co-regolamentazione nel quadro del sistema democratico europeo.
Nell’Unione europea, in origine, si era riconosciuta la neutralità delle piattaforme, sollevate quindi dalla responsabilità per contenuti di terzi; successivamente è emerso con ogni evidenza che le piattaforme possono operare delle scelte mirate, a seconda degli algoritmi impiegati e delle linee di condotta adottate, agendo quindi in modo non neutrale.
È stato affermato, a questo proposito, che «Il problema generale delle piattaforme è che sono una concentrazione di potere straordinario: potere economico, potere tecnologico, potere politico, potere di influenza sociale e culturale. E come sappiamo dalla letteratura sulla democrazia da più di cento anni, le concentrazioni di potere sono altamente problematiche. Dunque, il primo tema su cui concentrare l’attenzione è come fare ad affrontare e a ridurre queste concentrazioni di potere. È un tema ovviamente molto complesso, di rilevanza anche internazionale e geopolitica, ma direi che questo è il punto fondamentale più che gli specifici sottocasi»[129].
Ancora, è stato evidenziato comeormai siano numerosi gli esempi che stanno a testimoniare come l'applicazione delle regole interne da parte dei social media sia spesso arbitraria e in ogni caso, per forza di cose, animata da motivazioni che rispondono anche - aggiungo soprattutto - alle esigenze di soggetti che sono e restano soggetti commerciali.[130]
L’Unione europea ha progressivamente adottato una strategia di responsabilizzazione dei gestori. Gli interventi dell’Unione, sia con direttive che per mezzo di strumenti di cosiddetta soft law, hanno interessato i settori ritenuti più a rischio, dal terrorismo al contrasto al discorso d'odio, alla pedopornografia, alle misure restrittive in tema di tutela del diritto d'autore, al riordino dei servizi di media audiovisivi, ai numerosi interventi contro l’impiego di internet a scopo di truffa o per la vendita di prodotti contraffatti[131].
La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha assecondato la tendenza, riorientando la propria giurisprudenza nel giro di pochi anni[132]. Il modello di tutela, concepito nell’ambito della diffusione di contenuti protetti (da riservatezza o dal diritto d’autore), è stato esteso all’ambito della circolazione delle informazioni, tramite l’intermediazione dei motori di ricerca, tra utenti. La leva impiegata, sul piano della normazione e su quello giurisprudenziale, è la responsabilità civile del provider.
In questo contesto la Commissione europea ha presentato nel dicembre del 2020 due proposte di regolamento: la prima sui servizi digitali, per tutelare i diritti fondamentali dei cittadini dell'Unione europea e la seconda sui mercati digitali per creare condizioni di parità alle imprese europee e stimolare innovazione e crescita. In connessione con i due atti legislativi la Commissione ha altresì presentato il 3 dicembre 2020 il «Piano d’azione per la democrazia europea», dove è stata lanciata la previsione di modifica dell'articolo 83 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea sui reati[133] di rilevanza europea (cfr. par. 4).
Ancora, la pubblicazione del Piano d'azione per la democrazia europea testimonia tra l'altro la grande attenzione della Commissione europea al mercato dell'informazione digitale e alla tutela della partecipazione democratica dei cittadini europei. Nella comunicazione la Commissione avanza una vasta gamma di proposte e iniziative dirette a promuovere un più salubre ambiente digitale e informativo. In particolare, al fine di incoraggiare un'ampia ed eguale partecipazione democratica, il Piano prevede espressamente l'intenzione di compiere ulteriori sforzi nella lotta contro le fattispecie di incitamento all'odio digitale. Secondo il documento, la presenza in internet di forme di incitamento all'odio ha infatti l'effetto di dissuadere le minoranze da esse colpite dall'esprimere le loro opinioni in rete e dal partecipare al discorso pubblico.
Ebbene, ad oggi, uno strumento importante ai fini del contrasto ai discorsi d'odio – «attualmente l’unica forma di intervento possibile» [134]–è rappresentato dal Codice di condotta dell’Unione europea, adottato nel 2016 tra la Commissione dell’Unione europea e i principali attori della rete, per attuare procedure chiare e rapide per la segnalazione e la rimozione dei contenuti. Come è stato affermato, molto è stato fatto per individuare sistemi che ostacolino la diffusione di contenuti che inneggiano all’odio, alla violenza e al terrorismo, per cui esistono organismi tipo l’EU Internet Forum, che monitora la casistica del fenomeno, il Codice di condotta – e sono state adottate linee guida proprio indirizzate culturalmente agli utenti della rete, che vietano ogni forma di istigazione all’odio e alla violenza[135].
Per esempio, l’obbligo per gli attori della rete di esaminare le segnalazioni entro ventiquattr’ore dalla ricezione è molto importante, perché tende a fermare e interrompere quel meccanismo di replicazione tipico della rete, così pericoloso[136].
A proposito dei codici di condotta, si segnala che è stato indicato come, nelle more della trasposizione della nuova direttiva europea (UE) 2018/1808 sui servizi media audiovisivi che estende alle piattaforme di condivisione di video online taluni obblighi in materia di tutela della dignità umana, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni abbia avviato una serie di interlocuzioni con le principali piattaforme, Google e Facebook, per acquisire informazioni di dettaglio sulle procedure e sui criteri già utilizzati per la segnalazione e la rimozione di contenuti d’odio e sulle iniziative intraprese per combattere i fenomeni di discriminazione e di istigazione all’odio online, in vista dell’adozione di ulteriori misure, anche in forma di codici di condotta[137].
Dopo lunghi negoziati, il 23 aprile 2022 è stato raggiunto l'accordo politico tra Consiglio, Commissione e Parlamento europeo sulla proposta di Regolamento sui servizi digitali (DSA), relativo a un mercato unico dei servizi digitali, che modifica la direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico. La nuova proposta permette di uscire «da una incertezza, tipica europea», poiché «stiamo costruendo un meccanismo regolamentare capace di reprimere i fenomeni discriminatori e l’incitamento all’odio, perché tutto ciò che è illecito offline deve essere illecito anche online. Stiamo procedendo verso una prospettiva molto interessante»[138].
Il DSA ha l'obiettivo di aggiornare le norme orizzontali che definiscono la responsabilità e gli obblighi dei prestatori dei servizi digitali, in particolare delle piattaforme online, al fine di rafforzare la responsabilità di questi ultimi in merito ai contenuti che ospitano, nell'ottica di una più efficace tutela di consumatori e utenti. Il DSA include disposizioni importanti per il contrasto della diffusione di contenuti illegali, quali l'incitamento all'odio, ed ha superato l'approccio basato su strumenti di cosiddetta soft law introducendo disposizioni normative vincolanti.La proposta mantiene i princìpi base del regime di responsabilità della direttiva e-commerce, ma introduce, per tutti i fornitori di beni, servizi o contenuti digitali che operano nel mercato interno, nuovi elementi di trasparenza e obblighi di informazione e contrasto proattivo dei contenuti illegali. La discussione sul regolamento si è incentrata su quattro principali temi:
1) La regolamentazione degli algoritmi. Si è discusso sulla necessità della loro trasparenza in modo tale che non abbiano impatto sulla libertà di parola, sulla tutela dei consumatori e sulla tutela delle minoranze. Insieme alla trasparenza è stato affrontato il tema della responsabilità e delle sanzioni nei confronti di coloro che non osservano la legge. Le conoscenze delle piattaforme e i loro algoritmi vanno rivelati ovviamente non ai concorrenti, ma alle autorità di controllo.
2) La tutela dei consumatori e degli utenti. Le norme sulla responsabilità e sulla diligenza devono garantire che la responsabilità sia attribuita e ripartita equamente fra produttori, venditori e piattaforme.
3) La regolazione del mercato. È necessario ridurre le pubblicità mirate da parte delle piattaforme e consentire ai consumatori di tutelarsi. La regolamentazione, tuttavia, impatta in modo molto diverso sulle piattaforme grandi rispetto alle aziende più piccole, perciò si è cercato di individuare un punto di equilibrio e creare un accesso al mercato più equo.
4) I contenuti redazionali dei siti. Le piattaforme normalmente non svolgono attività di moderazione, quando ci sono dei media di servizio pubblico. Occorre comprendere quali sono gli standard del giornalismo che vanno rispettati, dando priorità ai mezzi d’informazione, garantendo che le informazioni che arrivano ai cittadini nascano da una base democratica e non siano notizie false[139].
La riforma proposta dal DSA mira quindi a una maggiore responsabilizzazione dei provider di servizi di intermediazione online nei confronti dei contenuti illeciti veicolati attraverso le piattaforme digitali.
L’articolato si occupa generalmente di contenuti illeciti rimandandone alle legislazioni europee e nazionali la definizione. Rispetto a questo punto, dai lavori della Commissione è risultato che l’assenza di definizione dei discorsi d'odio nel nostro ordinamento potrebbe costituire un freno all’efficacia del nuovo Regolamento proprio in relazione ai discorsi d’odio. Il Regolamento contribuisce a uniformare a livello europeo le modalità di trattamento dei contenuti illegali, con obblighi proporzionali e crescenti con il crescere delle dimensioni delle piattaforme.
Ai fini di contrastare la diffusione in rete di contenuti illeciti, il DSA prevede esplicitamente che tutti i fornitori di servizi di hosting predispongano adeguate procedure di notifica e azione, ovvero a seguito di una segnalazione dovranno agire in maniera tempestiva, diligente e imparziale. Le decisioni prese dalle piattaforme dovranno essere notificate al soggetto che abbia provveduto alla segnalazione insieme alle ragioni che l'hanno determinata.
Per quanto riguarda il regime di responsabilità, una volta avvenuta la segnalazione, si presume che il provider sia a conoscenza del contenuto potenzialmente illecito e ciò determina la decadenza del regime di responsabilità limitata previsto in via generale e, conseguentemente, l’irrogazione di una sanzione in caso di mancato intervento. Ulteriori e più puntuali doveri sono poi previsti a carico delle società di media digitali con una capitalizzazione di mercato di almeno 75 miliardi di euro o un fatturato annuale di 7,5 miliardi nell'UE. Queste società, che dovranno contare nell'UE almeno 45 milioni di utenti finali mensili e 10.000 utenti commerciali, sono tenute a effettuare annualmente una ricognizione dei principali rischi derivanti dalla diffusione e dall'utilizzo dei loro servizi in Unione europea e a predisporre misure di mitigazione dei rischi.
Una previsione di siffatti obblighi a carico dei fornitori di servizi di intermediazione digitale, unita tra l'altro a un'eventuale espansione dello spettro dei discorsi d'odio criminalizzati a livello europeo, pone tuttavia il sensibile rischio di una censura collaterale di contenuti di per sé perfettamente leciti (cfr. la problematica del "bilanciamento" posta in evidenza nel cap. 3).
La Commissione europea ha inserito nel DSA alcune disposizioni volte a mitigare l'impatto delle nuove misure sui diritti fondamentali degli utenti della rete, ad assicurare un adeguato livello di trasparenza da parte dei provider e a fornire garanzie procedurali a favore degli utenti.
Il nuovo Regolamento costituirà una base normativa comune per tutti i Paesi dell’Unione europea e si applicherà a tutti i servizi accessibili ai cittadini europei, indipendentemente dal Paese di stabilimento del provider. L’articolo 6 della proposta di Regolamento introduce per la prima volta in Europa la cosiddetta "clausola del buon samaritano", che incentiva la moderazione dei contenuti da parte dei fornitori dei servizi, senza che tale attività editoriale possa minare l’applicabilità delle esenzioni di responsabilità.
Nel corso delle audizioni sono state avanzate delle proposte normative da approvare in modo tale da garantire una migliore efficacia del DSA.
In particolare, è stato affermato che «attraverso il Netzwerkdurchsetzungsgesetz, ad esempio, sostanzialmente il legislatore tedesco ha identificato una serie di fattispecie specifiche che riempiranno il contenuto del Digital services act. Quindi, sicuramente sul punto sarebbe opportuna un’iniziativa del legislatore nazionale»[140].
Ancora, «sarebbe […] certamente auspicabile non solo una maggiore chiarezza anche da parte dei legislatori al fine di favorire una maggiore determinatezza delle fattispecie, ma anche una previa decisione da parte di un giudice che accerti effettivamente se un contenuto rientra o meno nella categoria dei contenuti illeciti e se dunque il prestatore di servizi ha motivo di rimuoverlo»[141].
Come già visto (cfr. cap. 6) una delle maggiori criticità che emerge in materia di libertà d'espressione in rete riguarda il coinvolgimento dei gestori nel controllo delle attività, nella gestione delle segnalazioni, nella notifica e nella trasparenza delle decisioni. Nel corso delle audizioni è stato affermato, in relazione all’approvazione della proposta di DSA, come una possibile «attribuzione al Garante della funzione di decisione in ultima istanza delle richieste non soddisfatte dai gestori assicura, in particolare, che un bilanciamento così delicato quale quello tra dignità e libertà di espressione non sia rimesso alla decisione autonoma di un mero soggetto privato quale la piattaforma»[142].
Quanto agli algoritmi utilizzabili dalle piattaforme, è stata affermata l’importanza di «elaborare dei regolamenti e verificare se facciamo veramente tutto quello che possiamo nell’ambito del profiling per evitare la nascita di strutture che possano favorire il razzismo»[143].
Nel contrasto dei fenomeni d'odio, pur rimanendo le tutele giurisdizionali degli Stati membri, il gestore potrà far valere la propria rapidità e l’informalità. Al riguardo è significativo quanto attuato da Meta[144] che dal dicembre del 2020 ha istituito un Comitato di controllo, denominato Independent Oversight Board, composto da 40 membri, con mandato triennale, selezionati dall’azienda, ma pagati da un trust istituito appositamente. I componenti dell’organismo sono scelti tra esperti di internet, comunicazioni social, diritti fondamentali nei diversi ordinamenti. Del board fanno parte un ex primo ministro e un premio Nobel per la pace. Alla struttura si affiancano esperti di ciascuna delle lingue nelle quali avvengono le comunicazioni. Il Comitato ha compiti di esame dei ricorsi contro i provvedimenti sanzionatori, oltre che di interpretazione dei regolamenti aziendali. Il nuovo organismo, nelle intenzioni e nelle dichiarazioni dei fondatori, si propone come autorevole strumento di garanzia della corretta regolazione dei conflitti che sorgono intorno ai contenuti diffusi sulla piattaforma e intende produrre un corpus (para)normativo[145]. Parte della dottrina ha segnalato che, se è vero che l’atto istitutivo dell’IOB esclude di volersi porre in alternativa o in conflitto con le norme statali, si potrebbe determinare lo sviluppo di una «giurisprudenza Facebook»[146]. Questa questione si intreccia a quella relativa al rapporto tra piattaforme e definizione "autonoma" del contenuto e dei limiti del discorso d’odio. L'esigenza da più parti sollevata di arginare la privatizzazione dei controlli in rete e di individuare un'autorità europea indipendente, che possa svolgere la funzione di controllo e sanzione sulle grandi piattaforme sembrerebbe essere risolta dalla competenza attribuita dal DSA alla Commissione europea, che ha il potere esclusivo di vigilare sulle piattaforme e sui motori di ricerca di dimensioni molto grandi per quanto riguarda gli obblighi specifici a questo tipo di operatori, in stretta collaborazione con le autorità degli Stati membri dell'Ue.
In Italia l'AGCOM è intervenuta con il Regolamento dell'Autorità garante per le telecomunicazioni in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all'hatespeeched è attesa l'applicazione della nuova Direttiva europea sui servizi dei media audiovisivi (direttiva 1808/2018, cosiddetta direttiva SMAV), che estende alle piattaforme di video sharing una serie di diposizioni già in vigore per i fornitori di contenuti audiovisivi in merito alla protezione dei minori, ai discorsi d’odio e alle comunicazioni commerciali. I fornitori di piattaforme di video sharing devono adottare misure adeguate a proteggere sia i minori da alcune tipologie di contenuti, se tali contenuti possono nuocere al loro sviluppo fisico, mentale o morale, sia il grande pubblico, se tali contenuti istigano alla violenza o all’odio, o se la loro diffusione costituisce un’attività di reato.
La tutela degli utenti è affidata alla promozione di procedure di autoregolamentazione e di co-regolamentazione, che anticipano alcuni dei meccanismi di co-regolamentazione prefigurati nel DSA. In generale, nel corso delle audizioni è stato espresso parere positivo in favore dell’istituzione di un’Authority indipendente in tema di segnalazione e moderazione di contenuti d’odio, e sollecitata la possibilità di dotarsi di strumenti giuridici specifici relativi all’odio online, com’è già avvenuto in altri Paesi europei[147].
Quanto alle proposte di regolamentazione, è stato chiesto alle piattaforme dei social network «tra le altre cose, di rafforzare le risorse umane e migliorare gli strumenti a disposizione degli utenti dedicati alle segnalazioni dei contenuti inappropriati che incitano all’odio, alla discriminazione o alla violenza, affinché questi vengano rimossi in modo tempestivo. Inoltre, richiediamo delle linee guida per il posting sui socialmedia in cui le piattaforme pubblicizzino un dibattito online esente da hatespeech»[148]. Inoltre, è stata proposta l’istituzione di un Osservatorio nazionale permanente sui discorsi e sui crimini d’odio[149], così come l’introduzione di una forma di regolamentazione di carattere internazionale che possa basarsi sulla promozione della battaglia contro l’anonimato[150]. Ancora, è stato proposto, per elevare il livello qualitativo delle segnalazioni dei contenuti d’odio, di impegnare associazioni attive nel sociale[151]. È stata inoltre riconosciuta l’importanza dello «strumento del patrocinio a spese dello Stato previsto nei procedimenti civili e penali vertenti sui diritti della personalità che, in tema di crimini ed illeciti legati all’odio - e quindi ai diritti della persona - dovrebbe essere applicabile a prescindere dai requisiti reddituali»[152].
8. Raccolta dei dati e conoscenza dei fenomeni
Lo studio dei fenomeni discriminatori rappresenta una sfida per la statistica ufficiale, sia per la numerosità delle dimensioni da considerare, sia per la loro complessità in termini definitori e interpretativi: non esistono ancora criteri e standard varati a livello internazionale e a livello di Eurostat[153]. Il Piano d'azione dell'Unione europea contro il razzismo 2020-2025 stabilisce l’esigenza di «un nuovo approccio alla raccolta dei dati» che preveda la disaggregazione dei dati raccolti per origine etnica e "razziale" al fine di «individuare sia le esperienze soggettive di discriminazione e vittimizzazione, sia gli aspetti strutturali del razzismo e della discriminazione»: l’obiettivo è quello di creare una metodologia e un coordinamento comune a livello comunitario, nella consapevolezza che la raccolta dei dati ed il monitoraggio rappresentano questioni molto rilevanti al fine di determinare la reale entità del fenomeno e quindi le necessarie e possibili reazioni da parte degli Stati membri.
Per quanto riguarda in particolare i crimini d’odio, l’assenza di dati disaggregati, originata dalla mancata registrazione della matrice discriminatoria dei reati all’atto della denuncia, comporta che le aggravanti, come quella della motivazione razziale, non vengano spesso nemmeno individuate[154].
La raccolta dei dati relativi sia ai crimini che ai discorsi d'odio è una questione centrale e l'assenza di una metodologia comune di catalogazione e di elaborazione è una delle maggiori problematiche nel contrasto del fenomeno, che impedisce la creazione di banche dati condivise per i fenomeni di violenza[155]. Per contro, la creazione e l’archiviazione di questo genere di dati comporta dei rischi circa un loro possibile uso in chiave discriminatoria[156].
Cruciale a parere di molti degli auditi è il tema del contrasto all’under-reporting, necessario fra le altre cose anche per rendere effettiva la conoscenza del fenomeno ed efficace la raccolta dati[157].
L’accesso ai dati delle piattaforme a fini di ricerca scientifica, essenziale per determinare l’effettiva entità di tali fenomeni non solo nel mondo online, è attualmente molto limitato[158]. «Questo accesso ai dati e agli algoritmi […] è una forma di conoscenza che rappresenta la precondizione per eventuali interventi normativi dello Stato efficaci ed equilibrati»[159].
L’Istat ha realizzato nel tempo numerose indagini volte a rendere "visibili" questi fenomeni e a studiare le diverse espressioni dei processi di discriminazione, utilizzando, a tal fine, differenti strumenti metodologici. Si tratta di varie tipologie di rilevazione – iniziate con l’indagine del 2006 sulla violenza contro le donne e con quella del 2011 sulle discriminazioni. L’Istat sta predisponendo la documentazione per l’avvio nel 2022 di un’"Indagine pilota sulle discriminazioni", volta a definire l’adeguatezza degli aspetti tecnici di misurazione dei fenomeni discriminatori, prima di lanciare l’indagine vera e propria nel corso del 2023[160].
Sono disponibili dei dati EUROSTATper approfondire il tema delle discriminazioni, delle molestie, dell'incitamento all'odio in Italia[161]: circa il 15 per cento degli italiani dichiara di aver subito nei dodici mesi precedenti fenomeni discriminatori o molestie o atti di vero e proprio odio. Tuttavia, confrontando i dati fra il 2015 e il 2019, emerge una riduzione del fenomeno. Rispetto alle azioni messe in campo nel nostro Paese per contrastare fenomeni di discriminazioni e di molestie, il 12 per cento degli italiani, diversamente dal resto degli europei, ha risposto che non è stato fatto alcuno sforzo, a conferma che, di fronte al dilagare di questi fenomeni, c'è una richiesta di maggiore attenzione da parte di tutti, e non soltanto delle istituzioni. Riveste una certa importanza anche capire quanto è radicata la consapevolezza degli italiani rispetto a fenomeni di questo tipo. Dai dati dell'Eurobarometro 2019 si rileva che sette italiani su dieci dichiarano che la discriminazione rispetto all'orientamento sessuale delle persone è molto comune nel nostro Paese[162].
Per quanto riguarda la rete, il tema del digitale, che si afferma come diritto di tutti, come diritto fondamentale della persona, apre però contestualmente anche alla preoccupazione che dentro l'accesso alle Reti e alle piattaforme digitali si annidi il rischio dell'incitamento all'odio. Il Paese è molto indietro nella messa in sicurezza di piattaforme digitali e infrastrutture al fine di contrastare tali fenomeni.
L'UNAR riceve e raccoglie segnalazioni di contenuti a carattere discriminatorio che riguardano anche la rete. Tutti i dati riportati evidenziano la rilevanza assunta dai contenuti di odio online a carattere discriminatorio, pur nell’assenza di strumenti informatici di rilevazione[163].
Anche l'azione dell'OSCAD, organismo interforze che ha il compito di monitorare il fenomeno e di cercare di lavorare sui profili dei crimini d’odio in Italia, si scontra con la difficoltà di intercettare i crimini d’odio, perché l'acquisizione dei dati presenta numerose criticità relative alle metodologie di raccolta. Alcune manifestazioni e condotte discriminatorie poi, in Italia non hanno copertura: tra tutte la discriminazione di genere o nei confronti del disabile. In ragione di questa eterogeneità, i dati comunicati all’OSCE non forniscono un quadro avente valore statistico sul fenomeno in Italia: incrementi e diminuzioni dei dati comunicati non sono correlabili con certezza a una proporzionale variazione dei crimini d’odio nel Paese[164].
Da cinque anni l'associazione Vox realizza la Mappa dell'intolleranza, un progetto condotto in collaborazione con diversi atenei. La Mappa, oltre alla finalità di studio, intende essere uno strumento di contrasto, di freno e di riduzione dei messaggi dell'intolleranza nel linguaggio della comunicazione. Nella quinta edizione della Mappa (2020) sono emerse alcune caratteristiche rilevanti a cominciare dall'aumento dei messaggi di odio e di disprezzo nei confronti delle donne. I messaggi di odio e di insulto nei confronti della comunità LGBTQI+ (in particolare nei confronti dei gay) si sono significativamente ridotti dall'entrata in vigore della cosiddetta legge Cirinnà sulle unioni civili[165]. L'istituzionalizzazione in un rapporto lecito e la possibilità di avere coppie-famiglia anche ufficialmente e non solo di fatto […] hanno dato un riconoscimento sociale per il quale questa categoria è sempre oggetto di linguaggio discriminatorio e violento, ma in termini quantitativi decisamente minori rispetto agli anni precedenti[166] . Le persone di fede islamica (che in molti casi sono cittadini italiani) subiscono un forte messaggio di odio e di discriminazione, in particolare sulla base dell'opinione per cui l'Islam è una religione troppo tradizionalista: questa accusa spesso proviene da quei soggetti che dell'osservanza di valori e obblighi tradizionali fanno una bandiera con l'obiettivo di emarginare una fetta di società spesso più povera e più in difficoltà[167]. Altra caratteristica tipica del linguaggio d'odio è la costruzione di una differenziazione che consente a chi trasmette questi messaggi di sentirsi membro di una comunità che rigorosamente si autodefinisce, discrimina, allontana e addirittura combatte le altre comunità.
La sezione italiana di Amnesty International è da anni impegnata in un lavoro di monitoraggio e analisi dei contenuti online che prende forma nel rapporto annuale Barometro dell'odio. L'obiettivo è quello di arginare e diminuire l’uso del linguaggio violento, aggressivo e discriminatorio, rispondendo ai profondi cambiamenti in atto nella nostra società. La prima edizione del Barometro dell'odio è stata lanciata in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018. La terza edizione del «Barometro dell'odio» nel 2020 si è invece focalizzata sull'odio di genere. L'edizione del Barometro dell'odio del 2021, intitolata "Intolleranza pandemica", si è invece focalizzata sull'impatto che le ripercussioni della pandemia sui diritti economici, sociali e culturali hanno avuto nella discriminazione online. I risultati emersi sono in linea con quelli delle edizioni precedenti ed evidenziano un'incidenza di commenti offensivi e discriminatori del 10 per cento e di vero e proprio hate speech dell'1 per cento. Per quanto riguarda i bersagli dell'odio online, dal rapporto emerge che si tratta di un odio che colpisce in maniera trasversale: aumenta il rischio di esclusione e di discriminazione di chi è già più vulnerabile. Inoltre, emerge un odio intersezionale, quando si sovrappongono diverse identità o caratteristiche oggetto di odio. I post e i tweet sui diritti economici, sociali e culturali sono problematici nell'1,8 per cento dei casi, ma quando si incrociano con altri argomenti, come per esempio i rom, la percentuale schizza al 43,2 per cento o, nel caso dell'immigrazione, al 20,2 per cento[168].
La Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d'odio, coordinata dal prof. Federico Faloppa, mette insieme le più importanti realtà che da diverso tempo si occupano di monitorare e contrastare i discorsi d'odio con un approccio olistico e multidisciplinare. Grande attenzione ha dedicato al quadro normativo (giurisprudenza e proposte), all'educazione digitale, alla diffusione della contronarrazione, all'analisi comparata di discorsi d'odio in chiave europea. La rete ritiene che sia auspicabile una banca dati condivisa che raccolga dati rappresentativi della realtà. Auspicabile anche lo studio di metodologie d'indagine aggiornate. Importante è sollecitare l'accesso ai dati e progettare un osservatorio nazionale permanente come anche valutare la creazione di un'authority indipendente per la segnalazione e la moderazione dei contenuti d'odio[169].
In collaborazione con alcuni istituti di ricerca, Parole O_Stili ha portato avanti alcune ricerche, tra cui quella sulla campagna elettorale del 2018: in quell'occasione sono stati rilevati indici di aggressività, falsità e ostilità molto alti. Altre indagini hanno riguardato il mondo dei giovanissimi e in particolare sono stati oggetto di studio i ragazzi testimoni di discorsi d'odio in rete.
L'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODHIR) dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) redige annualmente un rapporto sui crimini d’odio negli Stati membri dell’OSCE e ha predisposto laHate crime reporting per la raccolta di dati sui crimini d’odio sulla base di informazioni fornite dalle autorità competenti nei singoli Stati, dai media e dalla società civile. L’ODIHR segnala nel sito anche le attività innovative condotte dalle organizzazioni della società civile nel monitorare i crimini d’odio ed assistere le vittime.
9. Cause sociali, politiche e culturali della generazione e diffusione dei discorsi d’odio e dei fenomeni di intolleranza e discriminazione
Come visto (cfr. 6) i mezzi di comunicazione e, in particolare, le piattaforme digitali hanno una organizzazione e caratteristiche tali da favorire forme relazionali di tipo aggressivo e odioso, ma le pratiche degli utenti, l’uso che essi fanno degli spazi di espressione per diffondere odio, non hanno solamente ragioni riconducibili alle tecnologie. I discorsi d’odio sono anche il risultato di disuguaglianze sociali reali o percepite, di un malessere legato alla costruzione della propria soggettività privata e pubblica, che avviene anche in modo performativo nelle relazioni interindividuali, sia nella realtà in situ e sia nei contesti mediali[170]. Le espressioni d’odio sono anche l’indicatore di una rabbia dovuta ai cambiamenti del sistema sociale e delle forme culturali, che generano spaesamento e, talvolta, una rabbia cieca contro l’altro generalizzato. Oltre ai fattori storici e culturali, l’odio, le discriminazioni, le intolleranze hanno spesso una origine nel disagio sociale, il cui dilagare è ben testimoniato dal forte incremento della povertà assoluta nel nostro Paese in anni recenti[171]. La minaccia che i crimini d’odio e le intolleranze rappresentano riguarda anche le nostre società democratiche, perché si tratta delle più forti cause di tensione e di violenza. Se guardiamo alle nostre società più in generale, vediamo che emergono frammentazioni e ineguaglianze a livello sociale. La pandemia in particolare, ma non solo, ha esacerbato queste tensioni e intolleranze che, a livello individuale, familiare, sociale e nazionale, determinano precisi rapporti di potere[172].L'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, «impone al legislatore di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale approvando leggi che rafforzino la coesione sociale e che evitino di guardare all'altro con diffidenza, perché tante volte la paura nasce anche da un disagio economico e sociale»[173].
9.1 Esclusione sociale e discorsi d’odio
I fenomeni di intolleranza e di diffusione dei discorsi di odio si manifestano dove è maggiore la povertà educativa, materiale e di coscienza critica. È stato notato inoltre che i discorsi d'odiosi connettono drasticamente al rischio di radicalizzazione, intesa come declinazione di un fenomeno di azione violenta legato a una ideologia estremista, di contenuto politico, sociale o religioso. Da questo punto di vista, la questione delle seconde o terze generazioni della popolazione immigrata è particolarmente rilevante e fa emergere la necessità di "mescolare" i percorsi scolastici individuali con mondi e appartenenze sociali e culturali diverse.
Il tema dei discorsi d'odio ha a che fare certamente con percorsi educativi e scolari ma occorre considerare anche gli esempi che i giovani incontrano all’esterno. Secondo la teoria delle "finestre rotte", infatti, l'essere umano agisce per imitazione, anche rispetto a comportamenti anti-sociali: per i giovani è pericolosissimo incontrare "vetri rotti" che inducono a comportamenti errati.
La connessione tra discorso d'odio e radicalizzazione è un rischio che si tende troppo spesso a vedere come un tema episodico e a collocare nella sola radicalizzazione islamica. La radicalizzazione, intesa come una declinazione del fenomeno di azione violenta legata a un'ideologia estremista di contenuto politico, sociale o religioso può avere tra le sue cause la bassa scolarizzazione dei giovani o una condizione di precarietà, che restituisce la percezione di vivere in una società ingiusta.
L'esclusione sociale delle seconde o terze generazioni è un problema soprattutto per chi è più fragile dal punto di vista economico. Servono interventi nella scuola e interventi di mediazione sociale e inter-culturale per recuperare situazioni di povertà economica, culturale e sociale. Difficile ipotizzare l’inclusione e la caduta del rischio del discorso d'odio dove vi è un’omogeneità della popolazione scolastica, la quale non ha dunque un confronto con realtà diverse. Più si riuscirà a "contaminare" nell’incontro con la scuola i ragazzi con altri provenienti da altre culture, da altri contesti, con altre sensibilità, più riusciremo a combattere il rischio della crescita del discorso d’odio in generale[174].
9.2 L’avvento della società multietnica e i discorsi d'odio
I dati raccolti dall'ODIHR fanno emergere che il fenomeno migratorio e i cambiamenti etnici delle nostre società hanno molto stimolato la crescita dei crimini d'odio così come nel corso del primo lockdown il fenomeno dei discorsi d'odioè dilagato quando, alla profonda incertezza economica si è associata quella sanitaria. Dal monitoraggio sui crimini d'odio nella regione dell'OSCE emerge che il Covid-19 ha incentivato crimini d'odio contro vittime di origine asiatica, non esclusivamente cinese. I crimini d'odio indirizzati contro i migranti rimangono una categoria sproporzionatamente prevalente tra i crimini d'odio a base razzista e xenofoba, mentre quelli relativi alla disabilità sono gravemente sottomonitorati e sottostimati in gran parte dei Paesi dell'area OSCE.
9.3 La crisi dell’identità
Esiste da sempre la necessità di confermare la propria identità attraverso un capro espiatorio, attraverso l’opposizione ad una identità altrui identificata come debole e contaminata: costruire un altro negativo (un femminile negativo, un religioso negativo, un orientamento sessuale negativo, un etnico negativo) è un modo per rinforzare il sentimento della positività della propria identità, sul cui senso si ha, in realtà, una percezione di inconsistenza, fragilità o vuoto. «In contesti caratterizzati dall’indebolimento dei legami sociali, la contrapposizione all’altro rafforza, nella sua percezione, l’identità di chi esclude; funziona da dispositivo identitario tanto quanto è discriminatorio»[175].
I discorsi d'odioattaccano persone o gruppi di persone in base a caratteristiche definite che si riferiscono ad un aspetto identitario del soggetto o dei soggetti presi di mira a causa della propria condizione di vulnerabilità, quali l'appartenenza e l'identità di genere, le radici e le origini etniche o religiose e l'orientamento sessuale, fino a caratteristiche che possono essere sociali o anagrafiche quali la disabilità o l'aspetto fisico.
Il discorso d'odio può implicare discorsi evocativi di minaccia e di incoraggiamento all'azione violenta, ma può essere anche un tipo di discorso che alimenta un clima di pregiudizio e di intolleranza in considerazione del fatto che può fornire carburante a comportamenti e azioni di tipo discriminatorio, ostile o violento.
Si ipotizza che ciò che accomuna chi fa molto uso di questa attitudine verso l'altro, di questo bisogno di esternalizzare l'odio, sia una modalità di funzionamento basata su dinamiche primitive: polarizzazioni binarie che non tengono presente il tema della complessità. C'è un aspetto di convivenza difficile con alcune parti di sé che tende alla proiezione, all'aggressività verbale e all'identificazione di un oggetto o soggetto altro che viene denigrato per poter rinforzare la propria identità contro quella di altri che vengono evidentemente vissuti come minacciosi, come diversi dalle aspettative dell'individuo che promuove questi atteggiamenti denigratori e ostili[176].
9.4 La crisi valoriale
Papa Francesco, nell’enciclica «Fratelli tutti», soffermandosi sulla «illusione della comunicazione», rileva che «i rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un "noi", ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non basta per generare ponti, non è in grado di unire l’umanità»[177].
Nelle società fluide la mutevolezza e la velocità della trasmissione dei contenuti sembrano annullare la certezza di riferimenti saldi. La complessità e la pervasività di questo aspetto mettono in evidenza quanto l’uso delle parole e del linguaggio sia determinante per i media e per le reti sociali. Occorre smascherare tre grandi problemi che stanno dietro la spettacolarizzazione e la banalizzazione del male: l’approssimazione, la ridondanza settaria e la babele mediatica. Se fare notizia equivale a fare spettacolo e a creare scontro per l’audience, diventa facile non solo dare risalto ad alcune informazioni ma anche sottacerne altre. L’approssimazione, ossia la mancanza di esattezza e precisione, è uno dei rischi più diffusi che rischia di alimentare [178] «generalizzazioni errate, ingiuste e discriminatorie che possono, a loro volta, incidere negativamente sulla vita quotidiana delle potenziali vittime»[179]. «Alcune modalità di trasmissione delle informazioni, immagini utilizzate, combinazioni tra immagini e parole, utilizzo del linguaggio [sono] portatori di […] stereotipi»[180] che, suscitando indignazione, alimentano la condivisione di tali contenuti[181]. Con le nuove tecnologie comunicare è molto più facile, ma non è cresciuta allo stesso modo la consapevolezza del valore del comunicare. La pervasività, la banalizzazione e la deresponsabilizzazione (data dall’anonimato) nel web hanno reso possibile quel processo di accettazione sociale che elimina lo scandalo dal dibattito pubblico[182].
Pregiudizi e stereotipi possono essere combattuti attraverso il riconoscimento delle loro radici storiche. Assicurare che ci sia una memoria e un ricordo è una parte importante dell'incoraggiamento all'inclusione e alla comprensione. «L'Olocausto, il colonialismo e la schiavitù sono radicati nella nostra storia e hanno delle conseguenze molto importanti per la società di oggi […] la reazione odierna di un Paese [rispetto a questi fenomeni] dipende infatti dalla storia di quel Paese e dal tessuto sociale che ancora oggi riflette quella storia»[183].
9.5 La viralità della condivisione
Con la sua strutturale disintermediazione[184], la rete ha da un lato moltiplicato le possibilità di libera espressione e di accesso all’informazione, ma dall’altro ha favorito una polarizzazione sociale mai così forte in quella che è stata definita l’età della rabbia, in gran parte anche per effetto dell’engagement, della viralità della condivisione e del funzionamento degli algoritmi, i quali hanno il potere di cambiare l’ambiente sociale stesso del soggetto che abita la piattaforma[185], alimentandone talvolta i pregiudizi[186]. Gli algoritmi tendono a valorizzare, nella stessa presentazione dei contenuti, quelli più attrattivi di like e visualizzazioni, ovvero generalmente quelli più estremi, meno mediati dalla riflessione razionale e molto spesso più aggressivi e discriminatori. Questo tipo di contenuti si rivela frequentemente e paradossalmente capace di aggregare consensi riversando sul nemico opportuno di turno il senso diffuso di revanscismo e invidia sociale, per le ragioni più diverse, in un’ampia quota del pubblico della rete. Ad assurgere al ruolo di capro espiatorio sono generalmente minoranze, soggetti particolarmente vulnerabili o comunque percepiti, per le ragioni più varie, come "diversi" per l’origine etnica, per genere, per credo religioso e così via. Come sempre, in contesti caratterizzati dall’indebolimento dei legami sociali, la contrapposizione all’altro rafforza, nella sua percezione, l’identità di chi esclude; funziona da dispositivo identitario tanto quanto è discriminatorio.
In audizione è stato però sottolineato come YouTube sia in realtà interessato alla qualità e alla sicurezza dei contenuti tanto per questioni di policy quanto per dinamiche sottostanti la monetizzazione dei creatori di contenuti, introducendo meccanismi di remunerazione per i creator. Su YouTube, quando un creator crea contenuti di qualità̀, ha una buona base di utenti e un buon numero di visualizzazioni, stabilisce un rapporto di partnership con YouTube che gli permette di fare soldi attraverso la pubblicità̀ sui propri contenuti.
10. Istruzione, formazione e contrasto dei fenomeni legati ai discorsi d'odio
La scuola costituisce, in piena aderenza al dettato costituzionale, una delle principali formazioni sociali entro cui l’individuo sviluppa la propria personalità e compie il proprio percorso di crescita personale e relazionale. La grave crisi pandemica che ha interessato negli ultimi due anni il mondo intero ha posto in maniera ancora più evidente l’importanza cruciale rivestita dalle istituzioni scolastiche e l’imprescindibilità della scuola come luogo di apprendimento e di arricchimento, fucina di idee, di progetti e di speranze. Le criticità legate allo svolgimento delle attività didattiche e formative da remoto hanno consegnato un’immagine certamente problematica sotto il profilo della tenuta del sistema scolastico ma, in ogni caso, ampiamente confortante per l’impatto sulla popolazione studentesca, mossa in modo straordinario dal desiderio di tornare ad abitare con stimolo più alto i banchi di scuola.
I discorsi d'odio rappresentano un fenomeno che sta segnando la società e che dà più ansia a coloro che si occupano di scuola. Razzismo e antisemitismo, inoltre, sono un segno del periodo difficile che stiamo vivendo. Di questo malessere complessivo avvertito dai ragazzi e acuito nei due anni passati, in cui non la didattica a distanza, ma l'isolamento ha generato fenomeni che il Ministero dell'istruzione sta valutando e che gli stessi studenti (consulte e movimenti giovanili) hanno segnalato[187].
La scuola è una comunità costituita sull'ascolto reciproco, sul dialogo. Tuttavia, il discorso d'odio è estraneo alla capacità di confrontarsi sulle idee. Non a caso, parlare di parole d'odio nello spazio digitale di internet richiama alla responsabilità dell'uso delle tecnologie da parte degli studenti. Il Ministero, a tal fine, ha istituito il Piano nazionale per l'educazione e il rispetto[188], recentemente aggiornato, con il quale sta affrontando, nel suo insieme, azioni educative e formative volte ad assicurare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze trasversali, sociali e civiche che rientrano nel più ampio concetto di educazione alla cittadinanza attiva e globale. È necessario che esso diventi realtà ricorrente in tutte le scuole e fondamento per l'educazione civica. Su questo, inoltre, il Ministero ha istituito un Comitato tecnico-scientifico per l’attuazione della legge sull’Educazione civica[189] (legge 92 del 2019), coordinato dal Prof. Alessandro Pajno.
Nello specifico, da un censimento condotto, è emerso che quasi il 30 per cento dei bambini e bambine ha percepito messaggi d'odio tramite l'utilizzo dello smartphone. Ciò richiama una questione fondamentale: lo sviluppo di capacità critiche e l'educazione digitale, in modo tale che i fruitori, soprattutto se nell'età dell'infanzia e dell'adolescenza, non ne siano schiavi. La scuola deve tornare ad essere luogo di formazione, oltre che di informazione, maestra delle differenze[190].
A tal riguardo, vi è anche un coordinamento europeo del quale il Ministero dell'istruzione è parte: il No Hate Speech Movement, che ha tra i propri obiettivi anche quello di ripensare l'educazione digitale (su cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha stanziato risorse rilevanti), rafforzando inoltre la preparazione degli insegnanti e dei dirigenti scolastici in questo specifico settore[191].
Su questo filone, particolare rilievo assumono le Linee guida sul contrasto all’antisemitismo nella scuola[192] elaborate nel 2021 dal Ministero dell'istruzione:esse nascono dalla volontà di fornire una risposta aggiornata e adeguata ad un inaccettabile pregiudizio, antico e nuovo al tempo stesso, come dichiarato dal Ministro nella prefazione al documento, con l'obiettivo di dare «un nuovo impulso a tutta la comunità scolastica per l’approfondimento dei temi che riguardano i meccanismi che danno origine a ogni pregiudizio».
Da questa esperienza è nato un altro strumento molto importante messo in campo dal Dicastero dell'istruzione: l'Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri. Lo scorso 17 marzo 2022, l'Osservatorio ha presentato il documento "Orientamenti Interculturali. Idee e proposte per l’integrazione di alunne e alunni provenienti da contesti migratori", che aggiorna e attualizza le precedenti Linee guida per l’integrazione degli alunni stranieri del 2014 e si propone di offrire modalità organizzative e indicazioni operative per favorire l’inclusione di ogni studentessa e studente e una dimensione interculturale in ogni istituto. Sono anche sviluppati focus sul sistema integrato di educazione e istruzione da 0 a 6 anni, sull’insegnamento trasversale dell’educazione civica, sulla cittadinanza e le nuove generazioni, sull'insegnamento della lingua italiana e la valorizzazione del plurilinguismo[193].
Tali iniziative si muovono in linea con le indicazioni della Conferenza Globale dei Ministri dell’Istruzione[194], organizzata su iniziativa del Segretario generale delle Nazioni Unite e della Direttrice generale dell’UNESCO per sostenere la battaglia contro l’incitamento all’odio fuori e dentro i social media. Nel documento conclusivo, si rileva l’opportunità, tra le altre, di affrontare l'incitamento all'odio attraverso interventi trasversali e incoraggiando pedagogie e approcci che promuovono la diversità e le molteplici prospettive, nonché lo sviluppo di attività extracurriculari. Per fare ciò, i Ministeri dell’istruzione sono stati invitati ad assumere un ruolo guida nel portare avanti e attuare questi impegni a livello nazionale e regionale, sviluppando tabelle di marcia nazionali e regionali per un'attuazione efficace, attraverso un processo consultivo inclusivo e partecipativo con gli stakeholder governativi e non, e con particolare attenzione alla partecipazione significativa di persone e gruppi emarginati, vulnerabili e/o presi di mira dal discorso d'odio.
A questo proposito, è emerso come l’associazione "Fare X Bene" Onlus negli ultimi due anni ha incontrato numerosi studenti, coinvolgendoli in percorsi multidisciplinari contro ogni forma di stereotipo, abuso e violenza di genere[195].
«Il tema del fare scuola si connette al tema dell'apprendimento», ovvero alle modalità attraverso le quali l'essere umano acquisisce conoscenze che si sostanziano nel «confronto critico con il fatto di realtà»[196]. È per questo che le problematiche derivanti dai discorsi d'odio, pur trovando centralità nell'ambito dei percorsi educativi di natura scolare, possono trovare una soluzione nella cura delle fragilità sociali, evitando la frantumazione dei princìpi dell'ambiente che circonda l'ambito educativo. Formazione dell'uomo e formazione del cittadino rappresentano un binomio che deve far progredire insieme gli elementi razionale e sociale della natura umana. In questo progresso, il linguaggio acquisisce un elemento di centralità: oltre a essere razionalità, è anche socialità, cioè la maniera attraverso cui questa razionalità si trasforma in legami sociali. E come tale, è necessario e assolutamente indispensabile che un'educazione pubblica se ne occupi[197].
L'odio e il linguaggio ad esso collegato, come detto, nascono principalmente nei luoghi dove è maggiore la povertà educativa e materiale. Il PNRR può rappresentare a tal riguardo uno snodo importante, anche in virtù delle ingenti risorse "poste in essere", soprattutto per avere più scuole, più inclusione, più mense, più palestre, più tempo pieno, più vita collettiva e socialità. Strumenti che consentano di aggredire la dispersione scolastica, maggiormente evidente nel rapporto tra Nord e Sud del Paese. In questa dimensione, assumono particolare significato i Patti educativi di comunità, che devono essere radicati nel territorio e costituiti dai diversi soggetti che lo animano[198].
È evidente, pertanto, come il valore educativo al rispetto della dignità umana, che passa anche mediante un uso consapevole delle parole, dette o scritte attraverso i media digitali, attraversa trasversalmente i diversi ambiti della società. Infatti, «oltre alla dimensione repressiva lo strumento più efficace per riuscire a contrastare, in un'ottica preventiva, l'odio digitale e i fenomeni di intolleranza e di discriminazione sia proprio […] l'educazione all'inclusione, alla condivisione e alla conoscenza consapevole del web»[199]. È, infatti, anche attraverso strumenti di apprendimento non formali che può essere rafforzata la qualità dei percorsi formativi. Tra di essi, merita un opportuno richiamo il Servizio civile universale gestito dal Dipartimento per le politiche giovanili, il quale è stato recentemente reindirizzato anche nella direzione di "servizio civile digitale" - quale progettualità interna al PNRR - al fine di «privilegiare un'attività di educazione non formale come quella del volontariato che permetta però ai ragazzi di acquisire delle competenze e di capire come questi strumenti possano essere utilizzati in maniera funzionale, privilegiandone i lati positivi e riducendone rischi e pericoli all'interno delle attività di reskilling e upskilling previste nel Next generation EU»[200].
Un ulteriore tassello in direzione della prevenzione dell'odio che rischia in molti casi di sfociare in violenza fisica o psicologica, è il consorzio Safer Internet Centre - Generazioni connesse (SIC)[201], una partnership di cui fanno parte, tra gli altri, la Polizia postale e il Ministero dell'istruzione. Il SIC si è mosso in linea generale su due attività di macro-area, una di sensibilizzazione e informazione, l'altra di supporto. Per quest'ultima, va evidenziato, il consorzio si è dotato di alcuni strumenti quali l'help line e le linee di segnalazione, che nel 2019-2020 hanno complessivamente trattato circa 11.700 casi, riguardanti cyberbullismo, discorsi d'odio, sexting, contenuti illegali online, tra i quali la pedopornografia[202].
Parimenti alle istituzioni scolastiche, le università rappresentano un imprescindibile luogo di socialità, crescita, formazione, conoscenza per le giovani generazioni. Anche in esse, il contrasto alla violenza è al centro di ogni intervento didattico e di ricerca, da promuovere attraverso misure e attività di valore educativo e scientifico[203].
In primis, va segnalata l'Academic Network UN.I.RE contro la violenza di genere[204], che ha l’obiettivo di attuare la "Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne e la violenza domestica" (Convenzione di Istanbul) nelle parti dedicate alla formazione, alla ricerca, alla raccolta dati e alla sensibilizzazione della società nell'ottica di affermare una cultura del rispetto delle identità di genere.
Il Ministero dell'università e della ricerca - con la finalità di poter presentare una panoramica complessiva sulle questioni della presente indagine - ha svolto un'analisi al fine di verificare le diverse misure adottate nelle università. L'analisi è avvenuta (tra il 20 gennaio e il 10 febbraio scorsi) attraverso la somministrazione di una scheda contenente tre quesiti: 1) fenomeni rilevanti; 2) attività; 3) proposte. È stata inviata a tutti gli atenei, grazie anche alla collaborazione della rete dei comitati di garanzia (CUG), ai gruppi di lavoro CRUI, ai centri di ricerca, ai professori e ricercatori (anche individualmente). Hanno partecipato alla rilevazione anche l'Osservatorio antisemitismo, il Centro di documentazione ebraica contemporanea, la Conferenza nazionale degli organismi di parità e UNIPACE (che fa capo al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale). Dal questionario è emerso che la quasi totalità degli atenei è impegnata in attività di contrasto all'antisemitismo e alle discriminazioni in genere. Le azioni, in particolare, sono rivolte alla costruzione di università inclusive e sostenibili, in un momento di forte trasformazione delle conoscenze. Inoltre, tutte le misure di prevenzione e contrasto coinvolgono i tre principali soggetti del sistema, ovvero i docenti, il personale tecnico-amministrativo e gli studenti, sia nella fase deliberativa sia in quella di controllo. L'analisi fa emergere, inoltre, alcune importanti proposte, come la necessità di un maggiore coordinamento, di un rafforzamento delle azioni in atto mediante lo scambio di buone pratiche e nuovi piani di sviluppo connessi alla prospettiva della sostenibilità e al rafforzamento del benessere collettivo, soprattutto nella fase post pandemia.
Le attività di contrasto ai fenomeni legati all'istigazione e ai discorsi d'odio riguardano azioni rivolte all'interno e all'esterno del mondo accademico e si concretizzano in sei linee di intervento:
1) segnalazioni (di atti di violenza e intolleranza, e le relative conseguenze disciplinari); 2) servizi dedicati; 3) formazione degli studenti; 4) attività di ricerca, attraverso tesi di dottorato e progetti scientifici; 5) sensibilizzazione e comunicazione con i livelli territoriali, con le scuole; 6) proposte per nuove azioni.
In particolare, sul punto 1), nell'ambito dell'antisemitismo, è stato registrato un solo episodio nel 2021 all'interno di università, mentre nel 2019 è stato sollevato un docente per propaganda antisemita con destituzione della cattedra e sospensione dello stipendio. Per quanto riguarda il razzismo, alcuni atenei hanno rilevato che (anche solo occasionalmente) esso risulta percepito nella comunità, rilevando atteggiamenti di un diverso trattamento nei confronti di studenti migranti. Allo stesso tempo, sono stati individuati fenomeni di sessismo e omotransfobia, sia nei confronti di studenti sia di docenti. Nel complesso, si ricorda che ogni ateneo è dotato di un codice etico e di comportamento e di organismi deputati al controllo e al rispetto dei princìpi generali (il Comitato unico di garanzia, che valorizza i diritti della persona, contro discriminazioni e ogni forma di violenza; i delegati del Rettore per il welfare e le pari opportunità; il consigliere di fiducia, professionista indipendente che fornisce consulenza e assistenza a soggetti vittime di violenza, mobbing; servizi specifici per disabilità e disturbi dell'apprendimento; sportelli di ascolto e di consulenza psicologica, rivolti soprattutto agli studenti con maggiori difficoltà; sportelli antiviolenza, in collaborazione con i relativi centri).
Molte università italiane hanno aderito al Manifesto dell'Università Inclusiva[205], promosso su iniziativa dell'UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, volto a favorire l’accesso dei rifugiati all’istruzione universitaria e a promuovere l’inclusione sociale e la partecipazione attiva alla vita accademica.
L'impegno contro il linguaggio d'odio rappresenta un filone importante di iniziativa da parte degli atenei, in particolare sotto il profilo della ricerca scientifica nelle sue molteplici sfaccettature, con positivi riscontri nella pubblicistica nazionale e internazionale. Non meno importanti sono le iniziative nell'ambito della terza missione che le università sono tenute a svolgere, in rapporto con il territorio e attraverso la comunicazione con l'esterno, costruendo un proficuo rapporto con la società civile.
Emerge, infine, da parte degli atenei italiani la necessità di rendere maggiormente esplicativo il protocollo per le segnalazioni, aumentando il raccordo con le associazioni degli studenti al fine di un più positivo monitoraggio delle casistiche. Gli stessi propongono quindi un rafforzamento dell'analisi e degli interventi contro il linguaggio d'odio a livello sociale, culturale, informatico e istituzionale, mediante la progettazione di linee guida condivise e capaci di saldare didattica e ricerca con il dibattito pubblico e culturale. La finalità è pertanto quella di far sì che l'università sappia orientare le proprie azioni verso una cultura inclusiva, anche alla luce delle conseguenze provocate dalla pandemia[206].
Lo sviluppo di consapevolezza individuale e collettiva è lo strumento più efficace nel contrasto ai discorsi d’odio; per questo occorre, oltre che guardare a scuola e università, incoraggiare le autorità a investire nella formazione delle forze dell’ordine e della magistratura[207]. Occorre formare la Polizia giudiziaria perché sia capace di accertare i fenomeni: la maggior parte delle volte i reati d’odio si scoprono attraverso la denuncia della persona offesa. Ma se non c’è la denuncia della persona offesa è quasi impossibile intercettare questi delitti. Occorre quindi che la Polizia giudiziaria si formi per compiere lo sforzo di cogliere i reati, che a volte sono anche perseguibili d’ufficio, e segnalarli all’autorità giudiziaria a prescindere dalla denuncia della persona offesa[208].
È stato segnalato che quando parliamo di sviluppo, di educazione, di cultura, c'è un lato fondamentale che concerne la formazione permanente della Magistratura attraverso appositi corsi finalizzati a sviluppare una adeguata sensibilità giuridica ma anche una sensibilità di tipo psicologico-sociologico[209]; così come è fondamentale riconoscere l’importanza della formazione deontologica dei giornalisti per l’utilizzo di un linguaggio appropriato[210], in funzione della creazione di una consapevolezza linguistica finalizzata all’inclusione e al benessere della persona e della società[211].
Conclusioni
L’indagine conoscitiva sulla natura, cause e sviluppi recenti del fenomeno dei discorsi d'odio, con particolare attenzione alla evoluzione della normativa europea in materia è lo strumento principale intorno al quale la Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza ha svolto i propri lavori. Da giugno 2021 ad aprile 2022, si sono tenute quasi cento audizioni, con la volontà di offrire uno sguardo ampio, all'altezza della latitudine dei problemi. Sono stati ascoltati esperti in molti e diversi campi: giuristi, economisti, linguisti, analisti sociali, studiosi delle dinamiche della rete, operatori della comunicazione, associazioni, istituzioni nazionali e sovranazionali, rappresentanti del governo italiano e della Commissione europea. Una pluralità di voci ed una molteplicità di punti di vista che ha portato alla composizione di un mosaico organico ed unitario intorno ad alcune questioni dirimenti.
Molta parte del lavoro si è concentrata sul tema della tutela dei diritti fondamentali, in particolare dei soggetti vittime di discorsi d'odio. Un tema che investe il rapporto tra multinazionali digitali e democrazia. Viviamo - nel tempo di oggi – dentro un contesto sociale sempre più plasmato dalle piattaforme digitali, che si configurano come molto più di un mezzo di comunicazione e sempre più come forma sociale totalizzante spinta dalla continua rivoluzione tecnologica. Rispetto ad altre fasi storiche, ciò che oggi appare peculiare è la pervasività dei discorsi d’istigazione all’odio legata alla capacità di propagazione della rete. Oggi questo tema è ampiamente riconosciuto come il più urgente.
Non vi è dubbio che esista una libertà di odiare, che attiene alla sfera dei sentimenti ed è fuori dai confini di questa indagine. Ma questa libertà va distinta dai discorsi d’odio. Cosa sia un discorso d’odio è una delle domande centrali dell'indagine. I tentativi definitori a livello internazionale ed europeo che sono stati vagliati e analizzati ci consegnano, da un lato, un contenuto minimo del discorso d’odio e, dall’altro, la difficoltà di giungere a una definizione univoca e giuridicamente rilevante, a causa delle differenti sensibilità culturali e giuridiche dei vari Paesi.
La letteratura giuridica è concorde nel definire il discorso d’odio come una forma di incitamento all'odio e alla discriminazione che abbia come destinatario un soggetto o un gruppo appartenente a una categoria bersaglio, o target, in virtù di colore della pelle, etnia, religione, nazionalità, disabilità, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, condizioni personali e sociali. È emersa la difficoltà, per mancanza di strumenti adeguati alle molteplici complessità del fenomeno, di mappare per intero la gravità dei discorsi d’odio, ‘una gigantesca onda’ come è stata definita durante le audizioni. Si tratta di un fenomeno certamente sottostimato, data la difficoltà delle vittime di crimini d’odio di denunciare(under-reporting) e la difficoltà del soggetto pubblico che riceve la denuncia di riconoscere e categorizzare l’istigazione all’odio (under-recording), principalmente per l’assenza di una definizione univoca e di conseguenza per l’assenza di una fattispecie normativa che ne riconosca la specificità.
Questo stato delle cose rende ogni giorno più evidente la necessità di intervento a tutela delle categorie più deboli delle nostre società, così come testimonia con forza la Raccomandazione sul contrasto all’hate speech appena deliberata dal Consiglio d’Europa, adottata dal Comitato dei Ministri il 20 maggio 2022 [CM/Rec(2022)16].
La necessità di contrastare i discorsi d’istigazione all'odio non deve mai scontrarsi o confliggere con la necessità di tutelare la libertà di espressione. Per questa ragione nasce l’esigenza di dettagliare con nettezza il confine tra i discorsi che sono tollerati e quelli che sono intollerabili.
Individuare questo punto di confine è lavoro sicuramente complesso, ma al quale sarebbe gravemente inadempiente sottrarsi. Il costituzionalismo europeo ha tra i suoi princìpi fondanti il rispetto della dignità umana. La tutela della libertà di espressione, fondamentale e irrinunciabile per le nostre democrazie, deve essere sempre bilanciata con il rispetto della dignità della persona; i discorsi d’odio, costituendo un abuso della libertà di espressione, si pongono fuori della sua protezione. Il linguaggio d’istigazione all’odio è un linguaggio discriminatorio, perché impedisce il protagonismo di singole individualità e di intere comunità. È un discorso dai tratti totalitari, che esclude e reprime, incompatibile con la democrazia, che invece ha il compito di includere ed emancipare.
Il linguaggio è uno strumento potente: le parole possono essere utilizzate per emarginare, ferire, etichettare e discriminare gruppi di persone e singoli individui. I significati possono cambiare a seconda del contesto e di chi parla. Le parole possono essere finestre che si aprono al mondo, o barriere che costruiscono muri e respingono. Vittime di questo graduale regresso sono innanzitutto le minoranze, le persone più deboli e fragili della società.
Proprio in virtù del fatto che la questione attiene al delicato rapporto tra differenti princìpi costituzionali, emerge con forza la necessità di avere una definizione di discorsi d’odio che contenga confini ben precisi dal punto di vista giuridico: il discorso d'odio non va confuso con l’ingiuria, la minaccia, le molestie online e offline, il discorso aggressivo, o con altre fattispecie che sono meritevoli di tutela ma hanno altre motivazioni e caratteristiche e richiedono dunque un diverso tipo di trattamento culturale e giuridico.
All'abominio delle leggi razziali volute dal fascismo, emblema assoluto di discriminazione, i padri costituenti della nostra Repubblica risposero con gli articoli della nostra Costituzione. In particolare, gli articoli 2 e 3, che incarnano i princìpi di eguaglianza, di non discriminazione, di rispetto della dignità inviolabile della persona, indicano come compito del legislatore quello di abbattere i muri della diseguaglianza e della discriminazione, di qualunque natura essa sia o da qualunque fattore essa provenga. Questo è il solco entro cui muovono i nostri lavori. La risposta più forte che la politica possa dare contro i discorsi d'istigazione all'odio è in primo luogo attuare la Costituzione, promuovere leggi d'inclusione, che estendano diritti sociali e civili, che sono tutt'uno e si rafforzano vicendevolmente. C’è un nesso tra malessere sociale e utilizzo dei discorsi d’odio che va affrontato.
Oltre che legati a fattori storici e alla permanenza di pregiudizi e stereotipi, i discorsi d’odio sono anche l’indicatore di un’aggressività dovuta alle diseguaglianze e alle fratture del sistema sociale e delle forme culturali, che generano spaesamento e, talvolta, una rabbia cieca contro l’altro. È fondamentale intervenire per contrastare le cause sociali e culturali che favoriscono il fenomeno anche attraverso l'attuazione delle strategie già elaborate su antisemitismo, rom e donne.
La necessità di trovare un nuovo e più adeguato bilanciamento nella tutela dei diritti, innanzitutto tra libertà di espressione e rispetto della dignità inviolabile della persona umana, riguarda da vicino il terreno delle questioni economiche, della coesione sociale, della tenuta civile e democratica delle nostre società. È stato segnalato durante i lavori dell'indagine come gli studi più recenti abbiano proposto di inquadrare i discorsi d'odio non solo come una lesione della dignità della persona offesa ma anzitutto come una limitazione della sua libertà di espressione. La vittima di istigazione all’odio, infatti, è impossibilitata ad esprimere sé stessa. In quest’ottica, contrastare i discorsi di istigazione all’odio significa innanzitutto tutelare la libertà di espressione del soggetto debole aggredito nei confronti dell’abuso di libertà di espressione del soggetto che compie l'aggressione. Una prospettiva, quest'ultima, che pone tutta la discussione nell'alveo della libertà d'espressione.
Si tratta di un punto di vista acquisito anche dalla Commissione europea che, nel Piano d'Azione dell'UE contro il razzismo 2020-2025 [COM(2020) 565], sottolinea la presenza di ostacoli alla partecipazione e alla rappresentanza democratica per i gruppi a rischio di emarginazione, come le persone appartenenti a minoranze. Allo stesso modo, nel Piano d’Azione per la democrazia europea [COM(2020) 790], la Commissione europea si impegna a compiere ulteriori sforzi nella lotta contro l'incitamento all'odio online, considerato fattore che impedisce e dissuade le persone dall'esprimere le proprie opinioni e dal partecipare alle discussioni in rete, e dunque configurandosi come causa di violazione dei diritti umani fondamentali.
L'impossibilità delle minoranze di esprimersi, come emerge dall'approccio della Commissione europea, costituisce un problema che va ben al di là dei singoli – seppur numerosi – episodi di discriminazione e istigazione all’odio, inserendosi in un più ampio contesto generale segnato dall’avvento della rete e dei social network, determinando così contraccolpi massicci sul funzionamento delle nostre democrazie. Un tema dalle innumerevoli implicazioni, che riguarda il rapporto tra multinazionali digitali e sistemi democratici. Più volte, nel corso dei lavori dell’indagine, è emerso problematicamente il nesso tra diffusione online dei discorsi d’odio e modello di business delle piattaforme, e quindi tra sviluppo tecnologico e interessi economici.
Sotto molti aspetti il web è tra i beni più comuni più importanti della nostra epoca. Ne conosciamo le straordinarie potenzialità in termini di crescita economica e sociale, di cittadinanza, protagonismo, partecipazione democratica e libertà di espressione: opportunità impensabili solo fino a pochi anni fa. Accanto a queste ci sono però rischi altrettanto grandi: da inediti problemi di convivenza civile fino a forme di privatizzazione del diritto. La rete – nelle audizioni – è stata descritta come uno spazio di libertà, potenzialmente accessibile a tutti, che però può diventare un luogo di distorsioni cognitive, di comportamenti di gruppo patologici, in cui si può rimanere intrappolati e che sfociano sempre più frequentemente nell'aggressività verso l'altro da sé, ingenerando "banalizzazione" dei discorsi discriminatori e deresponsabilizzazione alimentata dallo schermo dell'anonimato. Allo stesso tempo il gigantesco potere privato delle piattaforme, arbitrario e discrezionale, insiste su materie che sono l'essenza stessa della democrazia: il potere di decidere in merito ai contenuti da pubblicare, il potere di far emergere alcuni contenuti a discapito di altri. A tal proposito, ha affermato con grande lucidità l'Alto Commissario ONU per i rifugiati, Michelle Bachelet: «Devono essere le persone a decidere, non gli algoritmi». Questo gigantesco potere privato va ricondotto all'interno di norme costituzionali, entro cornici definite dalle assemblee legislative democraticamente elette. Non si è in presenza di questioni che riguardano il "politicamente corretto". Si tratta in pieno della qualità e dello stato di salute delle nostre democrazie.
L'indagine si è concentrata sulla capacità delle piattaforme di fare da moltiplicatore dei discorsi d’odio, sul peso che nella loro diffusione hanno gli algoritmi, le camere d’eco e i tentativi di moderazione, analizzando in particolare il tentativo regolatorio dell’UE attraverso il DSA. Il Regolamento ha l’obiettivo di costruire nell’Unione europea una regolamentazione effettiva delle piattaforme digitali, contrastando le attività illegali in rete e definendo le responsabilità dei fornitori di servizi online. Un impianto fondato su regolamentazione e responsabilità delle piattaforme che supera decisamente ed archivia di fatto la fase della esclusiva autoregolamentazione che dagli anni Novanta ad oggi si era imposta nel vuoto normativo. Un intervento che nasce da un dibattito pubblico e politico presente in ogni democrazia, in particolare in Europa, ma apertosi ormai da anni anche negli Stati Uniti d’America. Il DSA si configura come un primo tentativo di armonizzare la normativa europea in un settore cruciale. Rappresenta un significativo passo avanti nella capacità di una procedimentalizzazione unitaria per tutti gli Stati membri dell'iter da seguire in caso di contenuti illeciti. Tuttavia, per la loro individuazione, il Regolamento europeo rimanda alle legislazioni nazionali. Di conseguenza, se permanesse l’assenza di una definizione di discorso d’odio nell’ordinamento italiano ciò renderebbe di fatto inefficace, sul versante di pertinenza dell’indagine conoscitiva, l’applicazione del Regolamento nel nostro Paese. Una questione che potrebbe essere risolta laddove fosse accolta la proposta di modifica all'articolo 83 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che mira a includere i reati d'incitamento all'odio e i crimini ispirati all'odio tra i reati di rilevanza europea. Si tratta - come ricordato dalla ministra della giustizia Marta Cartabia - di una modifica molto importante, perché l'Unione europea ha finora una competenza limitata in materia penale e prevede reati europei solo per forme di «criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni».Ad oggi, per avere un termine di paragone, i reati dell'Unione europea sono il terrorismo, la tratta degli esseri umani, lo sfruttamento sessuale, la corruzione e la criminalità organizzata. La volontà manifestata dagli Stati membri di inserire nell'articolo 83 i reati d'odio è un passo decisivo, ispirato dalla consapevolezza che questi reati minano i valori su cui si fonda l'Unione europea.
E' da seguire con attenzione il dibattito apertosi a livello europeo sul tema del contrasto alle discriminazioni e della tutela dei diritti di libertà e della dignità dei singoli e dei gruppi, in relazione al cosiddetto "principio di condizionalità".
La principale risultanza dei lavori dell'indagine è la richiesta al Parlamento di un intervento normativo urgente. Nell'attesa che a livello sovranazionale si giunga ad una definizione giuridicamente vincolante dei discorsi d’odio, i lavori della Commissione hanno mostrato la necessità di intervenire nell’ambito del diritto interno. È necessaria una forte e condivisa iniziativa politica e legislativa, intorno ad alcune misure dirimenti che possono essere messe in campo per contrastare la diffusione dei discorsi d’odio.
In primo luogo servono strumenti per garantire una adeguata conoscenza del fenomeno. La scarsità dei dati che riguardano i discorsi d’odio comporta la necessità di una raccolta dati più mirata sui crimini d'odio e sugli incidenti e che sia prevista per legge l'obbligatorietà della rilevazione delle principali forme di discriminazione con continuità da parte dell'Istituto nazionale di statistica, per consentire il monitoraggio dei fenomeni, ripetendo ogni tre anni l'indagine sulle discriminazioni condotta nel 2011 dall'Istat e prevedendo al suo interno una serie di quesiti specifici sui crimini d'odio.
Sono necessarie norme a maggiore tutela alle vittime di discorsi d'odio, a partire dal garantire lo strumento del patrocinio a spese dello Stato - previsto nei procedimenti civili e penali che vertono sui diritti della persona e in tema di crimini ed illeciti legati all’odio - a prescindere dai requisiti reddituali.
Soprattutto scaturisce dai lavori della Commissione la richiesta di acquisire una definizione giuridica di discorsi d'odio nel nostro ordinamento: l’intervento del legislatore nazionale, in attesa che si compia il processo definitorio a un livello istituzionale superiore, può consentire di rispondere in modo efficace a molteplici esigenze che sono emerse prepotentemente nel corso delle audizioni.
Avere una definizione di discorsi d'odio vuol dire rendere più semplice il lavoro degli operatori di polizia che devono raccogliere le denunce; vuol dire rendere più semplice l'attività interpretativa che i giudici devono compiere nel momento in cui si trovano a giudicare l'istigazione all'odio, almeno nella forma ristretta attualmente prevista nel nostro codice penale; vuol dire, nel settore della giustizia civile, individuare quelle molestie dovute a discorsi d’odio che determinano un diritto a un risarcimento; vuol dire, nelle attività di istruzione e formazione, in particolare nei percorsi scolastici - individuate nella nostra relazione come momento imprescindibile per combattere i discorsi d’odio - avere una traccia su come queste attività debbano svolgersi. Avere una definizione giuridica vincolante di discorsi d'odionel nostro ordinamento vuol dire, soprattutto, rendere effettiva la tutela, in tema di istigazione all’odio online, del DSA, quando esso sarà in vigore.
Alla luce di tutto questo, come emerso con evidenza dalle risultanze dei lavori dell'indagine, si ritiene necessario che il Parlamento italiano promuova l’introduzione di strumenti normativi specifici relativi all’odio online e alla regolazione della rete, rimarcando che in assenza di un intervento pubblico rimane solo lo strapotere di soggetti privati che finiscono per stabilire "chi può dire cosa" sulle ‘loro’ piattaforme.
La recente Raccomandazione del Consiglio d'Europa indica ai Parlamenti europei la necessità di intervenire con urgenza con una legge a tutela della libertà di espressione e delle minoranze vittime dei discorsi d'odio.
Il crimine d’odio è un reato, non un’opinione, non una manifestazione di pensiero.
L’istigazione all’odio non ha niente a che fare con la libertà di espressione, anzi ne è la negazione.
È una libertà che si autodistrugge – come è stato affermato – perché impedisce ad altri di parlare e di esistere. I discorsi d’odio costituiscono oggi più che mai un inedito strumento di diseguaglianza e di ingiustizia. Hanno effetti distorsivi, con il rischio di una regressione nello spirito pubblico e nei livelli di civiltà. Il più efficace modo di contrastare i discorsi d’odio e la disinformazione strumentale che alimenta stereotipi e pregiudizi che spesso ne sono l’anticamera, è la diffusione di cultura, conoscenza, riconoscimento reciproco, dialogo, scambio di idee e di esperienze.
Da qui la richiesta di un intervento normativo per una definizione di discorsi d'odio, che permetta di contrastare efficacemente un fenomeno che può erodere le basi della nostra democrazia.
Tutto questo, nei giorni drammatici segnati dall’esplosione della guerra in Europa, è ancora di più urgente e necessario. La guerra, più ancora di razzismo e fondamentalismo, è strumento di istigazione all’odio, di discriminazione, di annientamento dell’identità, della libertà, della dignità umana.
Solo dove libertà, dignità ed eguaglianza vivono insieme, allora può vivere lo stato di diritto.