AFFARI COSTITUZIONALI (1ª)

MERCOLEDI' 24 OTTOBRE 2001
42ª Seduta (pomeridiana)

Presidenza del Presidente
PASTORE


La seduta inizia alle ore 15,40.


SULLA PUBBLICITÀ DEI LAVORI

Il presidente PASTORE rammenta il regime di pubblicità dei lavori già adottato nella precedente audizione, che propone di estendere a quella che sta per iniziare, avendo acquisito in proposito il consenso preventivo del Presidente del Senato.

La Commissione consente.

PROCEDURE INFORMATIVE

Seguito dell'indagine conoscitiva sugli effetti nell'ordinamento delle revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione: audizione del professore Vincenzo Caianiello.


Dopo un'introduzione del presidente PASTORE, ha la parola il professor CAIANIELLO che svolge le proprie considerazioni.

Seguono le domande dei senatori MANZELLA, DEL PENNINO, VILLONE, IOANNUCCI, GUERZONI e FISICHELLA.

Risponde il professor CAIANIELLO.

Il presidente PASTORE ringrazia infine il professor Caianiello e lo congeda, dichiarando conclusa l'audizione.

Il seguito dell'indagine conoscitiva è quindi rinviato.

La seduta termina alle ore 17,30.

INDAGINE CONOSCITIVA
SUGLI EFFETTI NELL’ORDINAMENTO DELLE REVISIONI DEL TITOLO V DELLA PARTE II
DELLA COSTITUZIONE

3º  Resoconto  stenografico

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 24 ottobre 2001

(Pomeridiana)

Presidenza del presidente PASTORE

INDICE

Audizione del professor Vincenzo Caianiello

    PRESIDENTE
 
 Pag. 3, 9, 10  e  passim

    DEL PENNINO (Misto-PRI)
 
10

    FISICHELLA (AN)
 
15, 16, 17  e  passim

    GUERZONI (DS-U)
 
15, 16, 17  e  passim

    IOANNUCCI (FI)
 
14

    MANZELLA (DS-U)
 
9, 10

    VILLONE (DS-U)
 
12, 17, 19

    CAIANIELLO
 
 Pag. 3, 19, 23


        N.B. – L’asterisco indica che il testo del discorso è stato rivisto dall’oratore.

        N.B:
Sigle dei Gruppi parlamentari: Alleanza Nazionale: AN; CCD-CDU:Biancofiore: CCD-CDU:BF; Forza Italia: FI; Lega Nord Padania: LNP; Democratici di Sinistra-l’Ulivo: DS-U; Margherita-DL-l’Ulivo: Mar-DL-U; Verdi-l’Ulivo: Verdi-U; Gruppo per le autonomie: Aut; Misto: Misto; Misto-Comunisti italiani: Misto-Com; Misto-Rifondazione Comunista: Misto-RC; Misto-Socialisti Democratici Italiani-SDI: Misto-SDI; Misto-Lega per l’autonomia lombarda: Misto-LAL; Misto-Libertà e giustizia per l’’Ulivo: Misto-LGU; Misto-Movimento territorio lombardo: Misto-MTL; Misto-Nuovo PSI: Misto-NPSI; Misto-Partito repubblicano italiano: Misto-PRI; Misto-MSI-Fiamma Tricolore: Misto-MSI-Fiamma.

        Interviene il professor Vincenzo Caianiello.

        I lavori hanno inizio alle ore 15,40.

PROCEDURE INFORMATIVE
Audizione del professor Vincenzo Caianiello

        PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione, sospesa nella seduta antimeridiana.

        Oggi pomeriggio è in programma l’audizione del professor Vincenzo Caianiello.
        Vorrei ringraziare il nostro ospite, il quale si è dichiarato disponibile, così come coloro che lo hanno preceduto, i professori Elia e Baldassarre, oltre che a fornire un suo contributo scritto, ad intervenire per una audizione in Commissione. Tale formula è quella più adatta, anche se forse la più impegnativa, per affrontare i tanti temi e problematiche che ci troviamo di fronte.
        Al termine del suo intervento seguiranno le domande dei commissari. In caso di difficoltà nel conciliare i nostri tempi con quelli dei lavori dell’Aula, ad alcune domande il professor Caianiello potrà dare risposta anche per iscritto.

        CAIANIELLO. Signor Presidente, ringrazio lei e la Commissione per l’onore che mi è stato concesso di venire qui a dare quei pochissimi lumi che potrò fornire, peraltro fiochi anche per me stesso. Vorranno quindi scusarmi se non sarò in grado di corrispondere alle loro aspettative.

        Vorrei esordire soffermandomi sul rapporto tra il Titolo V della Costituzione che, per facilità, chiamerò seconda parte, ed il Titolo I, che chiamerò prima parte. Come era stato rilevato anche in occasione dei lavori della Bicamerale, era inevitabile che intervenendosi solo sulla seconda parte della Costituzione nascessero contrasti con la prima parte, perché ci sono delle norme di difficile coordinamento tra loro. L’articolo 5 della Costituzione recita: «La Repubblica, una ed indivisibile, ........», per cui l’unità e l’indivisibilità della Repubblica è un dato presupposto e non un carattere che deriva dalla Costituzione, perché l’articolo 5 non dice che la Repubblica è una e indivisibile. Non è perciò la Costituzione la fonte di questa unità, ma essa dà per scontato un modo di essere già esistente nella realtà, per cui si limita a registrarlo, proseguendo poi nel testo evidenziando l’esigenza di riconoscere e promuovere le autonomie locali.
        Tale articolo è divenuto perciò di difficile coordinamento con il nuovo articolo 114, il quale ingenera l’impressione di una diffusione, di una compartecipazione o, peggio, di una dispersione, della sovranità dello Stato. Come se non mancassero tutte le altre dispersioni della sovranità, dovute ad altri eventi, anche positivi, come quello, per esempio, della nostra partecipazione all’Unione europea. Qui invece si genera un’erosione della sovranità mediante diffusione su altri enti politici, quali sono i comuni, le provincie e le città metropolitane (fantomatiche, perché non si sa se verranno mai ad esistenza).
        Nel precedente testo della Costituzione, Stato e Repubblica erano termini adoperati in senso alternativo come sinonimi. Si diceva Repubblica per dire Stato e viceversa. Si diceva leggi dello Stato per contrapporle a leggi delle Regioni; si diceva leggi della Repubblica per contrapporle a leggi delle Regioni. Oggi quindi lo Stato, identificato con la Repubblica, concepito come Stato ordinamento, non ha più questa qualificazione. E questo suo modo di essere all’interno, credo lo indebolisca all’esterno perché – come si sa – per come lo Stato si atteggia al suo interno, così appare verso l’esterno. Per cui, per esempio, il Presidente della Repubblica non si potrebbe più chiamare Capo dello Stato se lo vogliamo anche indicare come Capo di tutte le altre entità. A meno che non si voglia accettare l’idea che il Capo dello Stato sia Capo solo di una parte della Repubblica.
        Può anche darsi che queste siano soltanto delle sottigliezze, però non escludo che un giorno qualcuno potrebbe eccepire ai rappresentanti dello Stato apparato, considerato ormai soltanto una delle componenti, che essi non rappresentano più la Repubblica, non rappresentano più l’unità nazionale. Infatti le regioni (parliamo solo di esse), siccome hanno loro specifiche competenze legislative – e come si è detto sembrerebbero condividere il potere sovrano con lo Stato – potrebbero, per quel che concerne le loro materie, essere ritenute rappresentative della Repubblica; non potremo quindi più dire che i nostri ambasciatori rappresentino solo lo Stato, perché dovrebbero agire anche in nome delle regioni. Questo varrebbe anche per quanto riguarda la stipula di accordi internazionali, anch’essi previsti, da parte delle regioni.
        Non vado oltre ma ribadisco che vedo molte difficoltà di ordine sistematico e di raccordo del Titolo V con la prima parte della Costituzione, tuttora fortunatamente in vigore e che dovrebbe prevalere sulla seconda.
        L’argomento d’ordine sostanziale che più viene in evidenza è poi il capovolgimento delle competenze rispetto alla tradizionale elencazione delle materie regionali e alla residualità delle materie dello Stato. Sappiamo che tale formula venne proposta già all’epoca della commissione De Mita-Iotti, venne riproposta nella Bicamerale e adesso è stata recepita nel nuovo testo. È un modo come un altro per distribuire la potestà legislativa – perché di questo parla l’articolo 117 della Costituzione – tra il Governo centrale e i governi locali, il che però in questa forma si spiega più in una concezione di Stato federale in senso proprio, che cioè nasce dall’aggregazione di un insieme di entità politiche originariamente separate che delegano ad uno Stato federale alcune competenze di cui sono titolari. Così accadde anche con la Costituzione americana, quando fu scritta nel 1786. Ci fu l’esigenza di dire: «Noi che siamo titolari di tutti i poteri cediamo questi allo Stato federale».
        Nel nostro caso inoltre vi è difficoltà di operare il raccordo del nuovo articolo 117 con l’articolo 5 della Costituzione (che per fortuna costituisce un’ancora di salvezza), da cui le autonomie nascono come poteri locali derivati: potremmo avere il massimo dell’autonomia di quei poteri, ma non potranno mai essere concepiti come poteri propri che si amalgamano poi con quelli dello Stato. Ripeto, perciò, che c’è una difficoltà di raccordo dell’articolo 117 con l’articolo 5. Queste difficoltà non sono prive di conseguenze quando si vanno a interpretare le norme successive.
        Se fossi chiamato da qualcuno a districare la materia, a stabilire, anche solo con approssimazione dopo le riforme, che cosa debba fare lo Stato e cosa le regioni non nasconderei la mia indecisione e rifiuterei questo incarico. Non essendovi tenuto allo stato da alcun obbligo istituzionale, avrei molte difficoltà a stabilire come si possa discriminare tra loro, per esempio, quando passiamo alla legislazione concorrente in materia finanziaria, che impone l’armonizzazione della materia, sulla quale si diceva finora che con l’articolo 119 vecchia maniera, quella degli enti locali era pur sempre una finanza derivata. Adesso diventa una finanza autosufficiente. Tra l’altro, non vi nascondo che non ho capito molto bene perché al quarto comma del nuovo articolo 119 si dice: «Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono...»; sarebbe stato meglio usare le parole: «debbono consentire», mentre questo «consentono» sembra indicare un dato scontato già esistente nella realtà, quando invece si tratta di stabilire in che modo le risorse si debbano distribuire al punto da consentire l’autonomia di bilancio e finanziaria.
        Sempre per quanto concerne la legislazione concorrente in materia finanziaria, laddove si parla di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, viene in evidenza il sistema tributario. Ora, non soltanto io ma anche altri hanno fatto la seguente osservazione: è difficile che avvenga un’armonizzazione in una sede che non sia unitaria, nella quale cioè le parti trovino l’armonia per dettare delle regole. Non so da chi è stato già rilevato che ciò troverebbe una sua logica in un sistema di autonomie. Non uso il termine «federale», che ritengo in contrasto con l’articolo 5 della Costituzione e, fino a quando esso non sarà eliminato (se possa esserlo, essendo un principio supremo della nostra Costituzione), non vi è un luogo nel quale l’armonizzazione come confronto politico possa avvenire a livello di poteri garantiti costituzionalmente, e non da una legge ordinaria come lo è quella che prevede un organo di raccordo tra le regioni che, non essendo previsto in Costituzione, non ha il potere di dare indicazioni cogenti per le regioni. Queste ultime, infatti, ora possono legiferare in piena autonomia, non possono essere condizionate da determinazioni estranee ai loro consigli regionali, mentre potrebbero esserlo solo in base ad un meccanismo che non saprei dove collocare nella gerarchia delle fonti) che risolva in prevenzione il conflitto.
        Ebbene, fino a quando non ci sarà quella Camera delle regioni che io vedo di difficilissima attuazione, non ci sarà una sede politica di raccordo fra Stato e regioni. Ricordiamo che presso la Bicamerale, si cominciò a discutere della possibilità di sopprimere il Senato per riconoscere – così come avviene per il
Bundesrat tedesco – un rango parlamentare alla Camera delle regioni; non si poteva infatti pensare di istituire una terza Camera e quindi bisognava sopprimerne una delle due. Fu allora subito evidente che sarebbero sorti seri problemi con l’uno o l’altro ramo del Parlamento, e il sistema sarebbe andato incontro a serie difficoltà. Io ho manifestato anche pubblicamente le mie idee contro questa riforma senza una Camera delle regioni, ma mi si rispondeva che si sarebbe creata dopo, quando tutti coloro che facevano simile affermazione sapevano benissimo che ci sarebbero ostacoli enormi. Infatti, o c’è un atto di rivolgimento totale del sistema, per cui si mandano tutti a casa, arriva il De Gaulle della situazione, il quale in sei mesi conserva tutte le libertà, assume poteri straordinari e vara una nuova Costituzione, o con la presenza di un Senato e di una Camera, uno dei quali debba essere soppresso, ritengo estremamente problematica e non percorribile la strada per istituire una sede parlamentare per questo compito. Rischieremmo perciò una forte conflittualità se si ponesse mano a questa riforma.
        Oggi dovrebbe essere ancora lo Stato con una legge cornice a dettare i princìpi fondamentali. In una materia così delicata come quella finanziaria, immaginiamo però come sarà difficile stabilire i confini e porre quei principi che armonizzino la finanza statale con quella regionale.
        Ma intanto le regioni, come dirò fra poco, potrebbero iniziare a legiferare tranquillamente anche se lo Stato non intervenisse con la predeterminazione di princìpi fondamentali per l’armonizzazione. Le regioni potrebbero intanto emanare i propri provvedimenti; e guardate che nella materia finanziaria sarebbe veramente un disastro perché, mentre in altre materie si possono fare degli aggiustamenti, l’economia non perdona. Ci troveremmo quindi di fronte ad un disastro: con un Governo che dovrebbe redigere il Documento di programmazione economico-finanziaria e la legge finanziaria e un Parlamento che dovrebbe approvare quest’ultima, mentre le regioni se ne andrebbero per conto loro, e poi
, a posteriori, una Corte costituzionale, non «attrezzata» a compiere valutazioni di carattere finanziario, chiamata a verificare il merito delle scelte operate per la distribuzione delle risorse dovrebbe stabilire i princìpi per l’armonizzazione, desumendoli da altre leggi.
        Addosseremmo così alla Corte compiti che non le spettano, anche se l’immaginassimo formata da rappresentanti delle regioni, quasi che sia possibile ipotizzare un giudice composto di «rappresentanti» delle parti in causa; questa è veramente una distorsione mentale: neppure nei collegi arbitrali si dice che l’arbitro è rappresentante di una parte. Solo negli organismi conciliativi ci sono tali forme di rappresentanza. L’idea di una futura Corte formata da rappresentanti delle regioni, che necessariamente si contrapporrebbero a quelli dello Stato, cozza contro l’articolo 111 della Costituzione, perchè quello della terzietà del giudice rispetto alle parti è principio generale di qualsiasi processo ed anche di quello costituzionale.
        Così, avremmo una Corte costituzionale formata se mai esclusivamente da rappresentanti delle regioni (abolendo il «ciarpame» vetusto costituito da coloro che vengono nominati dal Presidente Repubblica, dai magistrati e dal Parlamento nazionale) e trasformata in Camera delle Regioni.
        Dimenticando però che in quanto Corte funziona pur sempre con il metodo giudiziario, cioè di prefissione di un parametro di riferimento e di individuazione del caso da decidere per dare alla soluzione un supporto giuridico. La funzione di armonizzazione è invece di per sé politica; essa suppone la possibilità di disporre discrezionalmente dell’oggetto del contendere, cioè per dettare una politica composizione degli interessi, che appunto in altri ordinamenti, come quello tedesco, è compiuta in prima battuta dalla Camera dei
Länder e in seconda battuta dal tribunale costituzionale che verifica se in quella sede è stato rispettato il patto federativo o Bundestreu, come viene definito nel diritto tedesco.
        Come potrà allora avvenire da noi l’armonizzazione? Con una competenza ripartita, lo Stato, da una parte, che detta dei princìpi e le regioni, dall’altra, che li debbono applicare? Questo non è certo un modo idoneo per realizzarla. Infatti, nella competenza ripartita o concorrente le regioni sono tenute a rispettare i princìpi fissati dallo Stato e quindi vi è una specie di gerarchia tra essi e la regione, per cui il parametro costituito dal principio fondamentale, se non è stato impugnato per tempo dalle regioni, costituisce una fonte inderogabile che queste devono osservare.
        Ho provato a valutare la disposizione del nuovo testo relativa al divieto da parte delle regioni di ricorrere all’indebitamento per spese diverse, che non siano di investimento. È una saggia norma introdotta in questo testo; ci troviamo però sempre dinanzi al discorso di armonizzare e di rendere cogente tale norma alla luce di un parametro prefissato dal legislatore nazionale, che allo stato non esiste. Per esempio, che sorte avranno tutte le leggi che sono state approvate dalle regioni, e garantite dallo Stato, di ricorso all’indebitamento per il ripianamento del bilancio? Quelle leggi, con il sopravvento del nuovo Titolo V della Costituzione non verranno abrogate perché, essendo su piani diversi, la norma costituzionale sopravvenuta – lo si sa – non ha effetto abrogante delle norme di rango inferiore preesistenti: la differenza tra invalidità e inefficacia delle leggi è nota a tutti. C’è da chiedersi se tutte queste leggi siano diventate invalide alla luce del nuovo testo costituzionale. È quello che accadde per le leggi fasciste che diventarono incostituzionali ma continuarono ad avere efficacia, in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 1956, fino a quando non furono progressivamente demolite dalla Corte stessa. Ma da oggi per queste leggi finanziarie che cosa accadrà essendo state adottate quando non c’era una norma che le vietava? Si può parlare di invalidità sopravvenuta, che potrebbe essere fatta valere dinanzi alla Corte costituzionale?
        Smetto ora di parlare della materia finanziaria, che resta per me la più difficile e delicata, perché sappiamo quali disastri potrebbero venir fuori di fronte ad una sconsiderata legislazione regionale che non ritenesse di armonizzarsi con la finanza dello Stato, fino a quando non vi fosse una legge quadro positiva di princìpi fondamentali, che erano poi quelli già valorizzati nel vecchio articolo 117, primo comma, della Costituzione, ed ai quali si fa ora riferimento nell’ultimo periodo del terzo comma del nuovo articolo 117.
        Le regioni dunque potranno iniziare a legiferare subito e le loro leggi saranno immediatamente efficaci; poi potranno intervenire le leggi di armonizzazione. Ma dubitiamo che tali leggi passeranno indenni dinanzi al potere di impugnazione delle regioni, le quali certamente, di fronte a leggi così fondamentali per quanto riguarda l’armonizzazione delle risorse finanziarie andrebbero compatte dinanzi alla Corte costituzionale. Avremo probabilmente un contenzioso imponente dinanzi alla Corte che dovrebbe dettare regole e princìpi cui poi la legislazione regionale si dovrebbe uniformare purtroppo a cose fatte.
        Sono serie preoccupazioni le mie che mi auguro il Parlamento nazionale saprà superare. Non invidio coloro i quali dovranno accingersi a svolgere questo compito mentre da più parti viene chiesto se si possa perlomeno temporeggiare in nome del principio della leale cooperazione tra i poteri dello Stato, che pur dovrebbe ispirare l’armonia tra i due livelli di fonti legislative.
        In verità non so come rispondere a chi pensa ad una gradualità nella entrata in vigore del nuovo Titolo V e sono preoccupato di dover rispondere che, allo stato delle cose, ciò non è possibile perché è principio pacifico che dopo l’abrogazione della legge Sturzo del 1953, che consentì l’attuazione dell’ordinamento regionale, sia escluso che la legislazione nelle materie di legislazione ripartita o concorrente possa essere impedita dalla mancata emanazione di una legge dello Stato che detti prima i princìpi fondamentali.
        Occorrerebbe che il Parlamento, nelle materie più scottanti, intervenisse al più presto per evitare che ciascuna regione prenda la propria strada dissestando il sistema. Nel frattempo solo una legge costituzionale potrebbe sospendere o almeno graduare l’efficacia di questa riforma.
        Chiedo scusa per la prolissità del mio intervento ma la materia è densa di contenuti e le difficoltà cui andrete incontro sono certamente notevoli. È oggi il caso di ricordare l’auspicio di Benedetto Croce che, in occasione dei lavori della Costituente, invocò lo spirito santificatore: «
veniat creator spiritus»; mi auguro che in queste Aule torni ad aleggiare quello spirito.

        PRESIDENTE. La ringrazio, professor Caianiello, anche per aver sottolineato le problematicità della riforma costituzionale e la responsabilità di tutto il Parlamento che aumenta considerevolmente in questa fase necessariamente transitoria.
        MANZELLA
(DS-U). Mi associo al ringraziamento del Presidente per la brillantissima esposizione del professore Caianiello, che ha assunto doverosamente da tutti i punti di vista, non solo dal suo, il compito di colui che «temprando lo scettro ai regnator mostra di che lacrime gronda e di che sangue».

        La legge di riforma costituzionale è stata funestata da un incrocio di polemiche politiche sia alla fine della scorsa legislatura che all’inizio di questa, per cui alcuni passaggi non sono stati sufficientemente chiari. Credo peraltro che la divina interpretazione, la musa semantica, ci debba guidare nel riportare allo spirito complessivo e unitario della Costituzione anche quello che, segmentato, sembrerebbe creare difficoltà.
        Prima di rivolgere alcune domande al professor Caianiello, vorrei perciò ricordare che l’articolo 5 della Costituzione si lega con l’articolo 114; in entrambi il soggetto è la Repubblica.
        È vero che abbiamo la diffusione di sovranità, come d’altra parte politologi e giuristi di tutto il mondo affermano, e non solo nei confronti dei governi territoriali, ma anche dei corpi di rappresentanza organica, però gli organi della Repubblica, e in particolare questo Parlamento, conservano funzioni metasovrane che consentono il raggiungimento dell’unità che si nutre del rapporto fra articolo 5 e articolo 114.
        Credo che tutti quanti noi, e soprattutto chi ha l’autorità del professor Caianiello (che non è solo l’autorità del giurista chiuso nel
sancta sanctorum delle Pandette e delle comparse ma è un giurista che parla all’opinione pubblica), abbiamo il dovere esegetico di dare un’interpretazione nel senso dei Padri costituenti.
        Ponendo il problema in questi termini, la legislazione del Parlamento della Repubblica è certamente una legislazione che ha una superiorità di fonte nei confronti degli altri tipi di legislazione, almeno nei confronti di quelle che rappresentano fonti concorrenti.
        D’altra parte, come affermato ieri nel corso della riunione della Giunta per il Regolamento, abbiamo iniziato l’opera non di soppressione del Senato della Repubblica, ma di trasformazione del Senato della Repubblica in Senato della Repubblica federale.
        Sappiamo tutti, comunque, che presto saremo chiamati ad affrontare il nodo dell’elettorato attivo e passivo di questo ramo del Parlamento.

        PRESIDENTE. Vorrei fosse chiaro a tutti, colleghi senatori, che la questione sollevata dal senatore Manzella coinvolge anche la Camera dei deputati; non vorrei che dalla lettura del resoconto stenografico risultasse che il Senato della Repubblica sia rassegnato a trasformarsi. Per il momento il processo riguarda entrambe le Camere.
        MANZELLA
(DS-U). La sua osservazione è giustissima, signor Presidente, ma è anche vero che nella Costituzione entrata in vigore nel 1948 è prevista l’elezione del Senato su base regionale. La vocazione territoriale, quindi, è già nell’impronta dei Padri costituenti, non la stiamo inventando noi.

        Camera e Senato stanno già per trasformare la Commissione parlamentare per le questioni regionali prevista dall’articolo 11 della legge costituzionale di riforma. Entro uno o due mesi, quando approveremo queste norme regolamentari e legislative, sarà consentito l’ingresso in Parlamento dei rappresentanti di regioni, province e comuni con poteri procedurali forti. Il parere contrario della Commissione per le questioni regionali ha un’incidenza diretta sull’iter legislativo. Tutto questo comunque è ad colorandum interpretationem. Per il resto sono d’accordo con il presidente Caianiello, in particolare quando ha spezzato una lancia contro l’idea di trasformare la Corte costituzionale in qualcosa di peggio dei collegi arbitrali, in un collegio di conciliazione che non esiste in nessun altro Stato federale.
        Mi scuso di questa premessa ed arrivo alla domanda. Proprio oggi si è verificato un caso pratico nella Giunta per gli affari europei. Ci siamo trovati di fronte ad una legge di attuazione di una direttiva comunitaria che affidava alle regioni dei poteri derogatori in materia venatoria senza minimamente precisare la cornice, i princìpi direttivi in base ai quali esercitare tali poteri. Il grave problema sorto in sede di Giunta per gli affari europei è stato il seguente. Nelle materie in cui vi è il vincolo comunitario, lo Stato può svincolarsi del tutto dal suo obbligo internazionale nei confronti della Corte di giustizia, nei confronti dell’Unione europea, lasciando tutto alle Regioni? Oppure lo Stato conserva un suo diritto-dovere di dettare anche per queste norme, per avventura di legislazione regionale esclusiva, qualcosa che sia di raccordo in qualche modo e che tuteli la propria responsabilità nei confronti dell’Unione europea? Questa è una delle grandi questioni sorte: il vincolo comunitario crea un altro tipo di legislazione concorrente anche nelle materie di competenza esclusiva delle Regioni? Nel momento in cui vi è un vincolo comunitario, lo Stato può abdicare alla propria responsabilità nei confronti dell’Unione europea?

        DEL PENNINO (Misto-PRI). Signor Presidente, anch’io ringrazio il professor Caianiello per la sua ampia e lucida esposizione e, proprio cogliendo gli spunti contenuti nella sua relazione e richiamandomi a quanto abbiamo ascoltato nelle precedenti audizioni dagli altri Presidenti emeriti della Corte costituzionale, vorrei porre alcune precise domande.

        Partirò dalle considerazioni svolte dal professor Caianiello, su cui egli si è ampiamente soffermato, relative all’incidenza di questa riforma nella materia finanziaria e tributaria e alla maggiore difficoltà che ne deriva di garantire un’armonia nel sistema finanziario complessivo. Vorrei conoscere la sua interpretazione su un punto che mi lascia molto perplesso, della nuova formulazione dell’articolo 117, confrontato con il nuovo testo dell’articolo 119. Il nuovo articolo 117 prevede la postestà legislativa esclusiva dello Stato per quanto riguarda il sistema tributario e contabile dello Stato. Il nuovo articolo 119, al secondo comma, afferma che «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Nonostante il riferimento ai princìpi di coordinamento della finanza pubblica, la formulazione del secondo comma dell’articolo 119, a fronte della previsione contenuta alla lettera e) dell’articolo 117, mi sembra che ipotizzi la possibilità di creazione di nuovi tributi autonomi da parte di ogni singola Regione, indipendentemente da quelli che sono i tributi statali. Questa è evidentemente una modifica così radicale del nostro attuale sistema da far saltare ogni coordinamento della finanza pubblica.
        E vengo al secondo quesito, che deriva dalle considerazioni che lei ha fatto sulla nuova formulazione dell’articolo 114, in base al quale «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Ora, a seguito di tale riformulazione, noi troviamo sempre il riferimento nella nuova formulazione della Costituzione a «legge dello Stato» o a «legge delle Regioni», salvo che all’articolo 125, costituito dal secondo comma del vecchio articolo 125, l’unico rimasto dopo l’abrogazione del primo. In tale articolo permane la formulazione «legge della Repubblica». Si legge infatti: «Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica». Secondo lei, professor Caianiello, permanendo una norma precedente, possiamo essere sicuri che in questo caso la legge della Repubblica debba essere interpretata come legge dello Stato? Oppure incorriamo nel rischio che possa essere la legge regionale ad individuare autonomi organi di giustizia amministrativa? Mi sembrano dei quesiti su cui qualche elemento di preoccupazione può essere sollevato.
        Un’ulteriore domanda, su un tema che è stato già oggetto di considerazione da parte dei Presidenti emeriti della Corte che abbiamo ascoltato, è quella relativa al primo comma del nuovo articolo 117 per quanto riguarda l’individuazione della gerarchia delle fonti, laddove si dice che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Come ritiene che debba essere collocato il vincolo degli obblighi internazionali rispetto alla legge dello Stato nella gerarchia delle fonti in base a questo tipo di formulazione? A quali obblighi internazionali dobbiamo fare riferimento? Solo a quelli derivanti da trattati approvati dal Parlamento secondo la previsione costituzionale, o anche a quelli derivanti da vincoli internazionali conseguenti ad accordi intergovernativi che non sono oggetto di trattato internazionale?
        L’ultima domanda è relativa alla legislazione concorrente. Noi abbiamo sentito due caute valutazioni, differenti però, dai suoi colleghi Presidenti emeriti della Corte, professori Elia e Baldassarre.

        Entrambi concordavano sul fatto che, con la modifica del Titolo V e la nuova formulazione delle competenze residuali, non più dello Stato ma delle regioni, non si possono dedurre dall’insieme delle leggi attualmente vigenti i princìpi generali che devono servire come leggi quadro, come leggi cornice per la legislazione regionale. Non potendosi dedurre i princìpi fondamentali, occorre una legge specifica di principio da parte dello Stato. È vera l’invocazione di Croce, riportata dal senatore Manzella, sulla illuminazione del Parlamento che consente tempi rapidissimi per arrivare alla formulazione delle leggi di principio, ma nell’ipotesi in cui lo spirito non venga ad illuminarci e i tempi dovessero ritardare, qual è la condizione che secondo lei si determinerebbe? Quella che è stata avanzata dal presidente Elia, che comunque vi sarebbe una possibilità di legiferare da parte delle regioni, indipendentemente dalla presenza di leggi quadro, per le materie di legislazione concorrente, o l’altra – che mi sembrava emergere maggiormente dalle indicazioni del professor Baldassarre – secondo cui l’attività legislativa delle regioni verrebbe bloccata di fatto dalla mancata approvazione delle leggi fondamentali? Questo è un punto centrale, tenuto conto che alcune delle materie indicate come oggetto della competenza della legislazione concorrente sono in realtà materie di grande interesse nazionale, non solo regionale. Faccio riferimento, ad esempio, alla produzione, al trasporto e alla distribuzione dell’energia elettrica.
        La soluzione adottata in proposito avrebbe implicazioni certamente notevoli sul problema complessivo, che lei ha illustrato, del coordinamento fra la politica economica dello Stato e la politica economica dei livelli regionali.

        VILLONE (DS-U). Ringrazio il professor Caianiello per il contributo importante che ha voluto oggi fornire ai nostri lavori. In questa materia ci stiamo dividendo fra pessimisti e ottimisti. Io sono ragionevolmente quasi ottimista. Credo infatti che ci siano davanti a noi problemi importanti ma anche la possibilità di letture utili a creare condizioni favorevoli per l’agibilità del sistema. Riprendo un argomento del senatore Manzella, a mio avviso molto importante. Nel sistema che viene in essere, l’articolo 5 assumerà un peso ancora maggiore rispetto al passato come chiave di volta dell’interpretazione sistematica. In effetti, ancor più di prima è chiaro che nell’articolo 5 c’è tutto, ci sono gli elementi fondamentali, c’è il progetto politico-istituzionale. Questo ci serve in chiave di interpretazione sistematica. Una delle questioni affrontata in questa sede da uno dei nostri ospiti illustri, sulla quale vorrei conoscere l’orientamento del professor Caianiello, riguarda la possibile sopravvivenza di controlli statali sull’amministrazione regionale. Se partiamo dalla sola riforma del Titolo V, vale il ragionamento che non c’è un divieto espresso, che invece c’era nel progetto della Bicamerale; adesso c’è la mera soppressione, quindi vi è la possibilità della reintroduzione di questi controlli con legge ordinaria. Non ci sarebbe un obbligo costituzionale, ma la possibilità che il legislatore statale utilizzi questa opzione che rimane aperta.

        Io non penso che sia possibile. Al contrario, penso che il principio espansivo che viene dall’articolo 5 indica che sull’autonomia possiamo mettere oneri che trovino puntuale fondamento. Da questo punto di vista, se non è previsto che ci sia il controllo, non lo si può introdurre. Tendo a pensare che fra le due tesi che cominciano ad emergere in dottrina, l’una per il sì e l’altra per il no, sia proprio l’articolo 5, come norma di sistema, a darci l’indicazione.
        Bisogna poi tenere presenti altri valori fondamentali, ad esempio la necessità di favorire il funzionamento del sistema piuttosto che il blocco. In questo complesso insieme di questioni che sta nascendo relativamente alla legislazione concorrente, probabilmente ci aiuterebbe una chiave interpretativa di sistema. Paradossalmente, non possiamo favorire letture che inducono al blocco del sistema. Se c’è una via interpretativa alternativa, e credo che ci sia, quella va privilegiata, perché garantire il funzionamento del sistema rappresenta un valore in sé, in chiave di criteri ermeneutici di fondo. Ritengo che dalla lettura complessiva, anche tenendo conto di questi princìpi di base, emerga che abbiamo di fronte uno scenario in cui la legislazione vigente rimane ferma e applicabile fino a quando la regione non sopravviene con la sua legislazione, ovviamente nei limiti della competenza (parlo dell’impianto della legislazione concorrente), e da cui i princìpi possano desumersi. Mi pare molto fragile, da questo punto di vista, l’argomento che, essendo cambiato il quadro, quei princìpi non possano più utilizzarsi. Quella che viene meno è ovviamente la possibilità della legge statale di autodefinirsi come principio, ma che possano essere tratti dei princìpi, secondo la nota giurisprudenza della Corte, in via di interpretazione, non mi sembra contestabile perché questo elemento concorre alla agibilità del sistema nel suo insieme.
        Mi sembra che dovremmo fare delle letture non solo del Titolo V ma anche di una prospettiva più ampia. Questo ci aiuterebbe a rispondere meglio ad alcune questioni.
        Vorrei porre al professor Caianiello una domanda specifica, in quanto so che egli è attento a queste problematiche. Vorrei sapere se ci può aiutare a capire bene la parte relativa alle funzioni amministrative e al principio di sussidiarietà. Noto infatti un problema. Il principio di sussidiarietà si riferisce a quella in senso verticale, in quanto ipotizziamo il favore dell’amministrazione verso il basso. La formula che si utilizza è chiaramente in questo senso.
        Si prevede che le funzioni sono attribuite ai comuni «salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato». La chiave della questione diventa quel «salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario». Significa che, in linea di principio, spettano sempre ai comuni, eccetto i casi in cui vi è uno specifico titolo attributivo.
        Vorrei sapere dal presidente Caianiello, se ha avuto modo di riflettere, qual è il soggetto che definisce il livello unitario, come e dove si definisce tale livello; perché se si parte dalla premessa che sia la legge dello Stato a definirlo, allora sorge qualche difficoltà. Infatti, a mio avviso, la legge dello Stato può definire il livello unitario attribuendo a se stessa la funzione amministrativa laddove c’è una potestà legislativa esclusiva e per una parte laddove c’è una potestà concorrente. D’altra parte, per i comuni e le province è potestà legislativa esclusiva la definizione, da parte ancora della legge dello Stato, delle loro funzioni fondamentali.
        Però si crea uno spazio intermedio tra questi due poli nel quale bisogna capire a chi spetti l’identificazione del livello unitario. La legge regionale potrebbe definire per se stessa un livello unitario, per esempio, escludendo ogni funzionamento amministrativo di comuni e province, salvo quelle che fossero espressamente attribuite con legge dello Stato come funzioni fondamentali? Oppure dobbiamo intendere che ci sia un nucleo minimo di funzioni amministrative che sia comunque sottratto alla definizione di un livello unitario (sottratto sia per la legge dello Stato sia per la legge della regione)? Se stabiliamo che il comune ha attribuzioni proprie, possiamo dire che non ha le funzioni amministrative relative? Possiamo affermare che qualcuno gliele toglie?
        Mi sembra che si crei un intreccio molto delicato di questioni che, tra l’altro, incide (non è presente l’amico Bassanini, ma questa domanda potremmo porla anche a lui in modo specifico) sulla valutazione dell’attuale sistema normativo statale in proposito. Infatti, attualmente esiste un sistema che, attraverso i decreti attuativi della Bassanini, ha visto una distribuzione, da parte della legge dello Stato, di funzioni amministrative tra i vari livelli. Siamo sicuri che il sistema sia ancora coerente con l’attuale assetto? Forse oggi la legge dello Stato non potrebbe più farlo. Allora, la distribuzione storicamente effettuata resiste o meno? Va rivista e fondata diversamente?
        Siamo davvero di fronte ad un insieme di questioni che poi concretamente saranno davanti agli amministratori, a partire dall’immediato futuro, e sulle quali forse non si sta ragionando abbastanza perché siamo un po’ distratti dai massimi sistemi. Domani il sindaco o il presidente della provincia si chiederanno se mettere o meno la firma. Forse è necessario riflettere su tali aspetti e, se il presidente Caianiello può aiutarci, gliene siamo molto grati.

        IOANNUCCI (FI). Innanzitutto vorrei ringraziarla, presidente Caianiello, per me è stato come tornare indietro nel tempo, con lei ho dei bei ricordi.

        Mi ponevo alcune domande. Per cominciare, la distinzione fra Repubblica e Stato non può rivelarsi pericolosa ed importante ai fini dei rapporti con la legislazione comunitaria? Infatti nelle direttive comunitarie, nei trattati, è previsto sempre un rinvio allo Stato, e quindi all’emanazione di una norma statale sull’argomento. La distinzione tra Repubblica e Stato come si colloca in relazione alle norme comunitarie? Se la norma comunitaria individua nello Stato il soggetto che deve legiferare su un determinato argomento e invece nelle norme costituzionali è prevista la competenza regionale, la divisione tra Repubblica e Stato non potrebbe comportare una certa confusione?
        Altra questione importante che lei ha affrontato è quella relativa alla Corte costituzionale, che in realtà non è e non potrà essere una camera di compensazione o una camera di accordo. Le chiederei qualche suggerimento, considerando che la Corte costituzionale non è non può essere un organo politico.
        Inoltre, con l’inversione dell’elencazione delle materie nell’articolo 117 – prima erano quelle regionali, adesso vi è l’elencazione delle materie di competenza statale – la giurisprudenza della Corte costituzionale sulle leggi quadro può ritenersi ancora valida per le materie di legislazione concorrente?

        GUERZONI (DS-U). Anch’io ringrazio il Presidente per la brillantezza e la vivacità dell’esposizione, oltre che per il merito.

        In questi confronti certamente è sempre difficile, ma necessario, distinguere tra suggestioni e problemi reali. Io credo che con questa riforma alcune suggestioni di ieri siano diventate problemi reali di oggi. Mi riferisco al tema «Stato e Repubblica». Non v’è dubbio che con tale innovazione è di fronte a noi un dato di distinzione; anzi, la novità è che sono sorti due soggetti, mentre prima ce n’era uno soltanto: lo Stato. Ritengo che sia un dato reale, con implicazioni molto forti anche per quanto riguarda i poteri del Presidente della Repubblica, perché la Repubblica è l’insieme, lo Stato è un soggetto inter pares, che però ha funzioni parziali d’insieme; è un soggetto pari agli altri, però tra le funzioni ne ha alcune che sono quelle della Repubblica.

        FISICHELLA (AN). Non solo in quanto lo si afferma, ma è vero in relazione alla logica funzionale e sistemica.
        GUERZONI
(DS-U). Perché la politica estera la fa lo Stato, non le regioni.

        La prima domanda è più che altro una curiosità. È a sua conoscenza che durante i lavori della Costituente il tema Stato-Repubblica sia stato affrontato? Per quanto mi riguarda ho cominciato a sentir parlare di tale questione dalla cosiddetta scuola di Milano e nella prima Bicamerale, attraverso le opinioni, le ipotesi di lavoro del professor Miglio, ma non ho conoscenza che tale questione sia stata affrontata antecedentemente.
        Io penso che si possa ragionare in questo senso. Con questa riforma, proprio per questa redistribuzione dei poteri, non vi è dubbio che sul tappeto una
chance in più ce l’abbia o il presidenzialismo o il semipresidenzialismo. A me può anche dispiacere, però è un dato politico, a mio avviso oggettivo. Non basta pensare alla partecipazione delle regioni all’elezione del Presidente della Repubblica per dire che il problema è risolto. Abbiamo introdotto un’innovazione, ma dovremo perfino porci il problema di come partecipino gli enti locali, cioè i soggetti che costituiscono la Repubblica (non lo Stato). Perciò le chiedo, naturalmente con tempi lunghi e riflessioni strategiche, la riforma può essere una traccia anche per il riassetto della rappresentanza parlamentare? Partendo dal presupposto che con la riforma abbiamo lo Stato e la Repubblica, si può immaginare, a differenza del passato, di arrivare ad una Assemblea dello Stato e ad un’Assemblea della Repubblica che, a differenza di come abbiamo sempre pensato, propone la presenza anche della componente Stato? Se lo Stato è diventato un soggetto come gli altri, non vedo perché non debba trovare posto in quella sede di armonizzazione che lei proponeva.

        FISICHELLA (AN). Ma il Parlamento rappresenta la Nazione, senza vincolo di mandato.
        GUERZONI
(DS-U). La Camera dei deputati sarà la futura Assemblea nazionale, poi ci sarà la Camera della Repubblica.

        Vado avanti e vengo a tutt’altro tema, quello finanziario. Condivido le preoccupazioni del professor Caianiello. Questo è un nodo dalle implicazioni molto delicate. Sono uno di quelli che pensa che con questa riforma un sindaco possa realizzare una sorta di rivoluzione nella predisposizione del bilancio. Combinando i nuovi articoli 119 e 114, può deliberare tributi propri, soltanto che ciò sia previsto nello statuto comunale. Questa convinzione mi fa aderire alle preoccupazioni esposte, anche per le ipotesi di guasti ravvicinati in tema di politica economica e finanziaria pubblica. Chiedo al professore se, incombendo questo pericolo, non ritenga urgente attuare l’articolo 11 della riforma, quello che prevede un riassetto della Commissione parlamentare per le questioni regionali, che indubbiamente si trasforma in una terza Camera, sia pure solo provvisoria. Non so se il professore convenga con me sulla definizione, però, con l’ingresso in termini costitutivi di rappresentanti delle regioni e dei comuni, con il potere di veto nel processo legislativo, non vi è dubbio che si tratti di una sorta di terza Camera. Un potere di veto la Commissione ce l’ha anche ora, ma è normato in maniera tale che non è mai stato compiutamente esercitato. Non ritiene che converrebbe anticipare al massimo l’innovazione di questa Commissione? La si può immaginare nell’immediato come quel luogo in cui insieme si compiano scelte coordinate, tali da tenere lontane le ipotesi inquietanti che sono state evocate in campo di politica economica e finanziaria? Ritiene che questa innovazione sia urgente?

        FISICHELLA (AN). Signor Presidente, sarò breve. Desidero intanto ringraziare il professor Caianiello per la sua analisi, che condivido ampiamente e che esprime, credo, non pessimismo, ma realismo. Infatti, i dati di realtà che sono stati richiamati prescindono da talune astrattezze che qua e là si sono colte, da certe considerazioni che sono state formulate con riferimento, per esempio, all’articolo 5 (sul tema specifico porrò un quesito).

        Ho molta stima del collega Guerzoni, voglio quindi ricordargli una mia recente esperienza di recupero dei discorsi all’Assemblea costituente. Il collega si chiedeva se in quella sede si fossero posti il tema del rapporto tra Stato e Repubblica. Sicuramente si è posto quello dell’unità nazionale. Mi piacciono – le ho richiamate recentemente in alcuni convegni – le splendide parole che Palmiro Togliatti, che non ha più seguaci, ha pronunciato sul tema dell’unità nazionale, richiamando il proletariato (che non esiste più). Egli osservava che l’unità nazionale è una grande questione generale e non bisogna farsi sommergere da impostazioni di tipo particolaristico.

        GUERZONI (DS-U). Può essere una risposta al problema.
        FISICHELLA
(AN). ...che farebbero venire a galla le spinte egoistiche a danno dei valori generali.
        VILLONE
(DS-U). Forse qualche estimatore Togliatti ce l’ha ancora.
        FISICHELLA
(AN). Me ne compiaccio, perché ora passerò ad un altro oratore che si è pronunciato in quella sede, Luigi Einaudi.

        Oggi sono tutti liberali, in particolare i tanti colleghi che si pongono, per esempio, il problema della polizia locale. Manderò loro il discorso di Einaudi sul tema delle polizie locali, perché sappiano, questi neoliberali, quel che egli diceva sull’argomento. Per esempio, ricordava che è stato in virtù della nascita di una polizia federale, cioè di una polizia nazionale, che si è ampiamente ridimensionato il fenomeno della criminalità organizzata negli Stati Uniti, mentre fino a quando c’era stata una distribuzione delle polizie solo a livello statale, quindi locale, non si era mai riusciti a tanto.

        GUERZONI (DS-U). Ha ragione, piuttosto che Togliatti, ricordi Einaudi, che ha più ascolto.
        FISICHELLA
(AN). Ricordo tutti e due, Einaudi e Togliatti, ma anche Nitti, che disse delle cose splendide, che valgono per il nostro amico Del Pennino che, peraltro, è allineato nella tradizione di una certa democrazia repubblicana.

        Questi signori avevano visto tutto, non stiamo parlando di cose nuove. Non ne ho mai parlato in questa sede, ma evoco questi argomenti perché l’amico Guerzoni si è posto quel quesito.
        Torno adesso al tema specifico dell’articolo 5. Ho sentito dire dai colleghi Manzella e Villone che l’unità e l’indivisibilità sono al riparo, non soffrono della modifica dell’articolo 114. Ma leggiamo che cosa dice l’articolo 5: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Il vecchio testo dell’articolo 114 era del tutto coerente. Si potrebbe dire: «(infatti) la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni». C’era una precisa coerenza sistemica nella formulazione degli articoli 5 e 114. Temo che oggi non vi sia più tale coerenza sistemica, perché si dice che «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Si crea cioè una distinzione – non voglio dire una distanza – e temo anche una divaricazione tra la Repubblica e lo Stato; il quale Stato era fin qui solo la proiezione istituzionale della Repubblica. Questo era lo Stato: la proiezione istituzionale della Repubblica. Era il modo in cui la Repubblica – concetto in qualche modo culturale e «valoriale» – si organizza istituzionalmente. Oggi si è determinata una separazione che, per esempio, si coglie anche su questioni inquietanti, come quelle di cui all’articolo 8.
        Ma prima voglio richiamare brevemente l’articolo 7. Lo Stato era considerato sovrano ed era proprietà dello Stato il tema della sovranità: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Questa sovranità di diritto internazionale era l’espressione della sovranità di diritto interno che veniva esercitata dallo Stato in quanto proiezione istituzionale della Repubblica.
        Oggi siamo costretti a fare dei ghirigori istituzionali. Nell’articolo 117 si rivendica la potestà esclusiva dello Stato in materia di confessioni religiose, ma – attenti bene – si parla di rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose. Nell’articolo 8, invece, si parla di rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. Non abbiamo nemmeno coordinato questi aspetti! Siamo al punto che l’articolo 8 prevede che i rapporti delle confessioni religiose con lo Stato siano regolati per legge e l’articolo 117 prevede che i rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose siano oggetto di legislazione esclusiva, come si dice, dello Stato.
        Allora, tutto questo determina o no degli equivoci? Tutto questo è o non è fonte di incomprensioni? Perché o le parole significano qualche cosa oppure si immagina che il fatto prevalga sul diritto. Tuttavia, se immaginiamo che il fatto prevalga sul diritto, possiamo scrivere quasi qualunque cosa, tanto poi prenderemo a schiaffi il diritto. Se invece immaginiamo che le parole abbiano un senso, allora bisogna cogliere queste antinomie, queste contraddizioni, questi elementi almeno di equivoco, se all’articolo 8 i rapporti delle confessioni sono con lo Stato, mentre all’articolo 117 i rapporti delle confessioni sono con la Repubblica. E meno male che se ne sono ricordati perché altrimenti, con l’aria che tira, se non fosse stato esplicitato questo punto, qualche regione avrebbe potuto dire: «Io me ne infischio dei rapporti tra le confessioni e lo Stato, mi preoccupo dei rapporti tra la mia regione e le confessioni religiose». Ci rendiamo conto di che cosa avrebbe potuto significare una cosa del genere se questo aspetto non fosse stato richiamato, ancorché in forma equivoca, in una situazione politico-culturale, etico-civile, chiamiamola come volete, come quella nella quale stiamo vivendo?
        Dobbiamo mettere in conto queste cose, cari colleghi. Vedete allora che se si esprimono una o più preoccupazioni – ho citato l’articolo 5 per ciò che riguarda l’unità e l’indivisibilità e gli articoli 7 e 8 in riferimento al tema della sovranità e al rapporto con le confessioni religiose – è perché ci stiamo muovendo su un terreno suscettibile davvero di gravi rischi. Certo, capisco bene quello che dice il collega Guerzoni – potremmo rimediare immaginando il presidenzialismo o il semipresidenzialismo – ma allora possiamo anche riscrivere tutta la Costituzione! In questo caso, però, facciamo qualcosa che abbia un minimo di coerenza. Personalmente ho terrore quando sento parlare di riforme istituzionali.

        GUERZONI (DS-U). O crediamo nella riforma, e la assumiamo e la realizziamo con le innovazioni che essa propone, oppure diciamo che la riforma è come se non l’avessimo fatta. Nell’analisi comunque siamo completamente d’accordo.
        FISICHELLA
(AN). Se così fosse, se fosse come se non l’avessimo fatta, sarei molto contento. Il dramma è che l’abbiamo fatta.
        VILLONE
(DS-U). Questo dubbio ci era venuto, per la verità.
        FISICHELLA
(AN). Sottolineo i motivi di preoccupazione. Devo motivare il mio terrore per le riforme istituzionali, dopo esserne stato per anni fautore. L’inevitabile ambiente in cui le riforme istituzionali vengono ad essere proposte, in termini di demagogia, di rincorsa elettorale tra questi e quelli, di imprevidenza circa le conseguenze desiderate ed indesiderate, a mio avviso rende rischiosissimo oggi ogni ricorso a mutamenti dell’impianto costituzionale e più in generale istituzionale. Ecco perché, pur avendo manifestato in altri tempi l’aspettativa che le riforme potessero conseguire risultati positivi, ho la preoccupazione...
        VILLONE
(DS-U). È un pentito delle riforme!
        FISICHELLA
(AN). Sì, per certi aspetti sì.
        PRESIDENTE. Scusate, ma rischiamo di non lasciare al nostro ospite l’opportunità di rispondere ai quesiti posti.
        FISICHELLA
(AN). Sono stato un fautore delle riforme quando c’erano troppi rivoluzionari. Adesso che i rivoluzionari sono diventati riformisti, nel mio conservatorismo non sono più neanche riformatore.
        
CAIANIELLO. Signor Presidente, mi limiterò soltanto a dare delle brevi risposte, riservandomi di rivedere successivamente il testo del resoconto stenografico. Se mi è consentito, in una sala così austera verso la quale nutro grande rispetto, vorrei fare una piccola battuta, ricordando che, quando voi portavate i pantaloni corti ed io avevo qualche anno di più, c’era un attore, che si chiamava Peppino De Filippo, il quale poneva sempre questo interrogativo: siamo vincoli o sparpagliati? Ora, questa battuta rende in forma teatrale la situazione della covigenza dell’articolo 5 (vincoli) e dell’articolo 114 (sparpagliati) della Costituzione. Mi chiedo che bisogno c’era di arrivare a questa situazione.

        Io ho modificato proprio ieri il programma del mio insegnamento universitario di Istituzioni di diritto pubblico, aggiungendo, sotto la voce «divisione dei poteri», l’altra «dissoluzione della sovranità nazionale dopo il referendum dell’ottobre 2001». Infatti, ho la sensazione che l’articolo 114 sia una norma che ci mette su una china pericolosa. Se non vi fossero i paletti, che il presidente Fisichella ha così bene messo in evidenza, oggi avremmo ancora più forti perplessità. Proprio in campo internazionale, come ha detto il presidente Fisichella, e come avevo detto anche io nell’esordio, la sovranità esterna è quella che all’interno costituisce la sovranità di diritto. Qualcuno da oggi all’estero potrebbe dubitare dei poteri di rappresentanza di un Ministro dello Stato. Infatti, nelle materie di legislazione esclusiva il Governo dello Stato avrebbe solo poteri di impugnativa, non più poteri di coordinamento, quindi diverrebbe un antagonista delle regioni; uno Stato estero potrebbe obiettare che nelle materie di legislazione esclusiva il Ministro che rappresenta lo Stato non avrebbe alcun potere, quindi potrebbe pretendere di trattare con i presidenti delle regioni, che hanno la titolarità della legislazione esclusiva. Questa, secondo me, è una preoccupazione plausibile. Ma ci sono gli ottimisti; io in verità non riesco ad esserlo.
        C’è poi il problema dei rapporti internazionali. Innanzi tutto mi chiedo: che bisogno c’era, in un Titolo che riguarda le regioni, di affermare che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni «nel rispetto della Costituzione»? Non è questa la sede appropriata per enunciare un limite del legislatore nazionale. Questa norma doveva essere messa nel Titolo che riguarda il Parlamento e la funzione legislativa.
        Mi sembra di aver riscontrato su questo aspetto delle preoccupazioni anche da parte del senatore Del Pennino. Mi sarei spiegato questa norma dell’articolo 117 se essa si fosse riferita soltanto alle regioni, se propriamente non avessimo incluso la potestà legislativa esercitata dallo Stato, perché non è questa la
sedes materiae, e ci fossimo limitati alla potestà legislativa esercitata dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti, in primo luogo, dall’ordinamento comunitario.
        Sappiamo poi che la nostra Corte costituzionale nel 1985 ha fatto una scelta precisa, quella del dualismo degli ordinamenti: ogni ordinamento viaggia per conto proprio e chiunque debba applicare una norma deve seguire i dettami della legge comunitaria se la materia è attribuita all’Unione europea; in questo caso la legge nazionale è
tamquam non esset. Non c’era bisogno di affermare questo principio. Non avviene mai nei codici o nelle Costituzioni – questo il professor Villone, che è un valorosissimo collega costituzionalista, lo sa meglio di me – che in presenza di tesi dottrinarie contrastanti si faccia professione di adesione ad una delle due. Quando stabiliamo che si è tenuti a osservare i vincoli comunitari, accettiamo la tesi rinnegata dalla Corte costituzionale, con la tesi dualistica o binaria, e accediamo all’idea dell’ordinamento monistico. Cioè, i legislatori, d’ora in poi, dovranno uniformarsi alle legislazioni comunitarie e quindi tutte le questioni che attengono alle materie del diritto comunitario saranno di competenza della Corte costituzionale. Invece, dall’85, con la storica «sentenza La Pergola», si è affermato che queste non sono questioni di costituzionalità ma di applicazione al diritto interno di norme comunitarie.
        Ripeto, mi sarei spiegato questa disposizione se si fosse riferita alla legislazione regionale, ma per quanto riguarda la legislazione statale, essendo la legge che ratifica un trattato dello stesso rango della legge ordinaria, il legislatore dello Stato che ha ratificato il trattato, che è il
dominus della legislazione statale, può adottare una legge in contrasto con il trattato, e può darsi che lo Stato estero con cui si è stipulato il trattato lo denunci, dichiarando che è stato violato.
        Vincolare il legislatore nazionale al rispetto dei vincoli internazionali derivanti dai trattati, perché di questo si tratta, significa costituzionalizzare i trattati internazionali ed i loro effetti; ogni volta che il legislatore statale vorrà disattendere un trattato internazionale dovrà fare una riforma costituzionale
ex articolo 138 della Costituzione. Io la leggo in questo modo, da interprete forse ancora inesperto di fronte ad una materia così delicata e complessa.
        Vi è poi la questione posta dal senatore Del Pennino sul problema dei tributi. Ora, per quanto riguarda i tributi dei comuni, esiste ancora, per fortuna, l’articolo 23, che pone la riserva di legge in materia tributaria. Ma per le regioni non esiste una norma siffatta. Le regioni sono libere di istituire i tributi che vogliono. Una conquista di tutti questi anni era stata proprio quella riserva relativa di legge; secondo l’interpretazione della Corte costituzionale, può ben essere demandato ad atto amministrativo o a legislazioni regionali il compito di disciplinare nel dettaglio i tributi, ma l’ideazione del tributo spetta allo Stato. Invece, adesso non è più così; nelle materie di competenza potremo riavere una «valanga» di tributi locali istituiti con leggi regionali, perché la riserva di legge statale non esiste più.

        L’imperfezione del nuovo testo costituzionale deriva dal fatto che non è ben chiaro il concetto di «materia»; i rapporti dello Stato con l’Unione europea non rappresentano una materia, come invece lo sono il turismo, lo spettacolo, la giustizia, lo sport. Questo ci dà la dimostrazione di come non si avesse ben chiaro cosa si intendesse comprendendo nella potestà legislativa esclusiva dello Stato i rapporti con gli altri Stati; è un concetto che non doveva essere posto sullo stesso piano di ciò che è considerato «materia». Lo si è fatto, invece. E ciò ha riferimento proprio con il discorso accennato in precedenza: declassamento dello Stato, che nei rapporti con gli altri Stati aveva una sua identità ed una sua fisionomia, perché solo lo Stato nazionale e sovrano poteva interloquire con gli altri Stati.
        Di qui le altre considerazioni sugli accordi che le regioni possono stipulare «nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato». Anche in questo caso, non sappiamo se, una volta riconosciuto questo potere, le regioni dovranno attendere le disposizioni dello Stato. Lo Stato penserà di essere legittimato a prendere tempo per individuare i limiti e le materie nelle quali le regioni potranno legiferare.
        Ma in questo modo le regioni potrebbero protestare ma non potrebbero sollevare un conflitto negativo di attribuzioni perché la Corte finora non li ha mai considerati. Ci troveremo di fronte alla difficoltà di capire allora cosa potrebbe accadere nel momento in cui le regioni rivendicassero, con fatti concreti, l’esercizio di questo potere ora acquisito di stipulare accordi internazionali.
        Tra le tante, interessantissime domande poste nel corso della discussione vi è stata quella posta dal senatore Guerzoni, che ringrazio in modo particolare perché mi ha dato interessanti indicazioni di carattere culturale. In un mio lontano saggio mi sono occupato dei lavori dell’Assemblea costituente, del contesto storico nel quale si innestò la Costituzione del 1948 e di tutto il dibattito che ci fu fin dal 1861 sui rapporti tra autonomie locali e Stato nazionale. Il senatore Fisichella ha ricordato il bellissimo discorso di Togliatti il quale invitò a soprassedere e a rinviare il discorso sull’ordinamento regionale, perché era preoccupatissimo di quella che sarebbe stata la sorte dello Stato unitario con l’avvento delle regioni, quelle previste nell’articolo 117 della Costituzione, non quelle attuali. Vi fu poi una mozione, che portava la firma di persone il cui pensiero personalmente non condivido, ma per le quali ho avuto grande venerazione e ammirazione, come Nilde Iotti e Concetto Marchesi; il Gotha della cultura italiana dell’epoca della Costituente, quella orientata a sinistra, firmò quella mozione, che fu battuta, che proponeva di non dar luogo all’ordinamento regionale.
        Di fronte a questo fluire «disinvolto» – scusate questo termine per una norma che è ormai parte della Costituzione della Repubblica, ma mi riferisco ai lavori preparatori, quando non era ancora norma costituzionale – il senatore Guerzoni mi poneva una domanda che muoveva dalla considerazione che in qualunque Paese del mondo con l’autonomismo (mi ostino a non utilizzare l’altro termine federalismo che per me è in chiaro contrasto con l’articolo 5), le Costituzioni prevedono un potere centrale fortissimo, che sia in grado di evitare disgregazioni di sistema; mentre noi, infatti, ci avviamo forse verso la disgregazione. Possiamo notarlo quando leggiamo nel nuovo testo che anche per materie delicate, come l’ordine pubblico, la salute ed altre importantissime, il Governo esercita il potere sostitutivo. Se, però, le inadempienze fossero a livello legislativo delle regioni, se vi fossero veramente violazioni ad opera di una legge della regione, al di là dell’impugnare la norma, il Governo che si trovasse di fronte ad una legge della regione che impedisse l’attuazione di provvedimenti necessari ai fini indicati, cosa potrebbe fare? Non potrebbe certo annullare una legge, né potrebbe sostituirsi alle regioni che volessero applicare quella legge.

        GUERZONI (DS-U). Può impugnare la legge.
        
CAIANIELLO. Può esserci però l’urgenza di adottare un provvedimento ed oggi non può chiedere più la sospensiva della legge. Mi chiedo quali siano le possibilità di recupero del Governo nazionale e dell’interesse generale.

        Vi è poi il discorso svolto dalla senatrice Ioannucci, che ringrazio per il saluto (ricordo dei vecchi convegni a cui partecipavamo), relativo alla legislazione comunitaria. Si potrebbe dire che le leggi comunitarie si riferiscono allo Stato perché si pensa ancora seriamente che le organizzazioni politiche di tipo statuale, nella loro complessità, si continuino a chiamare Stati anche se al loro interno si ripartiscono negli enti territoriali minori, come recitava benissimo l’articolo 114 vecchia maniera, perfettamente coerente con l’articolo 5. Quelle si riferiscono agli Stati, come a intendere che sarà loro compito stabilire a chi spetterà attuare le direttive comunitarie. Scatterebbe, in questo caso, il potere sostitutivo del Governo, sempre però che non si trovi davanti il diaframma della legge regionale.
        È stato poi affrontato il discorso della Corte costituzionale, che diverrebbe una sorta di camera di compensazione senza avere una sede di intermediazione politica. Al senatore Manzella, il quale affermava che stiamo andando verso la trasformazione del Senato, rispondo che siamo sempre in un sistema di bicameralismo perfetto. Come facciamo a pensare ad una evoluzione del Senato, che diventa una Camera delle regioni, conservando gli stessi poteri dell’altra Camera? Al momento, mi sembra sia molto difficile pensare di modificare il sistema bicamerale.
        Ho fornito risposte a caldo, in riferimento ad argomenti e ad interventi interessantissimi; ringrazio tutti coloro che sono intervenuti nel dibattito e chiedo scusa per la povertà delle mie risposte, dovuta anche all’esigenza di chiudere nei limiti stabiliti dal Presidente; ringrazio anche il presidente Pastore e resto a disposizione per un’eventuale ulteriore illustrazione del mio pensiero.

        PRESIDENTE. Presidente Caianiello, la ringraziamo per essere intervenuto; i tempi, purtroppo, sono dettati dai lavori dell’Aula. Vorrei semplicemente auspicare che vi sia un ulteriore contributo integrativo tra qualche giorno, perché se ne possa tenere conto.

        Dichiaro chiusa l’audizione. Rinvio il seguito dell’indagine conoscitiva ad altra seduta.

        I lavori terminano alle ore 17,30.


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