Il Presidente: Articoli

«Ma Silvio è troppo furbo per restare isolato»

Intervista pubblicata dal quotidiano "La Stampa"

18 Novembre 2007

di Federico Geremicca

Al cronista dell'Ansa detta poche ma inequivoche parole: «E' da un anno che dico che non lo farò mai, che non mi interessa». Un'ora dopo, nel suo studio di presidente del Senato, Franco Marini è ancor più esplicito, perché il ritorno del suo nome come premier di un ipotetico governo istituzionale, gli ha mandato di traverso il primo caffè. «Si figuri - dice - so bene che in politica non si può dire una parola definitiva, e so anche che non mi crederanno. Ma che devo fare? Ecco, scriva che ne riparliamo tra un anno: e vedremo se le mie sono parole sincere oppure no». Ma il quadro che tratteggia in questa prima intervista dopo la Grande Battaglia del Senato, non è a tinte rosee: «I problemi non sono risolti e da domani, anzi, ce li ritroveremo di fronte come prima». Non solo. Ascoltate le critiche ricevute dalla maggioranza per aver concesso lo slittamento di un giorno del voto sulla Finanziaria, rivendica «con orgoglio» il lavoro fatto. Infine una previsione («Berlusconi è troppo intelligente per restare nell'angolo, isolato, nel confronto sulle riforme») e un consiglio all'«amico Veltroni»: «Se si prefigurasse una linea che pensa alla politica solo come immagine, sarebbe un grave errore e io non sarei d'accordo. Ma sono certo che si troverà l'equilibrio giusto».

Presidente, perché è così irritato con chi la candida alla guida di un governo che faccia le riforme? In fondo, non le stanno proponendo di andarsene in esilio...
«Perché... non so più cosa dire. Io ringrazio Dini per la considerazione e le assicuro che prendo le sue parole per vere, prive di intenti tattici: ma è un anno che ripeto no. E il mio è un "no" per oggi, domani e dopodomani. In più, sono orgoglioso del lavoro fatto in Senato. Abbiamo approvato un'altra Finanziaria. Non è stato facile, e se me lo avessero detto mesi fa...».

Non ci avrebbe scommesso una lira, è questo che vuol dire?
«Sarò sincero. Quando fui eletto presidente, con il Senato diviso quasi perfettamente a metà, ero convinto che più di qualche mese non avremmo retto: l'assemblea si sarebbe arenata e poiché la Costituzione prevede lo scioglimento anche di una sola Camera, questa ipotesi l'avevo ben presente. Oggi sono orgoglioso del fatto che, anche col mio contributo, questo Senato sta lavorando. In più, il sì alla Finanziaria mi ha dato grande soddisfazione. Quel voto ha risolto ogni problema? No, certo: i problemi ci sono ancora tutti, ma il clima mi sembra cambiato».

Eppure, lei sembra molto preoccupato. Anzi, irritato. Perché?
«Una delle cose che non capisco è quando si sostiene che il Senato dovrebbe correre più di quanto faccia. E' una pretesa che mi irrita e alla quale non riesco a non rispondere. O lo dice chi non capisce qual è la situazione o lo dice chi ha aspirazioni velleitarie. Il massimo che questo Senato può fare, lo sta facendo. In più, ci aggiunga il regolamento...».

Un altro intralcio al vostro lavoro?
«E' del 1971, redatto in piena epoca consociativa e costruito da Dc e Pci come strumento di garanzia reciproca. Perfino sul calendario dei lavori, se non ho l'unanimità dei capigruppo, devo andare in aula e aprire un dibattito nel quale possono intervenire tutti i senatori. Occorre un lavoro paziente, che tenga conto di tutte le sensibilità.... Altrimenti la paralisi è scontata».

E' il rischio che si correva mercoledì sera, quando ha accettato che il voto sulla Finanziaria slittasse di un giorno?
«Appunto, di un giorno. Eppure ho sentito dire: "Ma come, Marini ha mollato?". Sì, ho avuto critiche dal mio schieramento: ma non tutti capiscono, lo so, e non mi arrabbio molto. Veda, sono appassionato di storia romana e le dico che possono essere tutte brave persone, questi senatori, ma messi assieme... "Senatores boni viri, senatus autem mala bestia". Comunque, ce l'abbiamo fatta. Anche se c'è chi non è mai contento. La sera dello slittamento del voto, il ministro Santagata ha detto: rispetto la decisione di Marini, ma sarei stato più contento se si fosse votato oggi. Ora, tra i miei compiti istituzionali, quello di far felici i ministri non c'è. Però, assicuro che mi impegnerò...».

Secondo lei, l'epilogo della Grande Battaglia del Senato che lezione consegna a vincitori e vinti?
«Che sia gli uni che gli altri - cioè, chi vuol votare nel 2011 e chi vuole le urne nel 2008 - devono convincersi a fare assieme le riforme cose che servono al Paese. Questo ridarebbe credibilità alla politica, e dovrebbe accomunare maggioranza e opposizione. C'è una frammentazione ormai intollerabile. In Senato ogni tanto si alza un senatore, chiede la parola e dice "io parlo a nome del movimento tal dei tali"... Allora io chiudo gli occhi e provo a immaginare il movimento che c'è dietro. Ma è lui, il movimento! Lui solo! Questa è la debolezza del nostro sistema...».

Lei invita al dialogo sulle riforme, ma l'onorevole Berlusconi è fermo nel suo no a qualunque confronto. Che ne dice?
«Che Berlusconi è troppo intelligente per restare da solo nell'angolo: se il dialogo si avvia davvero, Berlusconi sarà della partita. Non è che il leader dell'opposizione non conosca come me tutti i limiti del nostro sistema».

Però la Casa delle Libertà dice: va bene fare le riforme, ma non con Prodi a Palazzo Chigi. Non c'è il rischio che l'attuale esecutivo diventi un ostacolo sulla via del dialogo?
«Invito a guardare a un partito e al suo realismo: la Lega. E' stata durissima al Senato, ma ora dice: il problema-riforme esiste, risolviamolo col governo che c'è. Lavoriamo e vediamo: io ho fiducia nella politica».

In effetti qualche novità c'è: due mesi fa, per esempio, chi diceva che dopo il governo Prodi poteva nascerne un altro per fare la riforma elettorale, passava per provocatore...
«Sì, l'affermazione che non si può rivotare con questa legge elettorale, faceva scandalo. Uno scandalo che continuo a non capire, visto che è il Capo dello Stato ad aver insistito da subito sulla necessità di riformare la legge elettorale... Evidentemente, come dico spesso, il realismo in politica aiuta».

Per restare al tema, non è singolare che Veltroni proponga un modello che non sembra condiviso nemmeno all'interno del Pd?
«A me pare che la proposta di Veltroni sia stata assunta come un avvio di discussione, e non abbia registrato rigetti. Magari non è il modello sul quale si farà l'intesa, ma certo è una base positiva. Credo che Veltroni abbia fatto bene: e ricordiamo che ha avuto la forza di rinunciare alle sue preferenze, che erano - come è noto - per il sistema francese».

Lei non è, dunque, tra quelli che imputano a Veltroni un eccesso di solitudine e leaderismo nella guida del Pd...
«Voglio essere chiaro: un leader che non fosse attento ai mezzi di comunicazione, alla necessità di stare tutti i giorni sui problemi, all'obbligo di svincolarsi da liturgie che tanto ci piacevano - e delle quali ogni tanto si sente forse la mancanza - non sarebbe un leader al passo con i tempi. Ma se questo dovesse prefigurare l'idea che la politica ormai è solo comunicazione e tv, allora dico che non sarei d'accordo e che sarebbe un grave errore. Occorre coniugare un nuovo rapporto con la comunicazione e l'idea che la politica - da sempre - è contatto con la gente e con i quadri dirigenti, oltre che scuola di formazione per i giovani. Va ricercato un punto di equilibrio che coniughi il positivo dei cambiamenti e l'ancoraggio a valori con i quali la politica non diventa sola immagine. Anche perché, mi creda, questo porta con sè il rischio di crolli improvvisi e inarrestabili».

Archivio degli articoli



Informazioni aggiuntive

FINE PAGINA

vai a inizio pagina