Il Presidente: Articoli

Io il Franco mediatore

Intervista al settimanale "L'espresso"

24 Agosto 2006

di Stefania Rossini

Franco Marini rispetta anche da presidente del Senato la sua fama di uomo ruvido e di politico risoluto. Non solo ha concesso poco alla solennità della seconda carica dello Stato, continuando nelle abitudini semplici e indossando abiti esageratamente stazzonati, ma ha riattivato il suo celebrato talento di mediatore guidando un'aula turbolenta e lanciando proposte di dialogo con l'opposizione. Le due anime di ex sindacalista e di ex democristiano che abitano nel corpo ancora giovanile di questo politico di lungo corso, vivono oggi un momento di felice fusione.
Sono le anime che corrono anche lungo questa intervista sentimentale, accettata di buon grado e condotta da Marini con linguaggi diversi. Rotondo e paziente nella descrizione del momento politico, ritroso e scabro sulla vita intima e famigliare, improvvisamente tribunizio quando si sfiorano temi sociali. Allora la voce si alza e i toni si fanno accesi come se davanti non avesse più una persona, ma una piazza in attesa del brivido del persuasore. A dominare resta però la lingua pacata della politica, specie quando si tratta di smentire le voci che lo indicano come il tessitore di future alleanze, il seduttore di senatori del centrodestra o addirittura l'uomo del dopo Prodi.

E' così, presidente? Si dice che lei sia diventato il personaggio chiave.
«In questo caso butto subito la chiave. Non voglio stare dietro a fantasie e manipolazioni. E poi sono troppo vecchio per cominciare nuove avventure».

Eppure sta dimostrando grande vitalità. Non c'è giorno che non si discuta una sua proposta.
«Se è per questo mi devo addirittura frenare. La verità è che a me piace la politica, e credo anche di capirla. Faccio il presidente del Senato nella situazione forse più difficile della sua storia, con una maggioranza che ha appena due voti in più, e ne traggo le conseguenze. In fondo cosa ho detto di strano?»

Per esempio che si può collaborare con Berlusconi e i suoi.
«Vale a dire: una soluzione seria da bipolarismo serio. Non ho parlato di larghe intese, difficilissime dopo lo scontro che c'è stato nel Paese, ma che cosa vieta di discutere con l'opposizione obiettivi di interesse generale come la riforma elettorale, l'ammodernamento del paese e la politica internazionale? Mi sbaglio o l'interesse di un governo è quello di governare?»

E in questo caso quale sarebbe l'interesse dell'opposizione?
«Quello di legittimarsi. E magari smetterla con i richiami antistorici al pericolo comunista. Del resto anche loro si faranno qualche conto e vedranno che, nonostante la tensione, finora al Senato il centro sinistra non ha perso una sola partita».

Sarà uno stress continuo anche per lei. Come lo combatte?
«Le sembrerà strano ma io non conosco lo stress. Non me ne vanto perché è una cosa innata. Fin da ragazzo, se c'era uno scoppio tutti sobbalzavano e io rimanevo tranquillo. Deve dipendere da un sistema nervoso robusto ereditato dai miei avi abruzzesi».

E' questa imperturbabilità che le ha dato fama di uomo di trattativa? Quello che lascia il tavolo per ultimo?
«Se mi passa l'immodestia, le dico che per un periodo sono stato il miglior contrattualista non della Cisl, ma di tutto il sindacato italiano».

Tanto da far dire che uccideva col silenziatore?
«Questa è una battuta di Donat Cattin. Credo che fosse l'unico ad aver capito una cosa: cerco sempre un'intesa però quando arriva il momento della decisione, non c'è nessuno più determinato di me.»

E' così bravo anche a superare le frustrazioni?
«Beh, reagisco bene. A cosa si riferisce?»

Alla sua mancata elezione alla presidenza della Repubblica nel 1999. Ci contava.
«Ci contavo, è vero, ma non per me, per la Iervolino. C'era stato un impegno con D'Alema...»

Prima o dopo la caduta del governo Prodi?
«Assolutamente dopo, quando D'Alema era già presidente del Consiglio. Guardi, io so che una volta ho detto: "Sostenete che ci fu complotto? Bene, ci fu". E' che purtroppo non mi tengo. Mia moglie mi dice spesso: "Tu eri bullo da giovane, e passi. Ma essere bullo da vecchio è imperdonabile».

Che tipo di bullo è stato da ragazzo?
«Innocuo. Qualche scherzo anche spinto, come quando mi travestii da bella di giorno infilandomi a stento un vestito di mia sorella e aspettai un compagno di liceo, il più timido, in una casa di campagna. Ma il più delle volte ero io la prima vittima delle mie vivacità».

Ne racconti una.
«Una notte, per esempio, fui beccato a cavalcioni del cancello del centro studi Cisl di Fiesole da Bruno Storti, allora segretario. Rientravo in piena notte da una festa da ballo con addosso il vestito buono di Carniti, a quadrettini marroni. Non mi cacciarono per un pelo».

Lei nei panni di Carniti? Sembra impossibile, eravate così diversi!
«Però amici, e anche adesso ci vediamo. La nostra rivalità era reale, ma in fondo eravamo complementari. Carniti era di sinistra e veniva dall'esperienza elitaria dei metalmeccanici. Io, democristiano, mi ero fatto le ossa nelle zone agricole della Marsica. Il primo contratto l'ho firmato nel '58 per rendere stabile il lavoro di 2.000 braccianti. Ancora adesso qualche vecchio che mi incontra ad Avezzano mi offre da bere».

Presidente, sembra che lei lo faccia apposta ad apparire sempre un po' rustico: il vino, le bocce, le carte, gli alpini, l'Abruzzo...
«Sta parlando del mio mondo, quello dove sono nato e dove torno appena posso. Sa qual è il mio svago più ambito, il mio vero riposo?»

Quale?
«Prendere la macchina il sabato sera e andarmene da solo a San Pio, il mio paese di 450 abitanti sotto il Gran Sasso. D'inverno è una delle zone più fredde d'Italia. Ci arrivo verso le 10 di sera, quando si vedono solo poche lucette delle case. Cammino per ore per quelle stradine, ascolto il suono dei miei passi, ritrovo i rumori e le impressioni di quando ero bambino».

Com'è stata la sua infanzia?
«Non certo agiata. La mia è una famiglia di emigranti, come quasi tutte in Abruzzo. Mio nonno era andato in America cinque volte. Lavorava un paio d'anni e riportava un po' di soldi per comprare un pezzo di terra. Quando parliamo degli extracomunitari e dei loro diritti, non dovremmo mai dimenticare che appena due generazioni fa eravamo noi gli albanesi!».

Poi lei è cresciuto a Rieti...
«Ma ogni estate tornavo a passare quattro mesi al paese. Mio padre aveva trovato lavoro come operaio alla Snia di Rieti e riusciva a mantenerci tutti. Che uomo mio padre! Una forte personalità. Devo a lui anche la scelta del mio futuro, che stava per essere quello, comunque bello, di maestro elementare».

Come andò?
«Lui era deciso a farmi studiare ma il massimo orizzonte erano le magistrali. Un giorno la professoressa di lettere delle medie si presentò a casa e disse: "No, questo ragazzo deve andare al liceo". Mio padre ebbe l'intelligenza di darle retta. Se n'è andato da poco, a 91 anni, e mi manca».

Lei parla sempre del suo grande padre, mentre non si sa niente di sua madre. Come mai?
«Perché mia madre è morta che io avevo 11 anni».

Mi dispiace averla riportata a una perdita così grande. Ne è stato molto segnato?
«Certo, sono cose drammatiche. Forse il grande legame con mio padre dipende da questo».

Ma poi nella sua vita è arrivata un'altra donna. E non se n'è andata più.
«Sì, mia moglie Luisa. Stiamo insieme dal 1961. Vuole che le racconti come ci siamo conosciuti?».

Certo.
«L'avevo già notata quando lei era al ginnasio e io al liceo, ma era una ragazzina. Poi, qualche anno più tardi, in una di quelle festicciole che si facevano in provincia, i ragazzi di qua e le ragazze di là, mi sono interessato a lei. Ero in licenza. Facevo l'alpino a Bressanone».

Già, i suoi famosi alpini. Mi sono ripromessa di non chiederle niente su di loro.
«E fa male, perché è stata l'esperienza fondamentale della mia giovinezza. Sa che chi è stato alpino lo resta per tutta la vita? Tornando a mia moglie, fu lei che decise di venirmi ad aspettare alla stazione durante un'altra licenza: era imbarazzata e io ero buffo con il cappello in testa. Stiamo insieme da quasi cinquant'anni».

Qual è il segreto per far durare così tanto un matrimonio?
«Ci sarebbe da approfondire, ma non posso farlo in un'intervista. Comunque, credo che abbia contato molto il fatto che mia moglie è una donna straordinaria. E' facile amarla».

E se fosse, come per tutti, il contrario? Poiché l'ama, la vede straordinaria.
«E' possibile, ma il risultato non cambia. E poi ci unisce la diversità, io cattolico, lei laica, io democristiano, lei figlia di comunisti. Credo che fu per lei un grande gesto d'amore votare Dc, quando mi presentai a Roma nel 1992, nelle elezioni in cui riuscii a battere un leader come Sbardella».

Avete anche un figlio ormai trentenne. Guardandosi indietro, che padre ritiene di essere stato?
«Assolutamente presente. E non dico fisicamente perché spesso non c'ero, ma sono stato capace di fargli sentire che ero lì, vicino a lui appena ne avesse avuto bisogno».

Lei ha 73 anni. Come vive il tempo che passa e il pensiero del termine?
«Ci penso, ma senza paure. Le devo confessare una cosa, che forse andrebbe taciuta per scaramanzia: io faccio esattamente la vita che facevo trent'anni fa. Nei viaggi, nel lavoro, negli orari, il mio ritmo non è cambiato per nulla. E poi so come è fatta la morte. L'ho guardata bene in faccia una volta».

Quando?
«Più di quarant'anni fa su uno strapiombo del Terminillo, appeso per 10 minuti nel vuoto con la possibilità di precipitare da un secondo all'altro. Ero scivolato ed ero rimasto agganciato ai miei compagni soltanto con la corda in vita. C'era ghiaccio sulla parete e non riuscivo a fare presa con le mani. Alla fine di 10 interminabili minuti, mi tirarono su».

Si pensa qualcosa in momenti così?
«Soltanto a farcela. C'è una sospensione di tutto il resto. La morte è lì, ma tu lotti per la vita».

Naturalmente lei è credente. Che tipo di rapporto ha con la religione?
«Di profonda convinzione. Su alcuni temi di fondo, come quello del rapporto con la scienza e i confini della vita, accetto la prudenza della Chiesa. Ma sono soprattutto convinto del suo insegnamento sociale. Le idee della fine dell'Ottocento sono valide ancora oggi».

Presidente, ora che l'ho conosciuta meglio, mi toglie una curiosità?
«Dica pure».

Come fece a fidarsi di Buttiglione? Spaccò un partito per farlo segretario e lo rispaccò per liberarsene. Non sembrano mosse da grande contrattualista.
«Le racconto come andò. Non amavo la sinistra democristiana basista, che aveva candidato Mancino alla segreteria. Non volevo che vincessero loro. Buttiglione senza di me non sarebbe mai stato della partita. Feci tutto io. Però non vivevo sulla luna e gli dissi "Guardami negli occhi: centrosinistra?". E lui: "Ma come, me lo chiedi pure?". Poi finì come finì».

Come?
«Andò a cena da Berlusconi e se ne incantò. Organizzai io stesso la sfiducia e siccome mi sentivo colpevole, non accettai la richiesta unanime di fare il segretario. Proposi Gerardo Bianco».

Si guarda mai indietro? Rimpiange quella grande Dc che vi conteneva tutti?
«Quella Dc era un mostro positivo che realizzava una sintesi tra tante anime diverse. Ma era una sintesi che poteva darsi soltanto in quel periodo storico, con il mondo diviso in due e il pericolo reale del comunismo. Quel periodo è finito e poi io sono uno che preferisce guardare avanti. Non mi dica che non si vede».

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