Lo "Scaffale della memoria" ospita le versioni digitalizzate di testi rari e fuori commercio presenti nel catalogo della Biblioteca del Senato, opera di autori di rilievo su temi storici, giuridici, politici, sociali o con attinenza al lavoro parlamentare. I testi, consultabili online sulla pagina di Internet Archive della Biblioteca del Senato o qui scaricabili in formato pdf, sono preceduti da brevi introduzioni che ne illustrano il contesto. Si intende così dare risalto alle collezioni storiche della biblioteca, per offrirle all'approfondimento di lettori e studiosi e mostrarne la notevole attualità.
Le edizioni scelte per essere qui proposte ci risultano non coperte da diritti d'autore; si rimane comunque a disposizione per segnalazioni di eventuali aventi diritto.
I testi dello scaffale
Agostino Bertani, Proposta di inchiesta parlamentare sulle condizioni della classe agricola e principalmente dei lavoratori della terra in Italia
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Il 7 giugno 1872 il deputato dell'estrema sinistra radicale Agostino Bertani, medico e patriota compagno di Mazzini, Cattaneo e Garibaldi nell'opera di risorgimento e unificazione nazionale, presentò nell'Aula della Camera una proposta di inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori agricoli italiani, firmata da altri quarantanove colleghi di vario orientamento politico, con l'obiettivo specifico di acquisire dati e informazioni organiche in merito allo stato dei coltivatori della terra e alle difficoltà che ne affliggevano l'esistenza, minandone la produttività. La finalità sottesa a tale iniziativa non appariva tuttavia meramente utilitaristica, bensì ispirata a un rispetto dei principi di giustizia, opportunità e prudenza che, se da un lato denotava una spiccata valenza etica, con l'esigenza di "riparare i mali" e raccogliere il grido di dolore echeggiante da ogni regione d'Italia, "dall'estrema Sicilia agli ubertosi piani irrigati della Lombardia", conseguiva altresì il risultato di prevenire i danni che il disagio della numerosa classe agricola avrebbe potuto cagionare all'ordine sociale della giovane nazione.
Come dichiarato da Bertani nel testo della relazione introduttiva, l'intendimento espresso nella proposta era appunto "conservatore e progressista ad un tempo", e fu proprio questa duplice natura a contrassegnare le vicende e gli sviluppi successivi dell'inchiesta che da essa prese faticosamente le mosse quattro anni dopo, nel 1876, in seguito all'unificazione del progetto con quello dell'allora ministro dell'agricoltura Castagnola e del suo successore Finali. Lo schieramento politico si divise infatti tra chi riteneva di dover porre l'accento sugli aspetti più squisitamente economici della questione e chi si mostrava invece più interessato ai fattori sociali, con un acceso dibattito che dilatò oltremodo l'iter parlamentare dell'iniziativa. Del resto, già dall'appassionato discorso di Bertani traspariva sia un illuministico desiderio di far luce sulle miserie e le sofferenze dei contadini, perennemente vessati da proprietari rapaci e in stato di penoso abbandono perfino alle porte di Roma, sia un accorto e perspicace calcolo politico circa le disastrose conseguenze che una sottovalutazione o, peggio, un mancato riconoscimento del problema avrebbe comportato. Dovere morale dei rappresentati della nazione era dunque quello di farsi carico della questione, approfondendola anche da un punto di vista umano e indagando nel dettaglio su aspetti cruciali come situazione abitativa, alimentazione, condizioni igienico-sanitarie degli agricoltori, con l'indubbio vantaggio di conoscere e poter analizzare a fondo quella che appariva come una vera e propria emergenza sociale.
L'intento di "prevenire dei danni" e di "promuovere, infine dei conti, del bene" non poteva che pervenire all'altissimo scopo già delineato da Cattaneo, devotamente citato da Bertani nella sua breve dissertazione, cioè quello di "recare alle singole patrie municipali ed alla patria comune un'intima e verace cognizione di se medesima", vero presupposto per ogni istanza di progresso che una nazione degna di questo nome volesse perseguire. Ed è forse in tale consapevolezza che va ricercato il senso profondo di questa iniziativa parlamentare, il cui messaggio di rigore morale e spiccata umanità continua a rimanere valido per chiunque intenda portare un contributo, a livello politico e sociale, al miglioramento della collettività.
Carducci, Letture del Risorgimento italiano
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Accanto al Risorgimento raccontato con lo sguardo critico e disincantato dello storico si affianca il Risorgimento della tradizione poetica. Si tratta di un Risorgimento trasfigurato ed idealizzato che, al pari del mito, supera i contrasti della storia per celebrare ciò che un tempo rappresentò la ragione di vita di numerosi italiani: l'unità nazionale.
Giosuè Carducci è considerato il simbolo, "il vate" dell'Italia riunificata. Fu spettatore di tale avvenimento con spirito misto di entusiasmo e delusione dovuto al contrasto in lui latente di diverse tendenze politiche e culturali: l'apologeta delle imprese di Vittorio Emanuele si intrecciò intimamente sin dalle origini con il repubblicano giacobino cultore della tradizione democratica e rivoluzionaria di derivazione francese, e tale dualismo culminò nel 1870 in una crisi che portò il poeta ad una graduale conversione artistica e politica. Le idee repubblicane che avevano animato gli anni giovanili del Carducci mutarono in un lento riconoscimento dell'istituzione monarchica quale summa e unica realizzazione possibile degli ideali risorgimentali.
L'unità geografica di un paese non implica necessariamente che anche il suo popolo sia unito, questo al Carducci fu chiaro sin da subito; lo Stato era uno ma non si poteva affermare che fosse uno lo spirito che lo animava. Ecco perché il poeta, repubblicano all'antica, si avvicinò alla monarchia. Quale difensore dell'unità, egli scorse nel superstite repubblicanesimo un'insidia di dissidenza regionalistica. Volendo utilizzare le parole di Giovanni Spadolini, possiamo affermare che questo vate della ribellione si scopre per quello che è realmente: ossia "un conservatore intransigente dello Stato". Una volta riunificato la penisola, l'azione del Risorgimento si sarebbe dovuta rivolgere alla creazione di un'identità nazionale e avrebbe dovuto fare degli italiani un popolo e dello Stato una struttura sociale, civile e militare paragonabile a quella delle grandi potenze europee. Carducci affida idealmente questo compito alla monarchia, conscio del fatto che gli ideali mazziniani sarebbero rimasti per un lungo periodo di tempo appannaggio di ristrette élites nell'ambito della società civile e dello Stato.
Le Letture del Risorgimento Italiano, di cui si pubblica l'introduzione, videro la luce alla fine del 1895.
Esse rappresentano il più grande tributo che il poeta potesse fare alla storia dell'unità nazionale; storia raccontata attraverso le voci e le testimonianze degli stessi protagonisti, attraverso un'antologia strutturata in due volume comprendenti un totale di centotrentacinque testi in prosa proposti al pubblico come monumento di una memoria condivisa quale elemento indispensabile per cementare l'unità della Nazione.
L'opera costituisce inoltre una rivoluzione nel campo degli studi risorgimentali poiché stabilisce nuovi canoni metodologici di ricerca. Carducci fu tra i primi a rompere lo schema ormai codificato che vedeva compiersi nell'arco temporale dal 1815 al 1870 il nostro riscatto nazionale. Egli infatti anticipò le origini del moto unitario al 1748, anno del trattato di Aquisgrana, con il quale si inaugurava un periodo storico denso di trasformazioni intellettuali, quel Settecento illuminista e riformatore in cui il poeta vide il germe del nascente Risorgimento. Il Carducci trattò l'unità con sguardo nuovo, non solo come un fatto politico - territoriale, bensì come un moto di coscienze di cui riteneva indispensabile individuare le radici morali ed intellettuali prima ancora di quelle diplomatiche.
Come si evince dall'introduzione, il poeta affrontò il periodo in questione ripartendolo in tre cicli ciascuno della durata di quarant'anni. Il primo, dal 1748 al 1789, "di pace, di riforme, di preparazione"; il secondo, dal 1789 al 1830, "di contrasto, di confusione, di aspettazione"; il terzo, dal 1830 al 1870, "di ravvivamento, di svolgimento, di risolvimento". L'opera infatti non vuole fare la storia dell'Italia, bensì "la storia delle idee e della letteratura" che ispirarono gli ideali risorgimentali e che instaurarono lo spirito moderno "nelle produzioni della fantasia e del sentimento". Il fine precipuo delle Letture è pedagogico, e Carducci si rivolge agli italiani per rinsaldare quei valori che, anni addietro, avevano spinto il popolo ad insorgere. Il fatto che l'opera venisse adottata nelle scuole come libro di testo fu fonte di immenso orgoglio per il poeta, poichè, attraverso la lettura di quelle pagine, i giovani italiani avrebbero affrontato lo studio dell'unità da una diversa angolatura, imparando ad apprezzare, prima ancora che le battaglie e gli eroi, le idee che di quegli eroi avevano mosso le imprese. Le Letture sono un inno ai valori insiti nella vicenda unitaria perché "né mai unità di nazione fu fatta per aspirazioni di più grandi e pure intelligenze".
Edoardo Caroni, Il resoconto stenografico parlamentare
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Presentazione a cura di Fabio Angeloni, Stenografo capo dell'Ufficio resoconti del Senato, e Paolo Antonio Michela Zucco, ex Stenografo parlamentare capo e curatore della digitalizzazione del sistema Michela.
Il dott. Edoardo Caroni, capo stenografo e futuro direttore del Servizio resoconti del Senato del Regno, scrive nel 1930 questo breve saggio per corrispondere all'invito del capo della sua amministrazione a redigere per una rivista un articolo sul resoconto stenografico parlamentare. Tale forma di documentazione dei lavori parlamentari aveva fatto la sua prima comparsa nel 1848, a seguito della promulgazione dello Statuto Albertino, che all'articolo 52 prevedeva per le nuove Camere il principio della pubblicità dei lavori. Seguendo le prassi della più antica esperienza parlamentare inglese e successivamente di quella statunitense e francese, tale principio a quel tempo si realizzava unicamente secondo due modalità: l'ammissione del pubblico - e in particolare dei giornalisti - alle sedute delle Assemblee (pubblicità diretta) e la redazione del resoconto stenografico di ogni seduta (pubblicità indiretta).
Il titolo del saggio di Caroni non deve trarre in inganno poiché l'autore, più che sul resoconto stenografico parlamentare, riteneva doveroso soffermarsi principalmente sulla descrizione della macchina che veniva utilizzata per la sua redazione, anche perché il 1930 è un anno particolare, decorrendo il cinquantenario della sua adozione in quel ramo del Parlamento.
La macchina Michela fa la sua prima comparsa al Senato del Regno sul finire del 1880. Tale rivoluzionario dispositivo pone fine a un periodo difficile per i resoconti parlamentari di questo ramo del Parlamento, dovuto alla carenza di stenografi manuali, alla lentezza nella produzione dei resoconti per la presenza di più sistemi, stenografici e non, e alla difficoltà di far trascrivere gli stenogrammi a operatori diversi dal loro autore. Il Senato italiano diviene così il primo contesto assembleare al mondo a utilizzare per la redazione dei resoconti, anziché la tradizionale stenografia manuale, la stenografia a macchina (cd. stenotipia), che aveva fatto la sua comparsa nei primi decenni del secolo con l'ideazione di svariati sistemi e tastiere, nessuno dei quali però aveva avuto applicazione pratica. Fin da subito la macchina Michela si presenta come un dispositivo molto innovativo e al contempo di notevole semplicità. Essa viene ideata dal prof. Antonio Michela Zucco a seguito di lunghi studi condotti sull'apparato vocale umano e sui suoni da esso producibili, nel perseguimento di quello che sarà il suo ideale di vita: realizzare un alfabeto universale unicamente basato su valori fonici con la creazione di un'espressione grafica del suono delle parole che fosse comune per tutti i linguaggi, così come la scrittura musicale per ogni tipo di musica e di strumento. Tale alfabeto, secondo gli intenti dell'inventore, avrebbe costituito un potente mezzo per la frantumazione delle barriere linguistiche, la circolazione del sapere e l'affratellamento dei popoli.
L'autore sottolinea come sia stata data scarsa rilevanza alla figura dell'inventore e alla sua pregevole opera, che avrebbe meritato ben altro rilievo. Del resto, a seguito di questa esperienza di cinquant'anni di utilizzo della macchina al Senato risultava a tutti evidente come la stessa rispondesse brillantemente alle peculiari esigenze di un buon servizio stenografico parlamentare, con particolare riguardo all'esattezza e alla celerità del resoconto. I suoi pregi erano molteplici. Innanzitutto, l'universalità della macchina, derivante dalla sua base fonica che traeva origine e si ricollegava al concetto di alfabeto universale, consentiva di registrare facilmente termini stranieri o anche frasi in altre lingue catturandone foneticamente il suono pur senza conoscerne il significato. In secondo luogo, trattandosi di un sistema meccanico, esso era caratterizzato da una notevole chiarezza degli stenogrammi, leggibili, dopo un breve addestramento, anche da persone diverse dal loro autore e che potevano così restare nel tempo un documento sempre consultabile per ogni evenienza. La macchina Michela permetteva inoltre una notevole celerità di scrittura, con un minor affaticamento mentale e una resistenza al lavoro di gran lunga superiore a quelli della stenografia manuale. A differenza dei sistemi stenografici manuali la sua tastiera consentiva poi la cosiddetta scrittura cieca, con la possibilità di guardare l'oratore; il che permetteva di comprendere dall'espressione del viso o da un gesto qualsiasi il significato di una parola o di una frase mal pronunciata, nonché di registrare le interruzioni, vedere cenni di consenso o di diniego e da chi erano partiti. Non da ultimo, si trattava di un sistema stenografico completamente italiano, non già dell'adattamento di un metodo straniero alla lingua italiana, come gran parte degli altri allora in uso. Del resto la bontà dell'approccio seguito dall'inventore, basato sulla scrittura fonetica ad accordi, sarà comprovata anche dalla storia: a livello internazionale la gran parte delle macchine stenografiche successivamente ideate e utilizzate a tutt'oggi - la francese Grandjean (1908), l'americana Stenotype (1911) e l'inglese Palantype (1939) -hanno seguito il medesimo approccio.
L'autore conclude il suo scritto affermando che la Michela resta e resterà insuperata fino al giorno in cui si riuscirà a ideare una macchina stenografica in grado di sopprimere la necessità di tradurre gli stenoscritti riproducendo i discorsi direttamente in caratteri comuni. Tale risultato verrà brillantemente conseguito dall'amministrazione del Senato nel 2002 con la digitalizzazione del sistema Michela e l'applicazione allo stesso dei moderni software di trascrizione stenografica computerizzata, a seguito di uno studio condotto dagli stessi stenografi parlamentari. Ciò permetterà ancora una volta al Senato di conseguire un primato tra tutti i Parlamenti mondiali con l'offerta al pubblico di un ulteriore prodotto innovativo: il Resoconto stenografico in corso di seduta.
Cavour, Memorandum sulla situazione d'Italia
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Il Memorandum sulla situazione d'Italia, che reca la data ufficiale del 1° marzo 1859, fu redatto in una prima stesura da Domenico Carutti, alto funzionario del Ministero degli esteri e storico, e ampiamente rimaneggiato dal Conte di Cavour, che ne modificò il contenuto e l'approccio in relazione al tumultuoso e mutevole andamento degli eventi che precedettero l'inizio della seconda Guerra d'indipendenza. Il fatto che un documento diplomatico venisse riscritto direttamente dal Primo Ministro del Regno di Sardegna fornisce di per sé un'idea sufficientemente precisa della sua grande rilevanza. Si trattava infatti della risposta all'invito del governo conservatore britannico di conoscere quali fossero le lagnanze del re di Sardegna nei confronti della presenza austriaca nella penisola italiana. La posta in gioco era indubbiamente molto elevata, in quanto i risultati degli incontri segreti di Plombières tra Napoleone III e Cavour, una volta trapelati nelle cancellerie europee, avevano suscitato non poco allarme e preoccupazione, soprattutto nei governi della Gran Bretagna e della Prussia (alla cui cancelleria era anche indirizzato il Memorandum). In particolare, in seno al gabinetto conservatore britannico, rispetto al tradizionale favore con cui il governo e l'opinione pubblica inglese avevano sempre considerato la causa dell'unità italiana, era prevalso il timore che l'attivismo di Napoleone III, e la sua dichiarata intenzione di far leva sul principio di nazionalità per rimettere in discussione i trattati del 1815, potesse finire con il compromettere l'equilibrio europeo e aprire la strada ad una nuova egemonia francese nel Vecchio Continente. Dal canto suo, l'Esecutivo prussiano, guidato dal principe Antonio Hohenzollern di Sigmaringen, perseguiva una politica grande-tedesca, basata sull'intesa con la monarchia asburgica, diametralmente opposta alla linea che avrebbe guidato pochi anni dopo la politica estera di Bismark, grande ammiratore di Cavour, in direzione di un'alleanza con l'Italia unita in funzione antiaustriaca.
Da questo insieme di circostanze traeva origine l'esigenza britannica di sondare le effettive posizioni del Governo del Re di Sardegna, al fine di verificare la sussistenza delle condizioni per pervenire a un'intesa pacifica, sotto l'egida delle grandi potenze, ed avviare a soluzione la questione italiana, contrastando al tempo stesso l'iniziativa francese. Pochi giorni dopo il Memorandum, il 18 marzo, veniva inoltre formalizzata la proposta russa di una conferenza internazionale delle grandi potenze sulla situazione italiana, dalla quale, inizialmente, si era pensato di escludere il Regno di Sardegna e gli altri Stati italiani.
Tra gennaio e aprile 1859 si consumarono i momenti forse più difficili per Cavour, che, mentre assisteva impotente ai tentennamenti di Napoleone III, incline ad aderire alla proposta compromissoria della Russia, giunse a prendere in considerazione l'ipotesi di dimettersi, nel presupposto che il suo progetto per giungere alla guerra con l'Austria fosse ormai definitivamente compromesso. Il Memorandum è il segno di queste difficoltà, ed al tempo stesso un brillante esempio di un'argomentazione indirettamente volta a dimostrare come la strada più diretta per giungere a stabilizzare la situazione politica della penisola consistesse proprio in una limitazione dell'egemonia austriaca di dimensioni tali da comportare di fatto l'estromissione del'Impero asburgico. Cavour dimostrava infatti come il governo diretto nel Lombardo-Veneto, pur conforme ai Trattati del 1815, fosse però inviso alla popolazione ed incompatibile con la fonte di legittimazione che, negli ordinamenti liberali, è rappresentata dal consenso dei governati; al tempo stesso, non conforme alla lettera dei Trattati era invece giudicata la continua ingerenza austriaca negli affari interni del Granducato di Firenze, del Granducato di Modena e dello Stato della Chiesa, con occupazioni temporanee di territorio e mantenimento di guarnigioni al di fuori delle proprie frontiere. Pertanto, egli proponeva come rimedio, l'autogoverno del Lombardo Veneto, al quale avrebbe dovuto essere esteso il sistema rappresentativo, e la formazione di un esercito nazionale, nonché il ritiro dei presidi austriaci dagli altri Stati del Centro-Nord della penisola: proposte inaccettabili per la diplomazione austriaca, tanto più che l'insistenza con cui Vienna subordinò la propria partecipazione alla conferenza internazionale al disarmo dei volontari italiani che avevano cominciato ad affluire in Piemonte, portò al fallimento dell'iniziativa russa, ed al precipitare degli eventi che avrebbero portato, il 29 aprile, all'attraversamento del Ticino da parte dell'esercito austriaco ed all'inizio delle operazioni militari congiunte franco-piemontesi della seconda Guerra d'indipendenza.
Guide international des Archives
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Presentazione a cura di Debora Chiarelli, dottoranda in Scienze documentarie, linguistiche e letterarie presso Sapienza Università di Roma.
Introduzione
Già a partire dalla fine dell'Ottocento il dibattito internazionale sugli archivi era vivo, anche al di fuori del contesto strettamente archivistico. Elio Lodolini, nella sua Archivistica. Principi e problemi, illustra le tappe delle prime relazioni internazionali che consentirono alla comunità scientifica e professionale nel settore archivistico di maturare la consapevole necessità di avere un organismo autorevole che accogliesse voci provenienti da tutto il mondo. Com'è noto, il Consiglio internazionale degli archivi (ICA, International Council on Archives - Council International des Archives) nacque nel 1948, alla fine dei due conflitti mondiali. Tuttavia, il periodo immediatamente precedente fu ricco di attività, soprattutto a partire dal 1931 con la costituzione del Comitato permanente di esperti archivisti, costituito presso la Società delle Nazioni, nell'ambito dell'Istituto internazionale della cooperazione intellettuale (IICI), con sede a Parigi (l'archivio dell'IICI, confluito negli archivi dell'Unesco, è consultabile oggi in forma digitalizzata attraverso l'Archives database Access to Memory ─ AtoM).
Il Comitato era composto da nomi illustri del panorama archivistico europeo, tra cui figurano Eugenio Casanova (Italia), Ludwig Bittner (Austria), Henri Courteault (Francia), Joseph Cuvelier (Belgio), Robert Fruin (Olanda), Hilary Jenkinson (Regno Unito), Heinrich Otto Meisner (Germania), J. Siemienski (Polonia), F. Valls-Taberner (Spagna).
Uno dei primi obiettivi del Comitato fu la realizzazione di un piano di collaborazione tra le amministrazioni archivistiche nazionali.
La preparazione della Guida
La proposta di realizzare una guida internazionale degli archivi fu avanzata da Jenkinson già nel corso delle prime riunioni del 1931 e fu sostenuta da tutti i rappresentanti del Comitato con l'obiettivo di mettere a disposizione non solo degli archivisti ma anche di studiosi appartenenti ad altri ambiti, le informazioni necessarie per conoscere, nelle linee essenziali e in una veste facile da consultare, i diversi sistemi archivistici europei. La pubblicazione della Guida nel 1934 fu limitata all'Europa, sebbene vi fosse la volontà di estenderla successivamente ai paesi oltreoceano. I carteggi del Comitato dal 1936 al 1939 conservano la corrispondenza con i direttori degli archivi nazionali di Argentina, Brasile, Cuba, Equador, Guatemala, Haiti, Messico, Venezuela, a testimonianza di un intenso lavoro preparatorio per il secondo volume dedicato all'America centro-meridionale, che tuttavia non fu mai pubblicato.
Per la raccolta sistematica delle informazioni, il Comitato elaborò un questionario, composto di ventidue quesiti suddivisi in quattro sezioni, che venne indirizzato ai rappresentanti delle commissioni di cooperazione intellettuale di ciascuna nazione. Per i paesi non rappresentati all'interno della Società delle Nazioni il questionario venne inviato direttamente alle amministrazioni archivistiche centrali oppure alle organizzazioni internazionali di diritto pubblico. Le domande riguardavano tutte le categorie di archivi presenti sul territorio nazionale (archivi di Stato; archivi delle amministrazioni regionali, locali o coloniali; archivi privati; archivi ecclesiastici).
La prima sezione Natura, luogo del deposito e organizzazione delle differenti categorie d'archivio riguardava questioni di carattere amministrativo sull'esistenza o meno degli archivi di deposito, sulle differenti categorie di deposito, sulle autorità competenti per i depositi e sui rapporti che intercorrevano tra queste e gli archivi centrali. Le domande erano finalizzate inoltre ad acquisire informazioni sull'esistenza di cataloghi a stampa e di altri strumenti, come guide generali, guide speciali o altre pubblicazioni, che annunciavano le nuove acquisizioni o le diminuzioni dei fondi. In questa sezione si indagava inoltre l'esistenza di regole e norme per la redazione di inventari o di indici relativi a specifici periodi storici.
La seconda sezione Regolamenti per la conservazione e l'eliminazione degli archivi era destinata alla normativa per la conservazione e lo scarto, anche con riferimento al trattamento e alla destinazione finale degli archivi privati di personalità che in vita avevano esercitato pubbliche funzioni. Le domande si soffermano sulle procedure di scarto, sui tempi individuati dalle leggi e sull'esistenza di strumenti per l'individuazione di precise tipologie archivistiche che potevano essere scartate alla fine di un tempo definito. Una domanda riguardava infine gli attori coinvolti nello scarto e in particolare se fosse prevista la partecipazione o meno di un archivista o di altra autorità statale.
La terza sezione Facilitazioni per l'utilizzo pubblico degli archivi raccoglievainformazioni sull'esistenza di regolamenti per i servizi destinati al pubblico, e quindi per disciplinare la consultazione, la riproduzione fotografica dei documenti e le procedure di riproduzione in uso. Si chiedeva inoltre di specificare se gli archivi rilasciassero al pubblico copie autentiche e quali fossero le condizioni di prestito all'interno della nazione e all'estero.
Infine, la quarta sezione Questioni tecniche sulla sicurezza degli archivi registrava le esperienze sugli immobili destinati agli archivi e l'esistenza di studi o pubblicazioni sull'argomento. Le domande si soffermano sulle misure individuate per la protezione degli archivi da ogni possibile causa di distruzione (animale, vegetale e chimica); si chiedeva di indicare se ci fossero autorità scientifiche preposte alla risoluzione dei problemi ed eventuali studi pubblicati; quali strumenti di restauro fossero adottati per la documentazione antica; ed eventuali suggerimenti per garantire la buona conservazione dei documenti destinati a prendere posto negli archivi moderni.
La pubblicazione
La Guide international des Archives. Europe fu edita nel 1934 e redatta in francese da Biblioteca d'arte editrice, un editore romano a cui era stata affidata proprio in quegli stessi anni la nuova serie della rivista "Archivi d'Italia", già pubblicata dal 1914 al 1921 col nome di "Archivi italiani" (la rivista fondata e diretta da Eugenio Casanova).
La guida si compone di tre volumi. Il primo volume raccoglie le risposte al questionario relativamente a quarantadue realtà territoriali: Albania, Andorra, Austria, Belgio, Bulgaria, Cecoslovacchia, Danimarca, Danzica (Città libera di), Estonia, Finlandia, Francia, Galles, Germania, Grecia, Inghilterra, Irlanda del Nord, Irlanda (prima della costituzione dello Stato libero), Irlanda (Stato libero di), Islanda, Isole Anglo-Normanne, Italia, Jugoslavia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Monaco, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Regno Unito, San Marino, Scozia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria, U.R.S.S., Vaticano (Città del).
Il secondo volume contiene una raccolta di tavole e documenti provenienti dai paesi oggetto di indagine, con la finalità di presentare alcune pietre miliari appartenenti a dieci secoli di storia europea.
Il terzo volume costituisce il supplemento alla Guida e contiene un saggio storico-giuridico di Serafino Pistolese, Les archives européennes du onzième siècle à nos jours, già pubblicato in Italia nell'annata 1933-1934 di "Archivi d'Italia" col titolo Développement et caractère des Archives du onzième siècle à nos jours. Essai historique.
Vennero date alle stampe 175 copie destinate alla vendita (numerate da 1 a 175). Gli esemplari dal 176 al 200 furono dichiarati invece fuori commercio.
La copia che si conserva presso la Biblioteca del Senato è l'esemplare n. 55.
Responsabilità dell'opera
La Guida fu realizzata da un sotto-comitato composto da tre illustri archivisti: Eugenio Casanova (direttore dell'Archivio di Stato di Roma), Joseph Courteault (direttore dell'Archivio nazionale di Francia) e Hillary Jenkinson (Assistant Keeper del Public Record Office di Londra).
L'autore del saggio contenuto nel terzo volume, Serafino Pistolese, era archivista dell'Archivio di Stato di Roma, assegnato dal 1929 a prestare servizio presso la Commissione internazionale della Cooperazione intellettuale a Parigi, dove rimase fino al 1938. Partecipò con Casanova alla redazione della rivista "Archivi italiani", su cui comparvero alcuni suoi contributi. Nell'anno di pubblicazione della Guida, Pistolese ricopriva il ruolo di segretario del Comitato internazionale permanente di esperti archivisti dell'IICI.
Mazzini a Roma
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Nel 1922, anno-simbolo della crisi dello Stato liberale, cadde anche il cinquantesimo anniversario della morte di Giuseppe Mazzini. La municipalità di Roma volle celebrare questa ricorrenza con la pubblicazione di una breve antologia di lettere, scritti e discorsi risalenti al periodo in cui l'apostolo della democrazia italiana, smentendo la non sempre positiva fama di predicatore idealista e visionario, diede prova di straordinarie capacità politiche e diplomatiche, come membro dell'Assemblea Costituente prima e poi come triumviro della Repubblica Romana, mostrando al tempo stesso flessibilità e rigore, consapevole, anche nell'estremo volgere della crisi, della necessità di conservare un rapporto equilibrato tra potere esecutivo e rappresentanza popolare, quest'ultima impegnata fino all'ultimo nel lavoro di redazione di una Costituzione che, per lo spirito democratico e sociale che la animò, merita di essere annoverata tra i precursori della Carta del 1948.
A fronte di tali memorie, l'anno di pubblicazione dell'antologia si presentava gravido di incertezze e di timori e denso di avvenimenti per tutto il paese, ma in particolare per Roma: alla crescente tensione politica, che vedeva gran parte della popolazione della capitale su posizioni di diffidenza se non di aperta ostilità nei confronti dell'avanzata del fascismo, si aggiungevano altri eventi che segnavano in modo particolare la vita della città, dalla morte di Benedetto XV, il papa che durante il primo conflitto mondiale si era appellato ai governanti affinché fermassero "l'inutile strage", all'elezione di Achille Ratti, che assunse il nome di Pio XI; dall'affermazione delle forze conservatrici nelle elezioni comunali del 1920 e politiche del 1921, alla crisi della giunta liberalnazionalista, con la successione di tre sindaci in due anni, Luigi Rava, Giannetto Valli e Filippo Cremonesi. Quest'ultimo, membro del PNF ed ultimo sindaco eletto, dopo lo scioglimento della giunta comunale da parte del governo Mussolini (1923), ricoprì la carica di Commissario straordinario, e dal 1925, di primo Governatore della Capitale.
Gli scritti mazziniani che qui si presentano dovettero assumere anche all'epoca un significato che andava molto al di là del momento celebrativo per il quale erano stati concepiti; oggi essi si ripropongono come una riserva di valori e significati alla quale è possibile attingere per una riflessione sui temi della politica come servizio e della democrazia come valore fondativo ed irrinunciabile patrimonio della collettività nazionale, temi che, allora come ora, offrono validi parametri per la lettura del passato e per la progettazione del futuro.
Pasquale Villari, Discorso sul generale Giuseppe Garibaldi
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La breve orazione pronunciata nell'Aula magna dell'Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze da Pasquale Villari - allora deputato e docente di storia moderna - il 29 giugno 1882, in occasione della morte di Giuseppe Garibaldi avvenuta il 2 giugno di quell' anno, appare già a una prima lettura un mirabile esempio di eloquenza, mai disgiunta dalla profonda capacità di analisi che connotò l'opera dello storico. La figura dell'Eroe dei Due mondi viene tratteggiata con particolare icasticità, alla luce del principio ispiratore di tutta la riflessione storiografica di Villari, cioè la nozione che "l'uomo è nato a vivere per gli altri, e solo in ciò può ritrovare la sua felicità; che esso è fatto dalla natura in maniera che tutto quello che, nella sua vita intellettuale e morale, non riesce a santificar col dovere, resta profanato e decade", come egli afferma nei Saggi critici di storia, letteratura, arte, filosofia. Il discorso è dunque pervaso da un'ammirazione sincera per il Generale, mitigata tuttavia da un senso critico nei confronti delle umane vicende, che Villari eresse a metodo e strumento d'indagine al fine di ravvisarne l'esatta portata e comprenderne motivazioni e sviluppi; così, in un afflato idealistico benché mitigato da una scrupolosa volontà di ricerca, viene ripercorsa l'avventurosa lotta garibaldina, dalle battaglie a difesa dei popoli sudamericani oppressi alla gloriosa epopea della Repubblica romana, dalla Seconda guerra d'indipendenza all'impresa dei Mille, fino alle campagne in Francia.
L'intensa attività di studi sociali che farà del Villari uno dei fondatori del meridionalismo liberale, nella tradizione inaugurata con la "Rassegna settimanale" di Franchetti e Sonnino fino a Giustino Fortunato e oltre, si riverbera in questa commemorazione, pubblicata per i tipi di Le Monnier, in cui s'intende cogliere, nelle gesta garibaldine, la "psicologia dei popoli" attraverso la vita di un grande uomo, paradigma e nobile espressione della coscienza nazionale. L'ottica disincantata con cui Villari guarda al movimento risorgimentale, accusato di aver dato luogo a un rinnovamento solo esteriore del Paese, trova spazio nella riflessione sul rapporto tra il Generale e le masse del Mezzogiorno, catalizzate dalla sua superiorità morale, prima ancora che bellica; ed è l'Eroe dei Due mondi, nella valutazione critica dello storico, "il più efficace strumento di unificazione" di quell'Italia divisa che con Garibaldi manifesta la parte migliore di sé. La magnanimità del condottiero nizzardo rappresenta il filo conduttore di tutta l'allocuzione, coerentemente con l'ideale civile affermato dal Villari nelle sue opere quale elemento genuino dell'identità nazionale, da opporre al degrado morale e politico iniziato nel Rinascimento e affermatosi sempre più attraverso i secoli nel segno della sottomissione allo straniero, come enunciato nella Storia di Gerolamo Savonarola e nel Niccolò Machiavelli.
Nella visione del Villari, l'eredità più alta di Garibaldi è appunto l'aver sacrificato la propria esistenza "a quello che a lui pareva diritto e giustizia"; in questo afflato morale si può ravvisare l'elemento caratterizzante del lavoro del grande storico, alla luce del quale si orienta il suo pensiero critico, nella consapevolezza che "quando gl'interessi locali e le passioni individuali ... tornassero a svegliarsi, noi dovremmo temere per la patria"; notazione, questa, oggi quanto mai valida, a dimostrazione che la storia, nel senso tucidideo del termine, va considerata "possesso per sempre", monito per le presenti e le future generazioni.
Jessie White Mario, The poor of Naples
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In occasione del centocinquantenario dell'Unità non si può non accennare alle tante donne che, al pari degli uomini, hanno avuto un ruolo rilevante nel processo di costruzione dello stato nazionale italiano. Sono state un gruppo numeroso, di diverse estrazioni sociali, unito nell'intento di costruire un paese in cui riconoscersi e trovare espressione. Le donne sono dunque presenti nella storia del Risorgimento e vi hanno partecipato attraverso una molteplice varietà di scelte, di atteggiamenti e di ruoli; la maggior parte sono protagoniste sconosciute all'interno di quella che è una storiografia ancora troppo maschile.
Tra le tante che hanno contribuito alla causa nazionale si annovera l'inglese Jessie White Mario, moglie del patriota Alberto Mario, che si dedicò con passione al riscatto politico e civile dell'Italia. Jessie iniziò ad occuparsi della causa italiana sin dal 1856, quando, su suggerimento di Mazzini, cominciò a curare una rubrica dal titolo Italy for Italians sulle colonne del quotidiano londinese Daily news. Formatasi politicamente nell'ambiente repubblicano, partecipò all'impresa dei Mille, alternando l'attività di infermiera a quella di giornalista. Compiuta l'unificazione, il suo impegno politico non si esaurì ma si rivolse ai 'nuovi italiani', in particolare al popolo partenopeo che dalla recente annessione usciva ancora più misero e degradato di prima. Spinta da Pasquale Villari, affrontò i temi della questione meridionale e della questione sociale con due inchieste: la prima, pubblicata nel 1877, per l'editore fiorentino Le Monnier, dal titolo La Miseria in Napoli e la seconda, pubblicata nel 1895 nell'opera collettiva The poor in great cities, dal titolo The poor in Naples.
Jessie White Mario, così come altri scrittori, ha denunciato, con occhio critico e spietato, una realtà conosciuta ma largamente ignorata dagli uomini politici dell'epoca: la povertà e l'arretratezza in cui versavano tutte le province meridionali. Al momento dell'annessione la situazione al Sud era caratterizzata da una grave arretratezza economica: in agricoltura, il latifondo conviveva con la polverizzazione della proprietà terriera, tale, spesso, da impedire di superare la barriera di un'economia di sussistenza, mentre l'industria risultava poco sviluppata anche per l'inconsistenza delle infrastrutture. Anziché modificare le condizioni di vita delle popolazioni partenopee, intervenendo sugli aspetti strutturali dell'arretratezza, il governo centrale optò per una politica tributaria che andò a ledere ancora di più la già precaria situazione del meridione. La grandinata di tasse che si abbatté sui cittadini impedì l'accumulazione di risparmio e di capitale, bloccando il potenziale sviluppo industriale del Sud. Per Napoli, la perdita del rango di capitale, con il trasferimento del baricentro politico al Nord, ebbe conseguenze anche di carattere economico, con la crisi del complesso delle attività commerciali e artigianali che avevano gravitato attorno alla corte borbonica. Lo stato di indigenza che derivò da questa situazione è al centro dell'inchiesta della Mario, la quale visitò di persona i bassifondi di Napoli per conoscere e descrivere con perizia la realtà delle cose. La sua seconda inchiesta prende in esame anche le conseguenze della Legge per il risanamento di Napoli, varata nel 1884 per cercare di porre un freno al degrado cittadino attraverso una nuovo assetto urbanistico della città. La legge in questione proponeva in sostanza la bonifica dei quartieri più poveri attraverso la loro demolizione e la costruzione di una strada principale dalla stazione centrale al centro cittadino. In realtà alle spalle dei grandi palazzi umbertini la situazione rimase immutata: essi servirono solo a nascondere meglio il degrado e la povertà di quei rioni. Come la Mario ha sottolineato nelle pagine della sua inchiesta e come hanno ribadito numerosi altri intellettuali dell'epoca, la miseria di Napoli non fu debellata ma soltanto confinata dietro il paravento della città 'per bene'.