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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 48 (Nuova Serie), dicembre 2018

Primo Levi e Anna Frank: tra testimonianza e letteratura / Maria Anna Mariani

«Una singola Anna Frank ci commuove più che gli innumerevoli altri che hanno sofferto proprio come lei, ma le cui facce sono rimaste nell'ombra. Forse è meglio così: se fossimo capaci di contemplare le sofferenze di tutte quelle persone, non saremmo capaci di vivere» (P. Levi, I sommersi e i salvati, 1986). Con queste righe Primo Levi ritraeva e meditava, con intensa brevità, lo straordinario potere icastico e pervasivo della voce e del volto della giovane "fanciulla d'Olanda", indicando in lei un'iconicità che fu anche la propria, e definendola inestricabilmente da un paradosso che attraversa, da una parte, il farsi interprete diuna realtà abnorme, sovra-singolare e, di per sé, indicibile, quale fu l'esperienza della deportazione, dall'altra, la possibilità di questa di essere recepita, concepita e, infine, condivisa da chi non l'ha patita: quello di un unico corpo che si fa segno di un trauma anonimo e collettivo, miniaturizzandolo per renderlo linguaggio delineato e percepibile.

È proprio in questo paradosso, nella tensione in cui la resa testimoniale prende forma con la scrittura, nella complessità dei processi, fino anche alle derive, della sua assimilazione empatica, che Maria Anna Mariani, docente di Letteratura italiana contemporanea alla University of Chicago, affonda lo sguardo, accostando i due casi-simbolo della Shoah in un confronto raramente così ravvicinato e raccogliendo lucide, a tratti provocatorie e, insieme, sempre appassionateriflessioni nel suo volume del 2018 Primo Levi e Anna Frank: tra testimonianza e letteratura, edito da Carocci per la collana Lingue e letterature.

Primo Levi e Anna Frank incarnano, in modi diversi, l'esperienza di una scomparsa di massa e ciò che contemporaneamente la contrasta persistendo: non solo la sopravvivenza in quanto resto, ma anche, e forse soprattutto, come memoria attivata dalla parola testimoniale. Sono, in tal senso, i due testimoni per eccellenza della deportazione. La loro testimonianza è parziale rispetto alla comunicazione del contenuto testimoniale stesso: Levi non lo visse fino in fondo, perché si salvò; Anna Frank non lo disse fino in fondo, perché fu sommersa. La testimonianza sussiste e circola per entrambi, tuttavia, come suo statuto legittimante, solo in quanto espressione 'plurale': vettore necessariamente impersonale di una tragedia collettiva, assume su di sé le voci (il 'noi' leviano di Se questo è un uomo e La tregua) e i volti (il viso di bambina infinitamente riprodotto di Anna Frank) di tutti i compagni morti senza voce e senza volto, dice e raffigura 'per delega' la realtà coralmente patita, in funzione del transito alla sopravvivenza di chi è precipitato, non tornando. Il relatore del trauma, dunque, che è un sopravvissuto in diverse forme, esercita la testimonianza come missione condizionata alla responsabilità verso morti in cui non è incluso: è un corpo che non agisce come singolarità, che si fa spazio per una vita impropria e che permane giustificata dall'urgenza di un dire fattuale per conto d'altri, per farli esistere. La testimonianza non può, dunque, non portare all'erosione del soggetto, alla disgregazione dell'identità e della specificità del sopravvissuto, il quale è reticente, per coinvolgimento etico, per condivisione esistenziale e, anche, per statuto di genere, dal dire 'io', stretto nell'articolazione di un 'noi' che è incerta oscillazione tra ciascuno e nessuno: nell'atto del testimoniare il soggetto offre, si è tentati di dire sacrifica, il sé, dissolvendosi.

Esistono e, se esistono, sono integralmente praticabili e consentite vie di sottrazione a questo imperativo, modi di riappropriazione e di riconoscimento della voce singolare? Questo interrogativo è al centro dell'indagine di Anna Maria Mariani, che nella finzionalità rintraccia lo spazio praticabile dal soggetto, interpretandone le manifestazioni e mostrandone limiti e resistenze, sia che questa si esprima in opere autonome, sia che si celi nella trama di quelle propriamente testimoniali: risiede, dunque, nel «peccato della finzione», secondo la definizione della studiosa, o, per le parole stesse di Levi, nel «reato dell'invenzione», altrimenti avvertito come «frode», «vizio», «trasgressione», o pura «oscenità», l'opzione tanto necessaria, quanto travagliata, perché, in fondo, interdetta, che si apre agli occhi del relatore-portavoce per astrarsi dall'obbligo del ricordo impersonale e della rigorosa fattualità a servizio della memoria storica attendibile, infrangendolo. Le vie e gli atteggiamenti attraverso cui questa possibilità prese diversamente forma in Primo Levi e Anna Frank gettano innanzi tutto una nuova e sorprendente luce sulle rispettive differenze. Inoltre, rivelano, da un lato, la forza dello statuto ontologico della testimonianza nel ristrutturare, alterandolo, il sistema dei generi letterari; dall'altro, e in senso opposto, mettono allo scoperto come testimoniare necessariamente si serva della 're-invenzione' della realtà per portare alla 'forma' e al 'linguaggio' ciò che vi resiste, in quanto sua negazione ontologica, e della sua 'metaforizzazione' e 'destoricizzazione', per renderla traducibile e contemplabile nelle coscienze e disseminarla permanentemente attraverso il tempo e lo spazio, a garanzia della memoria stessa.

La prima parte del libro di Mariani è dedicata alla figura di Levi. Dopo un primo capitolo (Tirannia della testimonianza personale) in cui vengono approfondite, attraverso l'analisi delle opere pertinenti (Se questo è un uomo; La Tregua; Sommersi e salvati), ontologia e fenomenologia della testimonianza per delega e il suo rapporto cruciale col soggetto riferente in quanto principio di legittimazione e, insieme, di dissoluzione della sua sopravvivenza singolare, l'autrice passa a esaminare la consistenza di scritture di tipo diverso, come queste si configurino, quale liceità nel sistema del dire leviano possiedano.

Così, il secondo capitolo (La possibilità dell'io: autobiografie clandestine), dedicato all'espressione autobiografica, mette in luce tutto il pudore della manifestazione del sé idiosincratico, che si camuffa o si scherma perché sente la propria vita particolare come un abuso: ne Il sistema periodico l'io retrocede nuovamente dietro il noi dei chimici, mentre il Lager non scompare mai del tutto, ma resta nella tensione costante tra ricordo personale e commemorazione, o come criterio rivelatore dello stesso passato che lo precede, di cui è presagio; ne La ricerca delle radici, antologia delle letture fondamentali che avrebbero modellato il divenire esistenziale di Levi nel suo svolgersi, molte delle scelte incarnano suoi doppi, frammenti del suo io disgregato detto per interposte persone, mentre tutte in quanto canone sono dette frutto di una «cultura violentata» in cui il Lager, di nuovo, si fa filtro della scelta retrospettiva. L'unica autobiografia leviana fu quella che non scrisse, ma si lasciò estrarre, nel 1987, attraverso una serie fatalmente interrotta di interviste, da Giovanni Tesio, figura indispensabile al suo racconto del sé, che poté estrinsecarsi solo diventando 'patrimonio di un altro' (le interviste furono tradotte in biografia nel 2016 col titolo Io che vi parlo).

Il terzo capitolo (Primo Levi e il peccato della finzione) affronta il nodo della fiction nella letteratura leviana, mettendo in luce come questa apparentemente si manifesti come forma di escapismo e ricerca di remissione dall'onere della testimonianza diretta (Levi scrisse le Storie naturali, raccolta di racconti fantastici e fantascientifici, sotto pseudonimo), ma resti in realtà legata a quest'ultima come allegoria dello stesso ordine di esperienza, espansione per metafora del significato della Shoah. La finzione, dunque, lungi dall'essere un'irrelata «libertà sconfinata, quasi licenziosa», si configura come una funzione della testimonianza stessa. Dall'altro lato, la proiezione per metafora dell'esperienza della deportazione sull'altro o sull'altrove da sé, sottraendo specificità all'evento, sottrae al Lager la sua eccezionalità e la sua immodificabilità, consegnando il suo significante a un processo graduale di universalizzazione e generalizzazione. Un secondo aspetto della finzione messo in luce riguarda, infine, il problema travagliato del portare la testimonianza a essere generata come espressione, l'esperienza della radicalità del male ad emergere al linguaggio: del darle, insomma, consistenza verbale e visiva, che la dica e la renda immaginabile. In questo, il serbatoio di Levi, per parole e visioni, è letterario: è l'Inferno dantesco che consente di materializzare la straordinarietà negativa, e immisurabile, del Lager.

La seconda parte del libro si apre allo studio della figura e dell'opera di Anna Frank, concentrandosi, in stretto e illuminante confronto con Primo Levi, sulla questione della straordinaria circolazione globale del Diario e del volto, e leggendo il fenomeno di identificazione, che ne è alla base, attraverso la chiave interpretativa del «peccato di finzione» già analizzato in Levi.

Il quarto capitolo del libro (Anna Frank e la sua vita postuma) mette, infatti, in luce come questo si identifichi con il processo di decontestualizzazione storica a cui il Diario è stato sottoposto, processo che trae origine dalla stessa attività primitiva di scrittura e revisione, a opera di Anna Frank e poi del padre Otto. Muovendosi attraverso le ineludibili questioni relative agli statuti di autore, coautore ed editor del Diario e al carattere stratificato della sua composizione, né «sorgiva» né idiosincratica quanto ai prodotti finali, ma frutto di autocensure, censure, ricomposizioni (si isolano, in particolare, quattro versioni: le prime due ad opera di Anna Frank, la terza postuma ad opera del padre Otto, la quarta, cosiddetta 'definitiva', della Anne Frank Fonds, a opera di Mirjam Pressler), la studiosa rintraccia interventi redazionali di Anna e del padre 'premeditati' all'universalizzazione del contenuto, che ne favoriscono lo slittamento del messaggio verso quello di una «storia generica di generiche vittime, generici oppositori, generiche ragazzine». In particolare, la neutralizzazione della specificità ebraica e della particolarità storica operata dai Frank (per cui il Diario assume i tratti di una vita di una ragazza 'in divenire'), la tonalità emotiva del testo, improntata alla fiducia e alla speranza, la contaminazione con il genere del romanzo giallo, che conferisce al resoconto uno stile ed un intreccio 'elettrizzati', innervandolo, di fatto, di fiction, da ultimo, la possibilità sempre presente di una lettura che non tenga conto del non raccontato, della lacuna che dà il senso fondamentale alla testimonianza, del 'vuoto terminale' che marca la sparizione di Anna Frank nell'evento immane della deportazione ebraica, predispongono il Diario al rispecchiamento empatico di chiunque lo legga, al non riconoscimento delle sue specificità irriducibili e inassimilabili e, dunque, alla ricezione globale e quotidianizzata. Questo processo di appropriazione indiscriminata prosegue in una catena di destoricizzazioni e spersonalizzazioni attraverso adattamenti teatrali e cinematografici fino al punto più lontano dal contenuto testimoniale, che ne realizza in modo aberrante una completa distorsione: l'edizione sud-coreana dell'opera, sulla cui copertina Anna Frank, semplicemente Anna, «una ragazza ebrea senza peli sulla lingua», come recita il paratesto, è ritratta bionda, vestita di jeans, simile a una Barbie seduttivamente impertinente.

A cominciare dallo stesso capitolo, ma sviluppando il tema nei due successivi (Primo Levi lettore di Anna Frank e I due corpi del testimone), Mariani segue la provocazione del «peccato di finzione» forse più grave: la trasformazione, operata in testi letterari altrui, dei due testimoni a personaggi, dopo la morte. Attraverso letture accompagnate da analisi ampie e penetranti e sperimentando quella «resistenza immaginativa» suscitata dallo straniamento imposto a figure dallo statuto sacrale, incontriamo prima l'Anna Frank di Philip Roth nel romanzo Lo scrittore fantasma, quella dello stesso Levi che poeticamente la ritrae in La bambina di Pompei, quella di Vittorio Sereni in Amsterdam, e, ancora, quella di S. Auslander in Hope, a tragedy; poi, l'uno e l'altro testimone nel viaggio infernale Nel regno oscuro di Giorgio Pressburger; infine, il Primo Levi dei fumetti di Matteo Mastragostino e quello del romanzo Conforme alla gloria di Demetrio Paolin. E quanto emerge è che diventano personaggi in modo profondamente diverso. Se Anna Frank, con poche eccezioni, finì presto 'vittima' del processo di finzionalizzazione, moltiplicandosi in figure per lo più alterate fino alla distorsione sul piano della fattualità esistenziale, ritratta sopravvissuta, ora come un'adulta femme fatale ora come un'anziana avida e calcolatrice, il personaggio Primo Levi, anche quello delle opere a fumetti, resta invece molto fedele al vissuto reale dell'uomo e alla sostanza dello scrittore, costruito costantemente entro i termini della verosimiglianza storica e sempre immerso nel trauma collettivo generato dalla sua scomparsa.

A conclusione di questo libro, bello e interpellante, sono, infine, alcune pagine (Epilogo. Anna Frank e il make-believe) che l'autrice dedica alla puntuale riabilitazione della poco conosciuta e spesso criticata produzione propriamente letteraria e finzionale di Anna Frank (Racconti; Vita di Cady).

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