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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 40 (Nuova Serie), agosto 2017

I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

Abstract

Nel 150° anniversario della nascita, ricordato, oltre che in numerose altre manifestazioni coordinate dal Comune di Agrigento, ad un convegno all'Università Sapienza di Roma dal Presidente Pietro Grasso, rendiamo omaggio a Luigi Pirandello. Lo facciamo attraverso I vecchi e i giovani, romanzo che, per alcune sue caratteristiche, viene incluso nella breve stagione del "romanzo di ambiente parlamentare". Partendo da un profilo biografico dello scrittore, poeta e drammaturgo, ne ripercorriamo brevemente il precorso letterario fino alla consacrazione mondiale con il premio Nobel nel 1934, per poi entrare tra le pagine del romanzo citato.

1. Cenni biografici

2. Il teatro, il fascismo e il premio Nobel

3. I vecchi e i giovani

4. Dentro il romanzo

5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

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1. Cenni biografici

Luigi Pirandello nacque in contrada Caos, nell'allora provincia di Girgenti, il 28 giugno 1867:

Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti. Colà la mia famiglia si era rifugiata dal terribile colera del 1867, che infierì fortemente nella Sicilia.

(Luigi Pirandello, Di che tempi, di che lontananze, "Nuova Antologia", 68 (1933) n. 1470, p. 496)

Inizialmente destinato a studi tecnico-contabili, per cui non era evidentemente portato, Pirandello completò gli studi liceali a Palermo e nel 1886 si trasferì a Roma, alla facoltà di Lettere, alla scuola di Ernesto Monaci. Un contrasto con il preside di facoltà, il professore di letteratura latina Onorato Occioni, gli fornì l'occasione per il trasferimento all'università di Bonn, dietro presentazione del prof. Monaci, dove completò gli studi di filologia romanza con una tesi sulla parlata di Girgenti.

Nel 1893 si stabilì a Roma, frequentando Ugo Fleres e Luigi Capuana che lo introdussero negli ambienti letterari:

Fino a tutto il 1892 non mi pareva possibile che io potessi scrivere altrimenti, che in versi. Devo a Luigi Capuana la spinta a provarmi nell'arte narrativa in prosa (e dico arte narrativa in prosa, perché fino a poco tempo fa avevo nel cassetto il manoscritto di una lunga narrazione in versi, un poema su l'arcidiavolo Belfagor, composto anch'esso prima che partissi per la Germania, e anch'esso umoristico).

(Pirandello parla della sua arte, "Le lettere", 15 ottobre 1924, p. 3)

Le prime prove letterarie consistono infatti in raccolte poetiche, scritte nel periodo degli studi: Mal giocondo (Palermo, 1887), Pasqua di Gea (Milano, 1891), la traduzione delle Elegie Romane di Goethe, completata a Roma ma iniziata durante il soggiorno a Bonn (Livorno, 1896); datano invece al 1894 le prime novelle Amori senza amore e al 1897 il primo romanzo, Marta Ajala (poi L'esclusa), pubblicato tra giugno e agosto del 1901 a puntate sulla "Tribuna".

Sposatosi con Maria Antonietta Portolano a Girgenti nel 1894, nel 1897 accettò l'incarico per la cattedra di stilistica presso l'Istituto Superiore di Magistero Femminile, di cui divenne titolare nel 1909 e che mantenne fino al 1922, e fondò con Ugo Fleres la rivista "Ariel".

Il fallimento dell'impresa di zolfo del padre nel 1903 aveva nel frattempo segnato la vita di Pirandello, sia sul piano economico che su quello psicologico: data da allora, infatti, il peggioramento delle condizioni di salute della moglie, che dal 1919 vivrà ricoverata in una casa di cura.

Come scritto da Corrado Alvaro nella voce dell'Enciclopedia Italiana dedicata nel 1935 a Pirandello:

Vengono ora gli anni più importanti dello sviluppo pirandelliano, culminanti nel 1904 con Il fu Mattia Pascal. Questo romanzo è il punto d'arrivo della sua arte, la soluzione di tutto il suo problema narrativo, la fusione più completa fra materia e stile; costituì il primo successo europeo del P.; tradotto in tutte le lingue d'Europa [...] è uno degli esemplari romanzi italiani.

(Corrado Alvaro, Luigi Pirandello, in Enciclopedia Italiana 1935. <http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-pirandello_%28Enciclopedia-Italiana%29/>)

La pubblicazione, prima a puntate e poi in volume, di Il fu Mattia Pascal sulla "Nuova Antologia" nel 1904 portò dunque alla fama lo scrittore, che nel 1909 ottenne una collaborazione con il "Corriere della sera" e, sul finire del primo decennio del Novecento, si interessò sempre più al teatro, in collaborazione con il capocomico Nino Martoglio, specializzato in teatro dialettale, rielaborando e riprendendo anche lavori precedenti in prosa.

Il teatro nasce nell'opera pirandelliana come una forma estrema di lirica e di esperienza letteraria insieme. Il drammaturgo ricomincia con i primi accenti del narratore, e spesso i temi dei suoi drammi sono quelli delle sue novelle; ma brucia rapidissimamente le tappe. Vengono prima i lavori vernacoli siciliani, Pensaci Giacomino, Liolà, Il berretto a sonagli, e quelli scritti in collaborazione con N. Martoglio.

(Ibidem)

Tra gli interventisti allo scoppio della guerra, vide partire il primogenito Stefano per il fronte: la circostanza, e la successiva prigionia del figlio, aggravarono le condizioni di salute della moglie, rendendone necessario - come accennato sopra - l'allontanamento da casa.

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2. Il teatro, il fascismo e il premio Nobel

Negli anni venti si consolidarono il successo e la fama di Pirandello, soprattutto nel teatro, sia in Italia che all'estero (alla fine del 1923 è a New York per alcune rappresentazioni): Sei personaggi in cerca d'autore (1921), Enrico IV (1922) e Ciascuno a suo modo (1924) tra tutti; nello stesso anno fu pubblicato anche l'ultimo dei suoi romanzi, Uno, nessuno e centomila.

All'indomani del delitto Matteotti, il 17 settembre del 1924, Pirandello chiese l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista inviando un telegramma a Mussolini, pubblicato il 19 settembre su L'Impero, provocando grande scalpore (si veda il capitolo dedicato a questo argomento, corredato di ampia documentazione, in Giudici 1963, p. 413-464 e Maugeri 2004); l'anno successivo firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile.

Dal 1925 al 1928 diresse la compagnia Teatro d'Arte, fondata alla fine del 1924 da Stefano Pirandello (che aveva assunto lo pseudonimo di Stefano Landi), Orio Vergani e, tra gli altri, Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini: probabilmente ormai definitivamente deluso dalle promesse, mai mantenute dal regime, di creare un Teatro Drammatico di Stato, e, d'altro canto, incoraggiato dal successo che la compagnia aveva al di fuori del territorio italiano, Pirandello iniziò un lungo "esilio volontario", a Berlino e poi a Parigi. Sono questi gli anni in cui nacque la relazione con la giovane attrice Marta Abba, che lo accompagnerà fino alla morte. Le lettere di Pirandello a Marta Abba restituiscono un quadro abbastanza esaustivo della sua vita di quegli anni (si veda Frassica 1991).

Nominato "Accademico d'Italia per la classe delle lettere" alla fondazione della stessa nel 1929, nel 1934 organizzò e diresse per la Fondazione Alessandro Volta il convegno "Il teatro drammatico", invitando, fra gli altri, Walter Gropius, William Butler Yeats, Federico Garcia Lorca (si veda Il teatro drammatico 1935); nell'occasione diresse la rappresentazione de La figlia di Jorio di Gabriele D'Annunzio al Teatro Argentina, con scene e costumi di Giorgio De Chirico.

Rientrato definitivamente a Roma nel 1933, sul finire dell'anno seguente lo raggiunse la notizia del conferimento del premio Nobel per la letteratura, principalmente per i suoi meriti di autore teatrale. Così nella cronaca di quei giorni:

Ci siamo recati stasera dal vincitore del premio e lo abbiamo trovato nel suo studio che apre le sue finestre sui pini e i cipressi di Villa Massimo. Nello studio c'era una piccola folla di giornalisti italiani e stranieri, i quali erano venuti a rivolgere all'illustre scrittore le nostre stesse domande. Pirandello neppure in questa lieta occasione ha perduto la sua calma abituale. Risponde alle nostre domande con poche frasi, interrompendosi ogni minuto perché deve correre in un'altra stanza dove c'è il telefono che continua a squillare; è la folla dei suoi amici e ammiratori che non potendo venire fino a questo villino di via Antonio Bosio lo chiamano per esprimergli il loro compiacimento. Sul suo tavolo enorme, ingombro di libri e di carte, è ancora spiegato il marconigramma che ha portato in casa Pirandello la buona novella. Viene da Stoccolma e dice in italiano: «L'Accademia svedese ha oggi assegnato a lei, signor dottore, il premio letterario Nobel e sarebbe riconoscente di ricevere la sua accettazione per dispaccio telegrafico al segretario dell'Accademia: Boershuset, Stoccolma».

(La notizia allo scrittore, "Corriere della Sera", 9 novembre 1934, p. 3)

Nel mese che intercorse tra la comunicazione e la cerimonia, Pirandello fu a Parigi, dove venne celebrato anche per il riconoscimento appena avuto, con ampio risalto sulla stampa francese e italiana e a Londra per impegni presi già in precedenza.

Finisce così la Dichiarazione al banchetto per il conferimento del Nobel riportata, tra gli altri, dal "Corriere":

Mi piace di credere che voi avete accordato il premio molto meno alla virtuosità, sempre da trascurare, dello scrittore, che alla sincerità umana della mia opera.

(Un discorso di Pirandello al banchetto offerto dal Municipio di Stoccolma, "Corriere della Sera", 11 dicembre 1934, p. 8)

Ammalatosi di polmonite mentre seguiva le riprese, negli studi di Cinecittà, di una riduzione de Il fu Mattia Pascal, Pirandello morì il 10 dicembre 1936. Per sua espressa volontà non ci furono esequie di stato.

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3. I vecchi e i giovani

Scrive Pirandello nella lettera autobiografica inviata a Filippo Surico, direttore del periodico "Le Lettere" nel 1909 circa, ma pubblicato nell'ottobre del 1924:

Ora attendo a compiere il vasto romanzo I Vecchi e i Giovani, già in parte apparso su la "Rassegna contemporanea": il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo, ov'è racchiuso il dramma della mia generazione.

(Pirandello parla della sua arte, cit.)

Apparso dunque a puntate nel 1909 e pubblicato nel 1913 in volume da Treves,

[...] I vecchi e i giovani si colloca al centro della carriera letteraria pirandelliana: la svolta decisiva verso il teatro prende corpo giusto in quegli anni. Si direbbe che, prima di dedicarsi tutto all'attività che gli avrebbe consentito meglio di approfondire l'indagine del mondo interiore, lo scrittore abbia voluto affidare a questo romanzo il significato d'una presa di posizione complessiva sul macrocosmo sociale. Nato dal ricordo di vicende in cui il padre lo zio il nonno di Pirandello erano stati implicati, I vecchi e i giovani offre un acuto resoconto del gioco delle forze politiche ed economiche a Girgenti nell'ultimo decennio dell'Ottocento; inserisce la situazione cittadina nel contesto siciliano e sulla prospettiva meridionale; infine allarga l'orizzonte sino a Roma, capitale putrefatta di un paese malato.

(Vittorio Spinazzola, I vecchi e i giovani tra il caos e la rivolta, in Studi in memoria di Luigi Russo. Pisa, Nistri-Lischi, 1974, p.427)

Per la tematica ed alcune sue peculiarità, questo romanzo, sebbene definito come un «caso isolato, e per molti aspetti eccezionale» risulta come «opera legata alla tradizione parlamentare [...] quasi un omaggio ad una "forma" ormai scomparsa» (Carlo Alberto Madrignani, Rosso e nero a Montecitorio: il romanzo parlamentare della nuova Italia (1861-1901). Firenze, Vallecchi, 1980 1980, p. 30: si veda, per la definizione della tradizione, l'articolo inaugurale di questa rubrica sul n. 5, Nuova serie, di MinervaWeb e la relativa bibliografia).

I fatti si svolgono tra Girgenti e Roma, dalle elezioni politiche del 1892 allo stadio d'assedio proclamato in Sicilia nel 1894: nella forma del romanzo storico, dunque, si muovono i personaggi che incarnano i diversi strati sociali e le loro posizioni nei riguardi delle problematiche del nuovo stato (dal Risorgimento all'Unità, dal socialismo al problema del mezzogiorno).

Il tentativo era dunque quello di proiettare in un'esperienza collettiva quella spaccatura tra anima e mondo, tra illusione e realtà, rappresentata precedentemente nell'individuo Mattia Pascal. Tuttavia la struttura finiva per condizionare l'autore imponendogli l'uso di strumenti espressivi già usurati, consunti e dunque irrigiditi in una univoca significatività: la ripresa del tema della corruzione della classe dirigente post-risorgimentale implicava così inevitabilmente una visione in chiave moralistica, nel solco della vecchia ideologia d'opposizione degli intellettuali dopo l'unità.

(Alessandra Briganti, Il Parlamento nel romanzo italiano del secondo Ottocento. Firenze, Le Monnier, 1972, p. 157-158)

L'utilizzo degli elementi caratteristici della narrativa di ambiente parlamentare gli consente di esprimere, attraverso i personaggi «emblematici delle diverse modalità di autorealizzazione (il vecchio ministro, il deputato compromesso con le Banche, l'avvocato fallito, il garibaldino)» la sua «opposizione radicale alla nuova società» (Ivi, p. 155).

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4. Dentro il romanzo

In previsione delle elezioni politiche, Roberto Auriti, avvocato a Roma che da ragazzo aveva combattuto a fianco del padre a Milazzo, viene candidato dal partito governativo a Girgenti. Nelle parole della madre Caterina Laurentano che, nobile di origine, aveva rifiutato l'eredità in favore del fratello borbonico per gli ideali liberali suoi e del marito, troviamo l'amarezza per gli esiti del Risorgimento, nei protagonisti come nei loro figli, soprattutto in Sicilia:

Il figlio, il figlio da cui tanto si aspettava, il suo Roberto, fra il trambusto violento della nuova vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi s'abbaruffavano reclamando compensi, carpendo onori e favori, il suo Roberto s'era perduto! Stimando semplicemente come suo dovere quanto aveva fatto per la patria, non aveva voluto né saputo accampare alcun diritto a compensi; aveva forse sperato e atteso che gli amici, i compagni, si fossero ricordati di lui dignitoso e modesto. Poi forse lo schifo lo aveva vinto e tratto in disparte. E qual rovinìo era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s'era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l'ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell'altro tenentino savojardo Dupuy, l'incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch'essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; spese pazze, cortigianerie degradanti; l'oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l'impunità agli oppressori…

(Pirandello 1941, p. 512)

A Roma impazza sui giornali lo scandalo della Banca Romana, che trascina con sé governo e Parlamento, come si rende ben conto il Cav. Cao, segretario del Ministro Francesco D'Acri:

Tutte le sere, tutte le mattine, i rivenditori di giornali vociavano per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato al Parlamento nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una truffa ora di uno scrocco a danno di questa o di quella Banca. [...] dai cieli d'Italia, in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s'appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia. Sotto il cielo cinereo, nell'aria densa e fumicosa, mentre come scialbe lune all'umida tetra luce crepuscolare si accendevano ronzando le lampade elettriche, e nell'agitazione degli ombrelli, tra l'incessante spruzzolìo di una acquerugiola lenta, la folla spiaccicava tutt'intorno, il cav. Cao vedeva in quei giorni ogni piazza diventare una gogna; esecutore, ogni giornalajo cretoso, che brandiva come un'arma il sudicio foglio sfognato dalle officine del ricatto, e vomitava oscenamente le più laide accuse. [...]

Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva sotto certi nembi d'ingiurie che s'avventavano in quei giorni da tutta Italia contro Roma, rappresentata come una putrida carogna. In un giornale di Napoli aveva letto che tutte le forze s'erano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli entusiasmi; e tutte le virtù, corrotte. Meglio, meglio quand'essa viveva d'indulgenze e di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai divoti! Ne fremeva il cav. Cao, perché i clericali naturalmente, ne tripudiavano. Accompagnando talvolta Sua Eccellenza a Montecitorio, vedeva per i corridoi e le sale tutti i deputati, giovani e vecchi, novellini e anziani, amici o avversarii del Ministero, come avvolti in una nebbia di diffidenza e di sospetto. Gli pareva che tutti si sentissero spiati, scrutati; che alcuni ridessero per ostentazione, e altri, costernati del colore del loro volto, fingessero di sprofondarsi con tutto il capo in letture assorbenti .

(Ivi, p. 653-354)

Ai giovani siciliani rimane poco margine di manovra: lo sentiamo nel pensiero di Lando Laurentano, figlio del principe e impegnato nella causa socialista.

La gioventù? Che poteva la gioventù, se l'avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l'espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d'ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l'opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre su, nel settentrione, s'irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia, la miseria e l'ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa!

(Ivi, p. 765-766)

L'esito della ribellione è però la repressione: nelle parole di Cosmo Laurentano, zio di Lando che accoglie quest'ultimo nella sua fuga, troviamo la chiave della filosofia pirandelliana:

- Passerà, - diceva poco dopo don Cosmo, con gli angoli della bocca contratti in giù, la fronte increspata come da onde di pensieri ricacciati indietro dal riflusso della sua sconsolata saggezza, e con quegli occhi che pareva allontanassero e disperdessero nella vanità del tempo tutte le contingenze amare e fastidiose della vita.

- Passerà, cari miei… passerà… [...]

- Così tutte le cose… - sospirò don Cosmo, mettendosi a passeggiare per la sala; e seguitò, fermandosi di tratto in tratto: - Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è più altra realtà… E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà…

(Ivi, p. 830-831)

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5. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

Nell'articolo sono citati per esteso solo i testi non compresi nel percorso bibliografico.

Luigi Pirandello. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca del Senato.

Si suggerisce inoltre la ricerca nelle collezioni della Biblioteca della Camera e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche delle due biblioteche.

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