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Il Presidente: Discorsi

Politica e giornalismo nel tempo e nella professione. Un caso di studio: Flaminio Piccoli

Discorso pronunciato ad apertura del convegno promosso dall'Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana) e dall'Istituto Luigi Sturzo nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani

Signore e signori,
ho accolto con piacere l'invito a rivolgere un saluto all'inizio di questa giornata di riflessione dedicata ad un tema oggi cruciale, il rapporto tra giornalismo e politica, ripercorso attraverso la storia di Flaminio Piccoli.

Non raramente giornalismo e politica formano un binomio inscindibile. E Piccoli rappresenta da questo punto di vista un esempio illuminante. Si può dire che la politica moderna, intesa come luogo in cui il consenso popolare e le decisioni di governo si incontrano grazie alla libera circolazione delle informazioni, abbia trovato nel giornalismo uno strumento insostituibile.

Se pensiamo per un momento alle biografie dei leader del secolo scorso, il secolo della democrazia di massa e dei partiti, incontriamo personalità politiche che ebbero una costante consuetudine con l'attività di giornalista. Furono giornalisti De Gasperi, Nenni, Luigi Sturzo e fu giornalista anche il socialista Benito Mussolini. Furono giornalisti molti eminenti uomini politici di cultura cattolica, a cominciare da Giuseppe Donati, antifascista e direttore del "Popolo" e Guido Gonella, autore degli "acta diurna" sull'"Osservatore Romano", commento quotidiano che diventò riferimento per la cultura antifascista, e primo presidente dell'Ordine dei Giornalisti.

Lo stesso Aldo Moro, (proprio oggi ricorre il tragico anniversario del rapimento) aveva appena finito di vergare le bozze di un articolo destinato al quotidiano "il Giorno", di cui fu autorevole collaboratore, quando cadde vittima dei brigatisti.

Alla stessa specialissima stirpe apparteneva Flaminio Piccoli, uomo politico per passione, ma giornalista per vocazione antica. Piccoli entrò giovanissimo nella redazione del giornale "Liberazione Nazionale", organo del CLN di Trento. Successivamente fondò "il Popolo trentino", che poi prese il nome "L'Adige", una testata di più netta ispirazione democratico-cristiana che rappresenterà lo strumento privilegiato di dialogo con i cittadini e di battaglia politica in una stagione in cui la guerra fredda faceva sentire i suoi effetti anche sul piano della politica nazionale.

La dimensione politica di Flaminio Piccoli sarà forgiata con quell'impasto di caparbietà e di passione, con l'insofferenza a tutte le forzature e le limitazioni dell'autonomia della persona umana, considerando la libertà di espressione tutelata dall'art. 21 della Costituzione uno dei beni primari della nostra Repubblica.

Piccoli attraverserà i lunghi anni della politica nazionale,dal 1958, anno della sua prima elezione alla Camera, al 1992, portando con dignità il difficile fardello dell'essere il primo trentino dopo De Gasperi a ricoprire gli incarichi di Ministro, di segretario e di Presidente della DC.

La difficile pazienza della democrazia, la ricerca del confronto non pregiudiziale, questo è il valore dell'insegnamento di uomini come Piccoli, che andrebbe recuperato nella nostra stagione contrastando il principio di una politica muscolare e di mera registrazione di contrapposizioni.

Abbiamo ricordato Piccoli per la sua vocazione di giornalista per aver vissuto questa dimensione duplice, della politica e della scrittura, nella lunga stagione che va dagli anni cinquanta agli anni novanta. Domandiamoci quanto è cambiato da allora ad oggi il rapporto tra politica ed informazione. Autorevoli studiosi sostengono ormai da anni che i media hanno sostituito la partecipazione democratica. E' un bene o un male?

Certo, se il nostro ideale di democrazia resta quello della partecipazione diretta, come nell'agorà ateniese, che permette la circolazione istantanea delle informazioni tra i cittadini per consentire ad ognuno una scelta consapevole, non possiamo non accogliere positivamente il ruolo dei media come "facilitatori" del flusso di informazioni. Ma, e questo è il punto, siamo di fronte ad un sistema mediatico che consente la trasmissione delle informazioni senza alcuna manipolazione oppure siamo dentro un sistema che traduce il necessario flusso informativo in "comunicazione", introducendo un "di più" che altera l'informazione?

Non è una domanda oziosa: la costruzione stessa della gerarchia delle notizie di un telegiornale, quella che gli esperti chiamano "agenda setting", costituisce un oggettiva alterazione dell'informazione, perché suggerisce al telespettatore che una notizia è più importante di un'altra.

Se l'apparenza rischia di contare più della sostanza allora qual è il ruolo dell'informazione? Quando le parole diventano incandescenti, quando la necessità della politica è quella di persuadere con messaggi semplici perché sempre più prigioniera di regole di marketing, allora chi sono i veri padroni delle notizie?

La questione è senza dubbio complicata. Ci troviamo di fronte a dinamiche complesse, per questo una riflessione è d'obbligo. Il ruolo dei media è fondamentale. Avvicinano il dibattito politico ad un numero sempre più vasto di persone. La televisione, in particolare, offre grandi opportunità. Ma siamo certi che stiamo andando nella giusta direzione nel ricorso a questi straordinari strumenti che concorrono alla dialettica democratica?

C'è chi sostiene che la comunicazione stia ormai prendendo il posto della politica. Me lo sono chiesto molte volte. Quando la necessità di rincorrere i tempi sempre più stretti dei media impone un "dire" comunque, nonostante l'elaborazione dei processi e delle decisioni politico-parlamentari abbiano gestazioni molto più lente, allora tutti noi politici ma anche i giornalisti dobbiamo chiederci se svolgiamo veramente la nostra funzione.

E' necessaria, allora, una nuova stagione di responsabilità per tutti coloro che si trovano ad agire nello spazio dell'informazione. Per la politica, che nel gioco narcisista degli specchi riflettenti le immagini dei leader, troppo spesso misura l'efficienza delle proprie azioni sulla base dei passaggi televisivi e non sulla qualità delle scelte, producendo così una catena perversa di competizioni mediatiche. Per i giornalisti, attori della più delicata funzione di promozione e diffusione della democrazia, che devono rammentare qualche volta di più le ragioni di un'Etica dell'informare, che è un'etica di responsabilità e di discernimento nella non facile distinzione tra questa funzione e quella della "comunicazione". Per gli editori, che hanno la responsabilità grande di esercitare questo ruolo in una dimensione che non attiene solo il profilo dei profitti: cento altre attività, forse più remunerative possono essere svolte dal capitano d'impresa se l'obiettivo è solo quello del profitto, ma l'informazione è altra cosa ed implica comportamenti coerenti.

A queste scelte e a questi comportamenti appartiene la definizione del contratto dei giornalisti, perché la prima dignità è quella del lavoro, spesso precarizzato a danno, soprattutto, dei più deboli e delle giovani generazioni.

Vorrei chiudere queste brevi considerazioni, certamente non conclusive ma offerte all'unico scopo di richiamare tutti noi alla costante ricerca di una corretta gerarchia nel rapporto tra politica ed informazione, ricordando un monito alto, che ci giunge da un intellettuale raffinato che ha frequentato con grande consuetudine la dimensione della scrittura e dei media, papa Benedetto XVI:

«Illuminare le coscienze degli individui e aiutarli a sviluppare il proprio pensiero non è mai un impegno neutrale - afferma il Pontefice nel Messaggio per la 40° giornata mondiale delle comunicazioni sociali - La comunicazione autentica esige coraggio e risolutezza. Esige la determinazione di quanti operano nei media per non indebolirsi sotto il peso di tanta informazione e per non adeguarsi a verità parziali o provvisorie».

Non adeguarsi a verità parziali o provvisorie. Imparare ad esigere la verità intera dei fatti. Per queste vie si fa una operazione di democrazia e responsabilità.

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