Il Presidente: Discorsi

Omaggio ai Caduti di Nassiriya

12 Novembre 2008

Care famiglie, Signor Presidente della Camera, Autorità,
è con particolare commozione che prendo oggi la parola alla cerimonia di intitolazione di questa Sala - nel cuore della sede istituzionale del Senato della Repubblica - ai nostri concittadini periti nell'attentato del 12 novembre 2003, e a tutti gli italiani caduti nel corso dell'operazione "Antica Babilonia".

Ciò che avvenne in quella tragica mattina è ancora ben vivo nella memoria di tutti noi: alcuni attentatori suicidi, dopo aver assaltato le postazioni di guardia, guidarono un'autocisterna carica di esplosivo nei pressi della base "Maestrale", occupata dai nostri Carabinieri dell'Unità specializzata multinazionale. A questo Reggimento dell'Arma dei Carabinieri, distintosi per la sua altissima professionalità in numerose missioni internazionali, era affidato il difficile compito di mantenere l'ordine pubblico, garantire l'assistenza alle autorità deputate alla ricostruzione e l'addestramento della polizia locale irachena nella città di Nassiriya ed in tutta la provincia di Dhi Kar, nel Sud del Paese.

L'esplosione dell'automezzo degli attentatori investì l'edificio, provocandone il parziale crollo ed uccidendo diciannove cittadini italiani, dei quali dodici carabinieri (il sottotenente Giovanni Cavallaro, il sottotenente Enzo Fregosi, il sottotenente Filippo Merlino, il sottotenente Alfonso Trincone, il maresciallo aiutante Alfio Ragazzi, il maresciallo aiutante Massimiliano Bruno, il maresciallo capo Daniele Ghione, il brigadiere Giuseppe Coletta, il brigadiere Ivan Ghitti, il vice brigadiere Domenico Intravaia, l'appuntato Orazio Maiorana e l'appuntato Andrea Filippa) e cinque militari dell'Esercito (il capitano Massimiliano Ficuciello, il maresciallo capo Silvio Olla, il caporal maggiore capo scelto Emanuele Ferraro, il primo caporal maggiore Alessando Carrisi e il caporal maggiore Pietro Petrucci), che si trovavano in quella base per ragioni di servizio. Tra i civili, persero la vita Stefano Rolla, regista impegnato in un sopralluogo per le riprese di un documentario sulla missione italiana, e Marco Beci, funzionario della cooperazione italiana in Iraq. Per effetto di quell'attacco furono inoltre uccisi - è doveroso ricordarlo - nove cittadini iracheni, tra passanti e collaboratori del nostro contingente militare.

Quando il Parlamento italiano deliberò, su proposta del Governo, di inviare in Iraq un contingente militare, per dare il nostro contributo alla ricostruzione del tessuto civile ed economico di quel Paese, nessuno si nascondeva quanto la missione fosse difficile e rischiosa.
Gli uomini delle Forze Armate, forti dell'esperienza e dei successi ottenuti in tante difficili operazioni di pace, risposero senza esitazioni alla chiamata. Si prepararono così ad impiegare in quella complessa realtà, martoriata da venticinque anni di dittatura e dai difficili rapporti tra le etnie e le confessioni religiose, quello stile e quella professionalità che già li aveva distinti nelle precedenti missioni, dall'Albania alla Bosnia, dal Kosovo a Timor Est, dove avevano mietuto successi e riconoscimenti, rivelandosi in alcune attività - come le operazioni di polizia e controllo del territorio - un assoluto modello per le Forze Armate degli altri Paesi.

La presenza dei nostri militari in terra irachena era improntata - come di consueto - alla più ampia apertura nei confronti della popolazione locale. Essi non erano e non volevano mai apparire come una forza occupante, rinchiusa nel suo fortino ai margini dell'abitato, ma come una presenza discreta e dialogante, fianco a fianco con la gente del luogo. Il comandante del Reggimento colpito, il colonnello Georg Di Pauli, volle rivendicare anche dopo l'attentato questa scelta coraggiosa. Di fronte alle macerie della sua base, dichiarò: «Avremmo potuto tagliare la città in due. Asserragliarci in un bunker. Ma non saremmo stati una missione umanitaria. E per la pace, per il bene degli iracheni, abbiamo pagato un prezzo altissimo, terribile».

Pochi giorni prima dell'attentato, la nostra Commissione difesa visitò l'Iraq e la città di Nassiriya: i membri della delegazione rimasero molto colpiti dal calore e dalla simpatia manifestate dalla gente di quella città, al passaggio delle vetture che inalberavano la bandiera italiana. I nostri soldati non erano percepiti come una forza di occupazione: al contrario erano ritenuti, in quella difficile fase di transizione verso la democrazia, gli unici garanti dell'ordine e della difesa delle preziose attività di ricostruzione civile ed economica del territorio iracheno.

Ad esempio, due fra i militari caduti, i marescialli aiutanti Massimiliano Bruno ed Alfio Ragazzi, furono insigniti della Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte, per la loro preziosa azione di tutela del patrimonio archeologico iracheno in quei delicati frangenti di instabilità politica.

Questo stato di cose conduceva ad escludere sin da subito l'eventualità che la responsabilità dell'attentato andasse ricondotta all'azione di estremisti locali. Viceversa, come confermato dagli eventi successivi, la pianificazione e l'esecuzione di un'azione così ostile e devastante erano da attribuire ad una rete terroristica di portata internazionale. Essa perseguiva l'esplicito obiettivo politico di provocare il ritiro delle forze internazionali di stabilizzazione e, quindi, far ripiombare il Paese nel caos e nella dittatura.

Nei mesi che precedettero la missione, le forze politiche si erano divise sulla decisione degli Stati Uniti di intervenire militarmente in Iraq per deporre il regime di Saddam Hussein e - di conseguenza - sull'opportunità per l'Italia di partecipare con proprie forze militari alla fase di stabilizzazione successiva al conflitto. All'indomani di quella tragedia, quelle stesse forze seppero mettere da parte, con grande responsabilità, ogni divisione e, condividendo l'altissima considerazione per il valore e l'impegno dei nostri militari, si unirono al dolore delle famiglie e delle Forze Armate.

Tutto il popolo italiano fu scosso da un'ondata di addolorata partecipazione: decine di migliaia di persone sfilarono, sgomente e riconoscenti, davanti alle bare dei caduti, esposte nel Sacrario delle Bandiere del Vittoriano, ed il 18 novembre, giorno dei solenni funerali di Stato, milioni di italiani fermarono per un minuto le loro attività, manifestando la loro partecipazione al lutto nazionale.

Richiamare alla mente quella grande espressione collettiva di affetto e di cordoglio ci aiuta a ricordare, in ogni nostro gesto, che la memoria di chi ha dato la vita per il nostro Paese non appartiene alle Forze Armate, né alle Istituzioni, né ad una parte politica, ma è patrimonio indissolubile dell'intera collettività. Quei diciannove caduti, dei quali diciassette erano uomini in armi, e soldati di grande valore, non saranno mai celebrati come eroi di guerra, per la semplice ragione che non combatterono alcuna guerra: qualunque altra lettura della loro presenza in Iraq sarebbe un torto alla loro memoria.

Il Presidente Ciampi, raggiunto dalla notizia della strage mentre era in procinto di iniziare una visita ufficiale negli Stati Uniti d'America, lo disse a chiare lettere, nell'incontrare il Presidente americano: «L'Italia è andata in Iraq non per partecipare a una guerra, ma per contribuire alla ricostruzione del Paese. Questa è l'identità della Repubblica italiana: costruire la pace».

Il vile attacco ai danni dei nostri soldati non venne nonostante la simpatia e la riconoscenza nutrite verso di loro dalla popolazione irachena, ma proprio a causa di questi sentimenti: le oscure forze del terrore, che prosperano nel caos e nella sopraffazione, li percepirono come nemici irriducibili e li colpirono con le stesse modalità e la stessa spietata durezza con le quali furono attaccate, in terra irachena, le Nazioni Unite e la Croce Rossa Internazionale.

Alla memoria delle vittime del 12 novembre 2003 va poi, purtroppo, aggiunta quella - altrettanto dolorosa - degli altri caduti della missione "Antica Babilonia", che hanno perso la vita in alcuni gravi attentati subiti dai nostri convogli militari, o per effetto di incidenti e scontri a fuoco, nell'adempimento del dovere al quale il Paese li aveva chiamati.

L'antica tradizione della toponomastica celebrativa, così radicata nella cultura europea, ci offre un prezioso strumento per perpetuare la memoria di quel sacrificio: d'ora in poi, uno degli ambienti più importanti per la vita politica all'interno dell'Istituzione parlamentare (perché deputato all'incontro con la stampa) sarà associato, indelebilmente, alla memoria di questi uomini coraggiosi e fedeli.

Lo dovevamo ad essi, ai loro orfani, alle loro vedove, a quanti sono rimasti feriti nel corpo e nello spirito, ma ancora di più lo dobbiamo a quei valori di pace, giustizia, libertà, democrazia, incarnati, oggi come allora, dall'azione quotidiana dei nostri soldati nelle più difficili realtà del pianeta.



Informazioni aggiuntive

FINE PAGINA

vai a inizio pagina