Il Presidente: Discorsi

"L'Italia federale. La Sicilia nel guado"

7 Novembre 2008

Illustri Rappresentanti delle Istituzioni, Autorità del Corpo Accademico, Signore e Signori,
desidero in primo luogo esprimere alla Libera Università della Politica il mio ringraziamento per l'invito ad intervenire in questa iniziativa, dedicata - da una parte - ad un tema oggi così centrale e vivo nel dibattito politico come quello delle prospettive di un'"Italia federale", ma, dall'altra, strettamente connessa al ricordo di Padre Ennio Pintacuda, il cui pensiero, su questo ed altri temi, è non meno vivo e presente.
Non meraviglia infatti affrontare un tema di questa attualità nel nome di un uomo che non è più tra noi.

La capacità visionaria di questo illustre siciliano di Prizzi è uno dei suoi tratti caratteristici, insieme alla sua straordinaria forza promotrice, come questa Libera Università della Politica - e non solo essa - sta a dimostrare.
Nell'estate del 1995, nel laboratorio politico di Filaga, Pintacuda dà il via al suo quarto stage di formazione politica, il cui titolo è di una straordinaria lungimiranza.
Straordinaria, ma non sorprendente, considerando appunto la lungimiranza della visione politica di Padre Pintacuda.
Il titolo era "Efficienza e solidarietà: un progetto economico e federalista per il governo dell'Italia ".

Efficienza e solidarietà, per un progetto federalista.
Mi soffermo sulle parole.
In primo luogo, l'anno. Siamo nel 1995 ed è dalla Sicilia che viene l'invito ad un progetto federalista che sappia insieme unire e responsabilizzare.
Quindi: efficienza e solidarietà.
Questi due termini sono quelli che meglio di ogni altro chiudono le coordinate entro le quali può essere utilmente condotto l'ambizioso -e pur necessario - progetto di costruzione di un federalismo in questo Paese che oggi, 13 anni dopo quel 1995, intraprende proprio in questi giorni in Senato un convinto cammino.

Efficienza e solidarietà.
Le ragioni dell'efficienza non possono che svolgersi insieme a quelle della solidarietà.
Sono due domande che provengono dal Paese, indissolubilmente connesse.
L'efficienza ha giocato un ruolo centrale nello sviluppo stesso dell'emersione del tema del federalismo in Italia.
Non è dubbio che la domanda di federalismo che cresce nel Paese soprattutto a partire dai primi anni '90, per aumentare poi esponenzialmente, è stata, in gran parte, una domanda di buon governo, di servizi migliori e più efficienti.
A uno Stato che, a costi e debito pubblico crescenti, fornisce servizi pubblici largamente avvertiti come inadeguati, è inevitabile che si chieda di lasciare il passo.

Il coevo rafforzamento del vincolo europeo, l'affermarsi del principio di sussidiarietà, l'esperienza e l'esempio significativo di solide democrazie federali occidentali hanno convinto ulteriormente che una speranza di migliore amministrazione e migliori servizi potesse venire dalle nuove e dalle vecchie articolazioni territoriali, più vicine dello Stato ai cittadini: le Regioni, le Province, i Comuni, realtà territoriali dove - tra l'altro - l'elezione diretta del capo dell'esecutivo ha propiziato in generale una più convinta e consapevole partecipazione popolare e ha liberato, in molti casi, un'aria di politica nuova.
Molto è stato fatto in questa direzione, molto resta da fare. Ma il cammino è intrapreso e va condotto fino in fondo, con coerenza di idee e maturità di giudizio.
L'efficienza, dunque, è quello che chiede il Paese e lo chiede attraverso un processo di avvicinamento delle istituzioni al territorio.

Ma chiede, nel contempo e in modo assolutamente complementare, anche solidarietà.
Quello Stato che ha fatto, e sta facendo spazio ad articolazioni più vicine ai cittadini, questo Stato tuttora accentratore, specie di finanze pubbliche, ha tuttavia saputo innegabilmente rispondere all'altezza dei bisogni, e per più di mezzo secolo, al dovere costituzionale dell'unità nazionale, della coesione del paese e della solidarietà tra individui, irrinunciabile baluardo di civiltà ed identità nazionali.
Questo è un caposaldo ed un riferimento che è nostro dovere istituzionale continuare a garantire, a partire dalla più ferma volontà di assicurare un livello essenziale di servizi civili e sociali fornito su tutto il territorio nazionale in modo degno di una grande e civile nazione europea.

Efficienza e solidarietà, erano le linee guida che Padre Ennio Pintacuda tracciava per avviare un progetto economico e federalista per il governo dell'Italia.
Quel cammino è cominciato, consapevole di dover trovare un punto di equilibrio e nella certezza di non avere alternative al trovarlo.
Restare fermi non è possibile.
E' necessario passare il guado.
Nell'intervista del settembre 1995 che è alla base del suo scritto che dà titolo al Convegno, Padre Pintacuda ricordava le fasi attraverso cui i siciliani avevano scardinato la mentalità separatista e superato il pericolo di una condizione di emarginazione: una prima, fino agli anni '60, che "ha visto nascere la Regione dell'autonomia", una seconda, che ha avuto come obiettivo il decentramento e la lotta alle collusioni, alla corruzione e alla partitocrazia, con l'obiettivo di spezzare il legame che intercorre fra politica e mafia.

E al di là di questa fase, da lui vissuta in prima linea, l'ulteriore obiettivo di superare il "guado": la terza fase che doveva condurre la Sicilia verso l'economia matura, la giustizia sociale, verso un federalismo in cui prevalesse "la solidarietà, la partecipazione, l'identità delle etnie, ma soprattutto il recupero del patrimonio culturale e la valorizzazione delle risorse territoriali."
Questi obiettivi sono alla portata, ma richiedono uno sforzo consapevole e convinto.
L'Amministrazione - a qualsiasi livello - deve operare nella più assoluta consapevolezza che le risorse sono un bene scarso, che il cittadino ha il diritto di controllarne l'impiego, che la politica è responsabilità e servizio.
Ma soprattutto le Istituzioni e le forze politiche dovranno essere capaci di garantire che il cammino sia condotto nella costante garanzia di un equilibrio complessivo.

La perdita di equilibrio di una parte si ripercuoterebbe inevitabilmente sull'insieme.
Su questo, due insegnamenti ci arrivano, inequivocabili, dalla crisi finanziaria internazionale.
Primo, che non ci sono parti di un sistema interdipendente che possano restare esenti da un vizio strutturale che pur si manifesti a livello settoriale o locale.
Secondo, la necessità di regole: è impensabile che il pagamento del conto possa essere rimandato sine die, è irresponsabile pensare che possa essere pagato dalle fasce meno protette del Paese.
Non ci sono alternative al rispetto delle regole ed alla consapevolezza dell'interdipendenza del sistema Italia.
L'essenza del federalismo è tutta qui, per il Paese nel suo complesso, per le sue articolazioni territoriali, e, naturalmente, né più né meno che per tutti gli altri, per la Sicilia.

Il guado, per la Sicilia, è posto - come tutti i guadi - tra due rive, che vengono talora identificate in modo contraddittorio, non convincente.
Sulla riva di approdo, ci sarebbe lo status di Autonomia differenziata: su quella riva, secondo una lettura affrettata e superficiale di norme che hanno rango costituzionale, come gli Statuti di autonomia, si troverebbero risorse in abbondanza ed esenzione dalla corresponsabilità finanziaria: quella riva sarebbe il traguardo finale, quella verso cui tendere.
Sull'altra riva ci sarebbe lo status di regione del Mezzogiorno d'Italia, e quindi - secondo una lettura specularmene disattenta - di Regione assistita e piagnona, che tutto avrebbe da temere da un progetto di federalismo fiscale responsabile.

Questa è la riva dalla quale è previsto lo sgombero, l'abbandono.
Per la verità, la Sicilia è una Regione, al pari di altre, caratterizzata da regime di Autonomia differenziata ed è altrettanto sicuramente una Regione del Mezzogiorno.
Ma non è né sulla riva del privilegio, né su quella dell'assistenzialismo.
La Sicilia è una regione - come altre - alla ricerca di un equilibrio, i cui punti di ancoraggio saranno l'attuazione completa del proprio statuto, e la compartecipazione ad una Repubblica unitaria legata dai valori civili di una nazione e dai vincoli sociali di solidarietà.
L'equilibrio che è necessario garantire al sistema federale che nascerà ed a ciascuna regione al suo interno non è un ostacolo alla sua realizzazione, è la sua condizione essenziale.

Non essere consapevoli di questo significa fare un'operazione di facciata, qualcosa di cui il Paese non ha assolutamente bisogno, far finta di cambiare tutto perché non cambi nulla.
E' la Sicilia nel guado che non disdegnava Don Fabrizio Corbera, quel siciliano illustre che tutto il mondo conosce con il nome di Gattopardo, con quel suo esser sospeso tra il suo passato ed il futuro del nipote prediletto Tancredi, il cui pensiero, condiviso dal Principe di Salina, era destinato a diventare celebre: "se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi".
Questo, oggi non è più possibile.

Padre Ennio Pintacuda non amava il gattopardismo e non considerava neppure l'ipotesi di restare nel mezzo.
Il senso del suo incitamento era: o di qua o di là.
Noi abbiamo preso la strada per andare al di là.
Il nostro è un Paese lungo e stretto e quindi fatto - anche - di diversità, di tante diversità. Queste diversità devono essere raccolte e valorizzate, lungo il cammino.
E come lungo e stretto è questo Paese, così anche il cammino da compiere sarà inevitabilmente lungo ed in parte stretto.
Non sarà lungo - si badi - il cammino parlamentare: le camere hanno approvato per tempo la risoluzione sul DPEF che qualifica il disegno di legge sul federalismo fiscale come collegato alla manovra finanziaria 2009, dunque con tutte le garanzie procedurali per un esame sollecito.

Ma si tratta di una legge di delega, cui dovrà far seguito non solo e non tanto l'attuazione governativa, ma - soprattutto - la leale collaborazione territoriale nella fase attuativa, particolarmente importante in questo contesto.
La non felice esperienza del precedente decreto sul federalismo fiscale 56 del 2000, tutt'ora intitolato al "federalismo fiscale", lo dimostra.
Quel sistema, che è tuttora vigente, ha conosciuto solo un anno di attuazione, il primo, e, successivamente, una serie continua di contestate soluzioni transitorie.
E il ripetersi di "soluzioni transitorie" - un'espressione che ritengo un vero ossimoro - evidenzia come l'approvazione della legge non sia il punto di arrivo di una riforma, è il punto di partenza.
Il federalismo è un processo o non sarà, ma è indispensabile incominciare subito il cammino.

Un cammino inevitabilmente lungo, dunque, ma anche stretto, perché lo spazio non è molto e le opzioni sono contate: tutto è sul tavolo e la grandissima parte degli enti coinvolti concorda con la grandissima parte delle scelte fin qui maturate.
Il viaggio è stato dunque lungamente preparato ed il momento di partire è maturo.
Questa maturazione è un grandissimo merito dell'azione dell'attuale governo, ma anche di quella dei governi e delle maggioranze che lo hanno preceduto: basti pensare al lavoro dell'Alta commissione sul federalismo fiscale nella XIV legislatura, come pure al primo articolato presentato dal governo Prodi nella XV legislatura.
Che nel lavoro che si sta per avviare in Parlamento sia evidente il contributo di molti, anche competitori politici, è un bene: si tratta, come ho detto, di attuazione costituzionale e di riforma strutturale.

E' un terreno che è bene preservare dai toni più accesi del confronto politico: è evidente che siamo in un'area di interesse comune.
E comune deve essere il convincimento della necessità di innestare un circuito virtuoso: un'amministrazione efficiente aiuta l'economia a girare, ed un'economia che gira - attraverso il vincolo di solidarietà - conferisce risorse ad un'amministrazione che fornisce servizi efficienti.
E' del tutto evidente che questo deve avvenire in un quadro complessivo di coordinamento finanziario, di cui si fara garante lo Stato, che tenga conto delle numerose variabili in gioco, inclusi gli impegni comunitari, e che definisca un ordinato svolgersi di quella che è stata definita la fiscalità responsabile: pago, vedo, voto.
Sono lo spreco, l'irresponsabilità, l'inefficienza ad essere incompatibili con un sistema di solidarietà, che si alimenta, al contrario, di adeguatezza, responsabilità, efficienza.

Non è accettabile finanziare l'inefficienza. L'inefficienza va individuata e corretta, quale danno per la collettività.
Il perpetuarsi del ripiano della spesa storica delle amministrazioni locali condanna ad un ripiano perpetuo, una condizione che non può trascinarsi indefinitamente.
Per il Mezzogiorno e la Sicilia, il federalismo, fiscale ed istituzionale, non è un rischio.
E' un'occasione.
E l'unico rischio è perdere questa occasione.
Intervenendo quest'estate al CERISDI, ho ribadito il mio personale impegno ad un federalismo solidale che accresca e non comprima i diritti sociali che appartengono al patrimonio comune, ma mi sono anche dimostrato consapevole che non si possa continuare a ritenere che il miglioramento del sistema sociale sia subordinato ad un costante ed indefinito incremento di risorse pubbliche destinate alle aree svantaggiate del Paese.

Le aree svantaggiate del Paese devono poter contare sull'intervento solidale delle risorse pubbliche, mai sulla loro perenne ed incontrollata espansione.
Ogni regione in Italia deve misurare le proprie capacità ed i propri limiti e confrontarsi responsabilmente con entrambi.
La Sicilia figura al 216° posto per reddito pro-capite tra le circa 250 Regioni d'Europa.
Questo è inaccettabile per le risorse e le capacità di questa terra.
C'è una riflessione che non può essere elusa. C'è un drammatico nesso tra povertà - o minore ricchezza - e criminalità.
Tra le regioni del Sud dell'Italia, quelle che presentano i valori più bassi di reddito pro-capite sono quelle più afflitte da problemi di criminalità. Questa equazione economica deve essere ben presente nella nostra riflessione.

Maggiore criminalità, uguale maggiore povertà.
La Sicilia ha il dovere morale di liberarsi di questi pesanti fardelli.
I temi legati alla criminalità riportano alla mente la figura ed il pensiero di Padre Pintacuda, dal quale siamo partiti, e che tanta della sua riflessione dedicò alla necessità per la Sicilia di condurre a termine la lotta contro la criminalità organizzata.
Questo, per lui, era il vero guado.
Mi sovviene una sua riflessione svolta - per la verità - in un contesto, come quello del rapporto tra giustizia e politica, nel quale il pensiero del sacerdote era particolarmente tormentato, per la delusione che gli induceva lo sviluppo di una stagione certamente drammatica del Paese.

Ma da quella riflessione dolente e sospesa, va colto - a mio avviso - soprattutto uno spunto, da codificare fino al livello di obiettivo del pensiero politico: " Una cosa mi è chiara però" - dice Padre Pintacuda - "ancora oggi l'Italia soffre e sconta un problema di maturità del sistema politico, di modernità e di confronto con le democrazie europee. Non sarà l'euro a portarci in Europa, ma una democrazia finalmente normale".
Per costruire questa "democrazia finalmente normale" Ennio Pintacuda partiva dal basso, dimostrando di vivere nel profondo la condivisione sostanziale di quel principio di sussidiarietà - base del moderno processo federale europeo - che è, non a caso, di storica ispirazione cristiana.

Solidarietà e partecipazione, valori fondanti.
Basti pensare all'importanza che il Sacerdote riconnetteva alla manifestazione di solidarietà nella lotta alla mafia, data alla Città di Palermo, nel febbraio del 1986, dai sindaci di 60 città di tutta l'Italia.
Oppure alla battaglia per il decentramento amministrativo a Palermo che Pintacuda animò e sostenne negli anni '70.
Quello che può far nascere e crescere la democrazia - ha scritto Padre Pintacuda - è la dimensione del cittadino che vive nella città, nella polis. E' la cittadinanza che "si vive insieme agli altri, costruendo la comunità libera nella solidarietà".
Questo è il fondamento del foedus, il Patto per un'Italia federale unita ed equa.
Questa è la cellula capace di far crescere l'Italia che vogliamo.



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