Il Presidente: Discorsi

Assemblea nazionale dei Circoli del Buongoverno

16 Novembre 2008

Cari ragazzi,
a quasi un anno esatto di distanza ci ritroviamo qui a Montecatini, impegnati nuovamente nei lavori dell'Assemblea nazionale dei Circoli del Buongoverno, intuizione felice dell'amico Marcello Dell'Utri, al quale va il mio saluto particolare.
Dodici mesi che hanno visto un cambiamento nella storia del Paese ed in quella personale di tanti di noi, a cominciare dalla mia.
Eravamo allora impegnati in una quotidiana battaglia parlamentare, dura, accesa, combattuta sempre sul filo del rasoio di pochi voti, con estenuanti schermaglie procedurali, con un impegno anche fisico di costante presenza quotidiana.

In un quadro però, lo riconosco volentieri, di grande correttezza ed equilibrio da parte dell'allora Presidente del Senato, Franco Marini.
Ero allora, lo ricorderete, Capogruppo al Senato. Di un Gruppo, i cui componenti ancora ricordo con affetto e stima, e che sono lieto di vedere in grandissima parte ancora con me a Palazzo Madama.
Oggi sono Presidente del Senato. Sono, e voglio essere, il garante di tutte le forze politiche, l'interprete della necessità di confronto e di dialogo fra tutti i Gruppi.
E' cambiato il mio ruolo e sono diverse le finalità della mia carica.
Non sono però cambiati i miei ideali.

Se l'imparzialità che oggi richiede la mia posizione, se la finalità di favorire un equilibrio armonico fra maggioranza e opposizione (e fra Governo e Parlamento) sono per me condizioni "nuove", identica è la passione che mi anima: la passione per la libertà, per quella libertà che è alla base di tutte le norme che hanno ispirato la prima parte (la più duratura) della nostra Costituzione.
Ad essa ci siamo rifatti quando abbiamo iniziato insieme il cammino tanti anni fa.
Ad essa, anche nel mio ruolo imparziale, continuo oggi ad ispirarmi.

Una libertà che non può che essere un patrimonio da tutelare in capo ad ogni componente dell'Aula di Palazzo Madama, al di là delle sue convinzioni e della sua storia politica e personale.
Ma anche in questo ruolo sono lieto di essere oggi qui con voi.
L'essere garante delle regole parlamentari e del rispetto di tutte le forze politiche rappresentate, mi porterà, ove invitato, ad essere presente in tutti quei luoghi dove ogni forza politica adempie ad uno dei suoi compiti più delicati ed importanti: la formazione dei propri quadri del futuro.
La formazione di una nuova classe dirigente non può essere infatti lasciata al caso.

La retorica degli "homines novi" che la storia della parte finale della repubblica romana ci ha drammaticamente tramandato, è appunto tale: la retorica di chi crede nei cambiamenti improvvisi, nei demiurghi, negli uomini che con la scusa di essere fuori dai circuiti istituzionali propongono soluzioni messianiche, appelli alla piazza e nei momenti bui, alla violenza, stimolando i toni più pericolosi dell'antipolitica e mostrando come unico valore quello di essere, spesso apparentemente, "nuovi".
Negli anni novanta invece, si è dimostrato come fosse possibile un innesto di fortissima novità nella classe politica, senza alcun ricorso né a violenze, né a rivoluzioni.

Scoprendo proprio nelle professioni, nelle competenze scientifiche, nell'entusiasmo di tanti giovani la carta migliore per contribuire ad arginare un'ondata (anche allora) pericolosa di antipolitica e proporsi come classe dirigente nuova, ma radicata nel Paese ed ispirata, l'ho appena ricordato, a quegli ideali di libertà posti a fondamento della nostra Costituzione e ben diffusi, grazie al cielo, nel corpo sociale.
Certamente a voi, che posso già definire giovani dirigenti, tutto ciò forse non basta.
Ed è giusto che ci stimoliate sempre di più ad aprirci alle esperienze, alle professionalità, all'impegno di rinnovamento che voi potete darci.
Che ci chiediate una maggiore responsabilizzazione. E sono certo che noi, classe dirigente, sapremo cogliere questa sfida.

Il discorso mi porta, però, quasi necessariamente ad affrontare un tema in questi giorni all'attenzione di tutti: quello della scuola, dell'Università, della formazione della classe dirigente (questa volta in senso non solo politico) del nostro Paese.
Nessuno può sostenere che il Governo non stia operando su questo tema. Nessuno può sostenere che non fosse finalmente il momento di operare con decisione. E personalmente credo che non ci sia stia muovendo in una direzione sbagliata.
In una direzione, ho detto. Sugli strumenti, certamente, possono esserci diversità di convincimento e di proposta: e su questo il Parlamento saprà senz'altro trovare momenti di ascolto, di confronto, di verifica comune.
Ma sulla direzione di un percorso che sappia finalmente rispettare quanto ci impone la Costituzione nell'articolo 34 non ci possono essere incertezze.

Quando la Costituzione dice che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ci impone di considerare il merito la pietra di paragone di tutti i nostri sforzi.
E quando questo merito è accertato, lo Stato ha allora il dovere di mettere a disposizione tutte le proprie risorse affinché i meritevoli e i capaci (anche se privi di mezzi) raggiungano, come vuole la lettera della Costituzione, i gradi più alti degli studi.
Questo significa dire basta al falso egualitarismo che mette sullo stesso piano tutte le Università, tutti i Dipartimenti, tutti gli studenti; basta alla distribuzione a pioggia delle risorse; basta con un'autonomia che spesso non è intesa come autonomia per una ricerca ed un insegnamento liberi, ma come autonomia per realizzare interessi di corporazioni, se non di gruppi familiari.

La scorsa settimana il Consiglio dei Ministri ha adottato provvedimenti che molti ritengono vadano nella direzione giusta.
E le dichiarazioni di forze politiche e culturali anche contrapposte, oggi disponibili ad un confronto su queste proposte, ci fanno ben sperare.
Si interviene sui concorsi e sulle carriere (punto, questo, fra i più delicati). Si aumentano le disponibilità per le situazioni più virtuose; si interviene sul piano delle borse di studio e su quello degli alloggi universitari. Si riprende, cioè, un percorso che vuole dare attuazione piena a quanto ci chiede la Costituzione.
ll Governo e il Ministro Gelmini in particolare, hanno dichiarato di voler dare ascolto alle richieste di confronto con gli studenti, con le Università, con il mondo della cultura, con le forze politiche di segno diverso.

E', quello della scuola e dell'Università, un tema sul quale bisogna cercare necessariamente punti di equilibrio politici e culturali, che spezzino incrostazioni forti di corporativismo e di clientelismo che, per troppo tempo, hanno strumentalizzato, a volte, proprio le posizioni degli studenti più bisognosi.
Quello dell'Università e della scuola è un tema che mi porta quasi naturalmente ad una riflessione su quella che è l'attuale situazione economica.
La necessità di reperire risorse per il settore scolastico (e qui mi sia consentito sottolineare che spesso il problema non sono le risorse, ma come queste vengono distribuite ed utilizzate) va collocata nel quadro di una situazione economica e finanziaria globale, che sta insegnando a tutti i governi l'impossibilità di soluzioni miracolose e la necessità di interventi attenti, continui, qualitativamente ponderati, sia sul piano della finanza che su quello dell'economia reale.

Il venir meno di antiche certezze e di strumenti una volta ritenuti risolutivi; l'inaffidabilità di "guru" economici alla cui fonte tutti si abbeveravano; l'insufficienza di leve finanziarie più o meno creative (unite a veri e propri interventi speculativi) ci fanno prevedere tempi non brevi per uscire da questa difficile situazione.
La strada che segue il nostro Governo, comune a quella dei partners europei, punta al valore delle scelte condivise fra soggetti ed istituzioni internazionali diverse.
Nessun Paese può pensare di farcela da solo.
Nessuna categoria può pensare di salvarsi a scapito delle altre.

Ma in questo quadro di crisi globale io non posso dimenticare di provenire da una regione, la Sicilia, che, in base ad un recente rapporto ISTAT, ha il non invidiabile primato della più alta percentuale in Italia di famiglie sotto la soglia della povertà.
Non è una lamentela questa: è un dato di fatto che, a mio avviso, deve insegnarci due cose.
In primo luogo che questa crisi colpisce sì tutto il Paese e tutte le categorie, ma che ha anche effetti traumatici su chi già si trovava in situazioni di marginalità estrema.
Ed allora impone a tutti di pensare non solo in termini, per quanto necessari, di interventi macroeconomici; ma anche in termini di aiuto a tanti per una vera e propria sopravvivenza; di solidarietà e (uso il termine con piena consapevolezza anche del suo significato profondamente cristiano) di "carità" verso coloro che in questi mesi stanno affrontando situazioni di bisogno materiale, di cui forse non molti hanno l'esatta percezione.

E nostro dovere far crescere nei cittadini, nelle forze politiche ed istituzionali, la consapevolezza che quanto già meritoriamente e con grande spirito di abnegazione viene svolto nel campo sociale ad opera del volontariato, sia laico che cattolico, non basta.
Non ci stancheremo mai di ringraziare chi, senza nulla chiedere, aiuta i deboli con spirito di missione e sacrificio, a volte portando questa carità anche fuori dal Nostro Paese sino al sacrificio estremo.
Le istituzioni devono mettere in condizioni queste realtà di poter meglio operare.
La seconda riflessione è che proprio la peculiarità della crisi economica può trovare fra gli elementi di soluzione quello di un rapporto diverso fra Stato centrale ed autonomie, fra il nord e il sud del Paese.

La questione del federalismo si pone oggi come momento centrale nell'azione di governo per i prossimi mesi.
Il Senato sta lavorando su questi temi in maniera assai impegnata.
Occorre saper creare un federalismo che sia responsabile e solidale.
Responsabile perché finalmente i cittadini sapranno a chi chieder conto del rapporto tra quanto danno e i servizi che ricevono.
Ed allora le istituzioni avranno tutto l'interesse ad innescare un meccanismo virtuoso, perché, come diceva giustamente Luigi Einaudi: "Gli uomini vogliono istintivamente rendersi ragione del perché pagano; e se quella ragione non è spiegata chiaramente gridano all'ingiustizia".
Federalismo solidale, perché dovrà saper certamente fornire le giuste risposte al malessere antico del nord, ma anche impostare in modo nuovo il rapporto nord-sud.

Il Sud chiede di partire dai dati oggettivi, da un ritardo inconcepibile nella creazione di una rete infrastrutturale adeguata che ormai va assolutamente colmato; da problemi ambientali assai spesso creati e sfruttati dalla criminalità organizzata; dalla necessità di una presenza forte dello Stato, che dia fiducia ai cittadini e agli operatori economici.
Quegli operatori i quali, negli ultimi tempi, hanno avuto il coraggio di ribellarsi alle intimidazioni della mafia e rappresentano ormai lo specchio di un territorio che, con grande senso di responsabilità e maturità, sta isolando sempre di più ogni forma di criminalità.
E siamo certi che le recenti minacce nei confronti di coraggiosi imprenditori siciliani, non sono altro che una manifestazione di debolezza da parte di una criminalità che si sente ormai assediata e quasi sconfitta dalla sinergia tra la nuova coscienza civile dei cittadini del Sud e la capacità di contrasto delle Forze dell'Ordine, che hanno ottenuto grandi successi con la cattura di super latitanti e l'entrata in vigore di recenti, nuove e rigorosissime leggi che rendono ancora più incisiva l'aggressione dei patrimoni mafiosi.

Questi imprenditori coraggiosi sappiano comunque che attorno a loro c'è lo Stato, ci sono tutte le Istituzioni che sapranno fare la loro parte nel testimoniare ogni giorno la loro presenza, impedendo, tra l'altro, che si abbassi il livello di guardia nel contrasto ad ogni forma di criminalità organizzata.
Il meridione sta cambiando.
Lo sviluppo del sud è condizione imprescindibile per lo sviluppo del nord.
Proprio dal Mezzogiorno provengono segnali interessanti sulla ricerca di nuovi modelli di efficienza burocratica ed istituzionale che danno il segno della volontà di un vero cambio di rotta rispetto al vecchio clientelismo ed assistenzialismo che ne è stata la sua zavorra.
Una competizione nella ripartizione delle risorse, è un danno non per il nord, per il sud o per il centro: è un danno per tutto il Paese.
Un federalismo solidale deve partire proprio da questi dati di fatto, e trovare un necessario punto di equilibrio che sappia essere modello di propulsione economica e di crescita per l'intero Paese.

Mi si consenta a questo proposito una riflessione suggerita da un'appassionata discussione nei giorni scorsi, in Senato, sul Fondo per le Aree Sottoutilizzate.
Un uso intelligente e flessibile degli strumenti finanziari della politica economica (quali il FAS) è necessario per garantire uno sviluppo del Paese nel suo insieme.
Questo strumento costituisce per sua natura una sorta di "polmone finanziario", che può essere ridotto e ricostituito in base a quelle che sono le necessità effettive della spesa.
Può essere quindi certamente oggetto di rimodulazione, ma, e questo va sottolineato con forza, non può perdere la sua natura di strumento di governo per una politica di intervento assolutamente prioritaria e maggioritaria nelle aree sottoutilizzate del sud.
Il meridione in questi mesi ha accettato, se pur con grande difficoltà, ma con senso di forte responsabilità, una utilizzazione dei fondi FAS a vantaggio di altre aree e di altri settori, per consentire al Governo di far fronte ad esigenze economico sociali dell'intero Paese.

Di questa disponibilità, che certamente non potrà proseguire a lungo e che costituisce una forma di solidarietà inversa dove il debole aiuta il più forte, dovrebbero tutti tenere conto, anche coloro i quali hanno recentemente criticato il sostegno dato dal Governo, proprio attraverso i fondi per il Mezzogiorno, ad alcune amministrazioni meridionali in particolare difficoltà.
Il federalismo istituzionale, complementare a quello fiscale, è però solo uno dei momenti di una non più procrastinabile riforma delle istituzioni.
La scorsa settimana sono stato invitato dagli studenti della LUISS, a Roma, a tenere loro una lezione su questo tema.
I punti centrali del mio intervento hanno posto in luce la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra Governo e Parlamento, tra maggioranza e opposizione, che risponda a quella vera e propria rivoluzione politica che le elezioni di questa primavera hanno provocato.

Quasi dimezzati i gruppi parlamentari, l'82% dei senatori riuniti in due soli schieramenti che si fronteggiano.
A questa, da tanti auspicata, chiarezza nel quadro dei partiti deve ora corrispondere altrettanta chiarezza nei rapporti tra parlamento e governo, e, come ho detto, tra maggioranza e opposizione.
Il governo deve avere tempi certi per l'esame dei provvedimenti ai quali attribuisce particolare urgenza.
Ciò comporterà, ne sono ampliamente convinto, la riduzione del ricorso allo strumento del decreto-legge e alla questione di fiducia.
Il Parlamento deve avere maggiori strumenti di controllo su quanto fa il Governo.

Ciò vale in particolare per l'opposizione, alla quale vanno date una visibilità istituzionale ben definita e poteri chiari nell'esercizio del controllo sull'attività del Governo.
Non si tratta su questi temi di dividerci sul fatto se la nostra "Casa costituzionale" vada riformata partendo dal tetto o dalle fondamenta.
Va riformata.
Su questo tutti siamo d'accordo e da questo dobbiamo partire.
E' un sistema complesso, in cui tutte le parti si tengono e ciascuna Istituzione, nel proprio campo, deve fare quello che i cittadini si aspettano: sapersi riformare, sapersi adeguare a quelle esigenze che ho appena ricordato.
In questo contesto di riforme, un accenno voglio fare a quella della giustizia che è un problema che non riguarda, come sostengono in mala fede alcuni, solo i politici, ma in primo luogo i cittadini, ai quali lo Stato deve rendere un servizio che funzioni e che sia realmente imparziale.

La giustizia civile ed amministrativa, quella penale, i tempi dei processi, le attese, i costi, le risorse, le condizioni materiali nell'esercizio dell'azione giudiziaria, lo stato delle carceri: sono, questi, temi su cui molti cittadini maturano insoddisfazioni profonde e lamentano spesso vere e proprie "ingiustizie".
Anche su alcuni di questi temi il Governo ha avanzato le proprie proposte e il Parlamento le sta valutando con attenzione.
Il problema della giustizia non è però solo questo.
E' anche quello di saper garantire, nel solco della riforma del 1999, una effettiva parità tra accusa e difesa, una realizzazione compiuta del giusto processo.
Ed oltre a questo, il problema della giustizia è anche quello di affrontare finalmente, con un confronto franco e costruttivo con tutti i soggetti interessati, il tema di una magistratura che deve essere messa in condizioni di meglio operare al servizio dei cittadini.

Certamente con più risorse, ma anche con norme più adeguate per quanto riguarda il reclutamento dei magistrati, le loro carriere, il loro aggiornamento, la tutela della loro indipendenza ed anche, se necessario, nei casi estremi, della loro sicurezza.
In un quadro che sappia poi tornare all'originaria impostazione dell'articolo 104 della Costituzione sul Consiglio superiore della magistratura, che lo voleva organo autonomo, non espressione di correnti che nel corso degli anni ne hanno spesso condizionato l'attività.
E la mia, si badi bene, non vuole essere una critica agli attuali autorevoli componenti dell'Organo, guidato tra l'altro da Nicola Mancino, una persona di riconosciuta esperienza e capacità per la sua storia professionale e politica, ma al sistema del suo funzionamento correntizio, sul quale mi auguro si possa aprire un dibattito a tutto campo, proprio partendo dall'interno della magistratura, prima ancora che dalle forze politiche.

Non posso dimenticare che il Consiglio d'Europa ha più volte raccomandato di rafforzare lo status e l'indipendenza, da qualsiasi parte, dei membri del Consiglio superiore della magistratura (o organismi equivalenti) e non posso non ricordare che a garanzia di questa indipendenza la nostra Costituzione volle porre al vertice del CSM proprio il Capo dello Stato.
Nessuna operazione di ingegneria costituzionale può però pensare di risolvere uno dei temi centrali di questo momento storico: quello del rapporto tra etica e politica.
E' facile in questo campo cadere nella banalità e nella retorica.
Ma anche se a qualcuno sembrerà banale e retorico, io credo che bisogna affermare con forza che l'azione politica non può prescindere da una moralità anche più alta di quella che deve pervadere l'azione dei comuni cittadini.
Finito il periodo di una politica intesa quasi esclusivamente come realizzazione dei propri "ideali", se non delle proprie "ideologie", (responsabile forse dei tanti disastri, delle tante guerre e dei tanti stermini di ogni colore che ci ha lasciato il eredità il Novecento), va recuperato il senso di una politica come servizio verso i cittadini.

La nostra capacità di saper cogliere, di interpretare, di realizzare le richieste che i cittadini e il corpo elettorale ci rivolgono, deve essere il metro della nostra azione.
Perdere di vista il senso della realizzazione di un interesse comune (che non è solo l'interesse di chi ci ha votato) significa renderci prigionieri da una parte di una visione limitata e parziale dell'azione politica; dall'altra, ed è il caso peggiore, renderci portatori di interessi locali e corporativi.
Ciò comporta, in concreto, non solo la necessità di avere chiaro per noi questo contesto ideale, ma anche la responsabilità di saper scegliere per la realizzazione di questo quadro collaboratori, amministratori, dirigenti che in questi principi sappiano riconoscersi.
E' il nodo del rapporto tra politica e amministrazione.
L'uomo politico non può disinteressarsi degli strumenti attraverso cui la sua azione si svolge.
Egli è responsabile delle azioni di chi agisce perché da lui nominato, e deve sempre ricordarsi che il primo impatto dei cittadini con le istituzioni avviene attraverso gli uomini: uomini che la politica spesso sceglie e nomina e di cui è, quindi, responsabile.

Non operando bene, non solo veniamo meno ai nostri doveri di curatori della cosa pubblica, ma, ancora più grave, provochiamo nei cittadini quel sentimento, disastroso per la democrazia, che conduce dalla critica agli amministratori e ai politici, alla critica, e spesso alla denigrazione, delle istituzioni.
E questo è un fatto esiziale per la democrazia.
La democrazia può morire per tante ragioni: tra queste la più pericolosa, nell'attuale fase storica, è proprio lo spostarsi della critica dai comportamenti individuali, dalle singole persone, dai politici, dai governanti, dai partiti, al livello delle Istituzioni e, in primo luogo, delle Istituzioni rappresentative.
L'antiparlamentarismo è una corrente pericolosa, che ha attraversato il nostro Paese fin dai primi giorni dell'Unità nazionale.
Se leggiamo i romanzi parlamentari dell'800, da Federico De Roberto a Fogazzaro, passando ai pubblicisti che mostravano senza pietà i limiti degli uomini politici di allora, vediamo sottintesa una sfiducia, una critica, un'irrisione e una condanna senza appello non più degli uomini, ma delle Istituzioni.

La storia ha dimostrato dove questa denigrazione senza appello delle Istituzioni ha condotto il nostro Paese.
La storia ha dimostrato dove ha condotto la sconfitta della Repubblica di Weimar.
La storia ha dimostrato il risultato feroce cui portò l'abbattimento, nella Russia di inizio secolo, dei timidi tentativi di instaurazione di forme di Governo parlamentare.
Sono stato recentemente ad Auschwitz; ho visto di persona gli orrori indicibili di quei luoghi, non diversi purtroppo dagli orrori che il '900 ha reso connaturati ad altre dittature, fino ad anni che la mia generazione ricorda assai bene.
La mia condanna di questi orrori ha generato reazioni offensive anche nei riguardi della mia persona. Tutto ciò non mi ha minimamente turbato.
Continuerò su questa strada senza alcuna volontà di rivalsa nei confrionti degli autori, tra l'altro già identificati.

Da piccole cause, e anche qui ce lo dimostra la storia, possono nascere dolori e sofferenze: dall'irrisione, dal disprezzo, dalla distruzione delle Istituzioni rappresentative e democratiche nascono solo violenze, sopraffazioni, dittature.
Non dimentichiamolo noi politici, accettiamo le critiche, anche le più feroci, nei nostri riguardi, ma non consentiamo mai le offese alle nostre Istituzioni.
Istituzioni che tanto sono più rispettate, quanto più le forze politiche si richiamano ed adottano alcuni fondamentali ed importanti principi di convivenza.
La ricerca del dialogo deve essere sempre il quotidiano imperativo categorico a cui ogni forza politica deve ispirarsi.
La politica non si deve misurare nella ricerca o nella rincorsa a tutti i costi del consenso immediato, ma nell'ascolto reciproco delle parti in un clima di rispetto e di capacità di compiuta proposta, da una parte e dall'altra.

Una maggioranza nel rispetto del proprio dovere di attuazione del programma elettorale, deve saper scontare il prezzo di un eventuale dissenso immediato da parte di alcuni, nella consapevolezza che poi le sue scelte, in tempi medi , porteranno invece benefici al Paese.
E lo deve fare non chiudendosi alle critiche o alle proposte dell'opposizione, avendo il coraggio politico di saper accogliere suggerimenti migliorativi o innovativi del proprio operato.
Una opposizione, di contro, anziché chiudersi in atteggiamenti reattivi per principio e, quindi pregiudiziali, deve avere il coraggio di condividere quelle scelte della maggioranza che ritiene giuste per il Paese e nello stesso tempo elaborare le proprie proposte alternative di governo.
Questo è il modello a cui le forze politiche dovrebbero ispirarsi, oggi anche agevolate da una semplificazione e riduzione della loro presenza parlamentare voluta dai cittadini con il voto.
In Italia siamo ormai alla vigilia del bipartitismo, su spinta dei processi di aggregazione delle forze politiche e degli stessi elettori, ma non vediamo ancora quei comportamenti e quelli scenari che caratterizzano le democrazie bipartitiche, come le inglesi e le americane, espressioni di serrati ma composti confronti di due grandi aree competitive, ma non conflittuali come nel nostro Paese.

Occorrerà lavorare per questo obiettivo giorno dopo giorno con caparbietà e convinzione, senza mai lasciarsi prendere dallo sconforto dello scontro, a volte violento tra maggioranza ed opposizione, nella consapevolezza che soltanto la perseveranza nella ricerca di un confronto più composto prima o poi darà i suoi frutti.
Voglio fare una riflessione che parte dalle recenti elezioni politiche americane.
Non mi sono mai accalorato a fare previsioni più o meno interessate su chi avrebbe vinto.
La scelta spettava agli americani. E loro hanno deciso.
Quello che ho voluto sottolineare anche nell'Aula del Senato è l'esempio altissimo di democrazia che il popolo americano ha saputo dare.
Mesi di dibattiti intensi, appassionati, aspri. Mesi che hanno visto centinaia di migliaia, se non milioni, di uomini e donne personalmente coinvolti nella campagna elettorale, nelle strade, sui giornali, con un uso mai finora visto non solo dei tradizionali mezzi di comunicazione radiotelevisiva, ma di quelli della comunicazione informatica.
Una scelta consapevole, frutto di passione e ragione che ha visto ancora una volta quel grande Paese, l'America, indicarci la strada per un rinnovamento della politica.

Un rinnovamento che parte, e noi lo sappiamo bene, dai principi di libertà cui più volte ho oggi fatto riferimento: dalla libertà di espressione, da quella di manifestazione del pensiero, da quella di riunione, da quella di esercizio del proprio credo politico, religioso, morale.
Il tutto cementato, negli schieramenti che si sono lì contrapposti, da un radicamento profondo nelle proprie radici e nelle proprie identità.
Mai nessuno ha rinnegato l'essere americano, mai nessuno ha rinnegato quei valori nei quali è cresciuto e che ha tramandato ai propri figli.
E' quello che dobbiamo fare noi, forti della nostra identità, forti del radicamento nella nostra cultura, forti nei nostri valori, capaci di rinnovarli, di adeguarli, mai di tradirli, forti nella religione della libertà e del rispetto reciproco.
Questi valori, ricordatelo ragazzi, devono convincerci: che chi non la pensa come te non è un nemico da contrastare con ogni mezzo sino alla denigrazione, ma una persona che ha il diritto delle proprie idee -anche se non coincidenti con le tue- e di poterle esprimere e sostenere;
che il confronto con l'avversario politico deve essere momento di approfondimento e conoscenza del pensiero altrui sino ad non escludere l'ipotesi di una revisione autocritica se pur parziale delle proprie opinioni; che il dibattito deve essere momento di arricchimento e non di scontro, in cui il confronto tra tesi diverse valorizzi la reciproca capacità di ascolto e riflessione.

E per concludere , vorrei ricordarvi che una delle grandi forze del nostro Paese è stata , e sono certo che continuerà ad esserlo , la capacità, nei momenti di grandi tragedie che hanno colpito la nostra comunità nazionale, di ritrovare al proprio interno grandissima coesione e forte spirito unitario di solidarietà.
Penso alle calamità naturali, agli anni bui e drammatici del terrorismo ed alle grandi stragi della criminalità organizzata, in cui hanno pagato il prezzo più alto servitori dello Stato e semplici cittadini.
Penso ai nostri caduti in missioni di pace.
In questi giorni abbiamo commemorato i nostri eroi di Nassiriya e proprio di fronte a questa tragedia, ho lucido in me il ricordo della composta e forte solidarietà di tutti i cittadini e il dolore dignitoso dei familiari.
Andai al Vittoriano incontrai ed abbracciai tutti i parenti dei caduti che si stringevano attorno ai loro cari.

Quella sera mi colpì l'immensità della folla dinnanzi all'Altare della Patria.
Era una folla che parlava attraverso il proprio silenzio, era un silenzio dove si respirava il dolore di un popolo che soffriva, ma che era orgoglioso dei propri caduti e dei propri valori.
In quel momento mi commossi tantissimo.
Anche io, mi sentii orgoglioso di essere italiano..
Siatelo anche voi..!
Siamo un popolo che ha pagato tanto per la propria libertà e per la libertà altrui.
Sacrifici che sono un patrimonio indelebile; un patrimonio che poi splende sempre di più con il passare degli anni perché ci dà forza.
La forza di credere nella nostra democrazia e nella libertà che essa ci garantisce.
Quella libertà che sarà vostro compito, "cari ragazzi", difendere sempre con orgoglio e con quell'entusiasmo che è la forza di una generazione sana come la vostra!



Informazioni aggiuntive

FINE PAGINA

vai a inizio pagina