Legislatura 18ª - Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere - Resoconto sommario n. 54 del 14/07/2020
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Allegato 2
Relazione sulla governance dei servizi antiviolenza e sul finanziamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio (TESTO APPROVATO)
Premessa
Nell’ambito delle attività della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, la presente relazione intende esporre i risultati dell’indagine di monitoraggio del sistema istituzionale di finanziamento e governance dei servizi che operano nel campo della prevenzione e del contrasto alla violenza maschile contro le donne.
Il rapporto prende quindi le mosse da una ricostruzione delle principali tappe politiche e normative che hanno strutturato l’attuale sistema istituzionale e del ruolo primario svolto dai Centri antiviolenza, per poi affrontare, nella seconda parte, le criticità e i punti maggiormente controversi di tale sistema.
In conclusione, si presentano alcune raccomandazioni per una riforma complessiva della governance del sistema.
Con questa relazione la Commissione intende essere di stimolo e supporto per una revisione dell’Intesa Stato-Regioni, obiettivo prioritario non più rimandabile, da intendersi come primo necessario passaggio verso l’elaborazione di una riforma organica della normativa in materia di prevenzione e il contrasto a ogni forma di violenza di genere.
1. Il sistema istituzionale antiviolenza e il ruolo delle associazioni di donne
1.1 i dati ISTAT e IRPPS-CNR sui servizi specializzati
L’analisi dei dati più recenti, elaborati da ISTAT e da IRPPS-CNR nell’ambito dell’accordo sottoscritto con il Dipartimento per le Pari Opportunità in materia di Monitoraggio, Valutazione e Analisi degli interventi di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne, ci offre un quadro preciso della complessità che caratterizza l’attuale organizzazione istituzionale del sistema di servizi antiviolenza in Italia, consentendoci di evidenziarne le principali criticità, sulle quali diviene sempre più urgente intervenire.
Per quanto riguarda il numero dei Centri antiviolenza[ 1], che rappresentano il cuore e il perno del sistema, nel momento della rilevazione ne risultavano attivi 366, dei quali ne sono stati analizzati 335, alcuni dei quali articolati, oltre alla sede principale, in uno o più sportelli diffusi sul territorio, per un totale di 647 punti di accesso.
Le donne che hanno contattato almeno una volta un Centro antiviolenzasono state complessivamente 49.021 (in media nazionale, 156 per ogni Centro). Sono 32.632, invece, le donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza con il sostegno dei Centri (in media nazionale, 104 per ogni Centro): tra queste sono 10.488 le donne inviate ai Centri da altri servizi specializzati e generali presenti sul territorio e 8.711 le donne straniere (in media nazionale, 30 per ogni Centro).
In base alla medesima rilevazione, le Case Rifugio[ 2] operative sul territorio nazionale sono risultate essere 264: le persone prese in carico dalle strutture di accoglienza sono state complessivamente 4.483 (donne e minori), per un totale di 2.239 donne, con 2.244 minori al seguito.
Come è stato sottolineato dalle Associazioni audite il 14 gennaio 2020 presso questa Commissione[ 3], siamo di fronte a numeri in costante crescita: un dato che restituisce un’accresciuta fiducia delle donne che vivono situazioni di violenza nei confronti dei servizi specializzati.
Se guardiamo alle loro caratteristiche, un primo dato da sottolineare riguarda la tipologia degli enti gestori. La maggioranza assoluta dei Centri è infatti gestita da enti privati senza fini di lucro: nel complesso sono 283, pari al 84,5 per cento del totale. I Centri antiviolenza a gestione pubblica, invece, sono 51 (15,2%), dei quali oltre la metà sono localizzati nelle Regioni settentrionali. Anche tra gli enti gestori delle Case rifugio prevalgono in modo assoluto i soggetti privatiche sono pari al 92%, mentre gli enti pubblici rappresentano il restante 8%. Ad una analisi disaggregata si nota anche qui una diseguale distribuzione nelle diverse parti del Paese: nel Nord la presenza di gestori pubblici arriva a 10%, mentre nel Mezzogiorno e nel Centro si attesta sul 4%.
Un secondo dato che qui interessa sottolineare, riguarda il livello di specializzazione degli enti gestori: solo la metà dei Centri gestita da organizzazioni private no profit, infatti, risulta specializzata esclusivamente in violenza contro le donne (55,1 per cento). Tra questi, vi sono in particolare i Centri storici, gestiti da associazioni legate al movimento delle donne per le quali l’approccio femminista e di genere nella risposta alla violenza è fondativo: è proprio questa tipologia di associazioni che, nel corso del tempo, ha messo a punto la «metodologia dell’accoglienza basata sulla relazione tra donne», assunta come requisito cardine del D.L. n.93/2013, conv. in legge n. 119/2013 e dall’Intesa Stato-Regioni del 2014.
Per quanto riguarda l’universo dei gestori privati delle Case rifugio, la percentuale di coloro che si occupano esclusivamente di violenza contro le donne scende al 46%. Dunque, a livello nazionale, la maggioranza delle associazioni che gestiscono Case rifugio si occupa anche, ma non prioritariamente, di violenza di genere (54%): una percentuale che cresce leggermente nel Centro (58%) e nel Sud (57%).
Nel caso dei Centri antiviolenza, inoltre, il dato sul livello di specializzazione, risulta estremamente rilevante se associato al dato sull’anzianità di servizio maturata nel campo dell’antiviolenza dagli enti gestori. Tra i Centri attivi nel momento della rilevazione, infatti, non tutti possono vantare una lunga e consolidata esperienza: i dati rivelano che tra i 335 Centri antiviolenza analizzati, ben il 32,5 per cento è operativo solo dal 2014.
Questo incremento, che si è verificato soprattutto a partire dal 2014 può essere interpretato in due modi: come l’effetto di una notevole crescita di consapevolezza e impegno sul tema tra le associazioni del Terzo settore, o come l’effetto di un’azione strategica per accedere ai finanziamenti pubblici, che sono stati assegnati a questi scopi dal 2013.
Il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con legge n. 119 del 15 ottobre 2013, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», prevede, infatti, lo stanziamento di appositi fondi da destinare al finanziamento dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio (art. 5bis). Tali risorse, sebbene transitino dal "Fondo Nazionale per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità", sono destinate alle Regioni, secondo un piano di riparto definito annualmente dal Ministro delegato per le pari opportunità, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
Il decreto legge del 2013 e il primo atto dell’Intesa Stato-Regioni del 2014 - «Intesa relativa ai requisiti minimi dei centri antiviolenza e delle Case rifugio, prevista dall’art. 3, comma 4 del DPCM del 24 luglio 2014» – hanno certamente rappresentato uno spartiacque nell’organizzazione del sistema antiviolenza in Italia.
Si tratta infatti di due importanti interventi normativi, che assumono tra i loro principali intenti tanto il potenziamento dei servizi già esistenti, quanto la promozione di una più ampia diffusione – anche territoriale - dei servizi.
Da questi atti normativi discende anche quella prevalenza, sopra rilevata, di servizi gestiti da soggetti di natura privatistica, che risponde, in definitiva, all’intento dichiarato di promozione del più ampio coinvolgimento delle organizzazioni della società civile nelle azioni di contrasto della violenza contro le donne.
Per rispondere agli obiettivi e ai principi stabiliti con la ratifica della Convenzione di Istanbul (legge n. 77 del 27 giugno 2013), era sicuramente necessario, in primo luogo, un incremento, anche numerico, dei servizi territoriali attivi in relazione alla popolazione femminile di età superiore ai 14 anni, adeguato agli standard previsti dalla raccomandazione Expert Meeting sulla violenza contro le donne (Finlandia, 8-10 novembre 1999)[ 4].
Sarebbe stata, inoltre, necessaria l’introduzione di criteri minimi per il finanziamento di tali servizi, che solo in parte vengono fissati dal Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, previsto dal citato D.L. n.93/2013, conv. in legge n. 119/2013.
La necessità di soddisfare contemporaneamente entrambe queste esigenze e il mancato accoglimento delle istanze avanzate con forza dai Centri antiviolenza storici, ha indotto il legislatore a privilegiare formulazioni ambigue, soprattutto con riferimento alla natura e alle caratteristiche degli enti gestori, nonché dei requisiti minimi dei servizi, finendo per determinare una notevole disomogeneità del sistema nel suo complesso. Un aspetto cruciale, sottolineato dalle stesse Regioni oltreché dai Centri antiviolenza, e di cui ci occuperemo nel dettaglio nella seconda parte della relazione.
Per comprendere più in profondità i limiti dell’attuale modello di governance delle politiche pubbliche di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne, occorre innanzitutto richiamare la genesi del sistema di interventi in materia di violenza contro le donne.
1.2 La nascita dei Centri antiviolenza e delle case rifugio e lo sviluppo delle politiche nazionali di contrasto alla violenza contro le donne in Italia
Il Rapporto sull’implementazione della Convenzione di Istanbul in Italia redatto dal Gruppo di esperte/i del Consiglio d’Europa (Grevio), recentemente acquisito dalla Commissione anche nella sua traduzione italiana, sottolinea quanto il sistema italiano di protezione e supporto delle vittime di violenza e dei/delle loro figli/e si basi «in larga misura sul lavoro delle ONG femminili, che di norma si organizzano sotto forma di organizzazioni senza scopo di lucro che gestiscono centri antiviolenza e Case rifugio a livello locale o regionale. Oltre a gestire servizi specializzati per le vittime, tali ONG organizzano attività di prevenzione e offrono formazione sulla violenza nei confronti delle donne per funzionari delle forze dell'ordine, pubblici ministeri, magistrati, assistenti sociali e altri soggetti interessati»[ 5].
Il ruolo delle associazioni di donne e la necessità di un loro coinvolgimento attivo nella progettazione delle politiche di contrasto alla violenza contro le donne viene del resto riconosciuto anche al livello della legislazione nazionale, e, in particolare, dall’articolo 5, comma 1, del D.L. n.93/2013, conv. in legge n. 119/2013.
In questo senso, se oggi i Centri antiviolenza e le Case rifugio «costituiscono lo snodo centrale della rete di presa in carico territoriale» e «gli elementi cruciali dei sistemi integrati di governance territoriale locale e delle relative reti»[ 6], rappresentando la risposta più coordinata e organizzata al fenomeno della violenza di genere, è proprio grazie all’impegno decennale che le associazioni di donne hanno profuso su tutto il territorio nazionale.
I primi spazi autonomi di ascolto protetto e sostegno attivo gestiti da donne e dedicati a donne in situazioni di violenza, sono infatti sorti in Italia tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, sulla scia di medesime esperienze emerse negli anni Ottanta nel nord Europa.
La loro origine si radica nel movimento delle donne che si era sviluppato negli anni Settanta a livello internazionale, e in particolare nella diffusione dei gruppi di autocoscienza: è proprio in questo tipo di gruppi, basati sulla condivisione tra donne dei propri vissuti, che inizia a emergere la pervasività della violenza intrafamiliare e si inizia a costruire un’analisi storico-politica del persistente sistema di disuguaglianze sociali tra uomini e donne che sostengono tale violenza.
Nel corso degli anni Ottanta, dopo un’intensa stagione di manifestazioni di massa che avevano l’obiettivo di rendere visibile a livello pubblico il fenomeno della violenza contro le donne, l'attivismo femminile e femminista italiano si capillarizza, spostando il focus del proprio intervento sulla trasformazione sociale e il lavoro di sensibilizzazione nei territori, attraverso la fondazione di associazioni, centri culturali autonomi, librerie e biblioteche delle donne.
Il primo incontro, finalizzato alla condivisione di progetti e pratiche antiviolenza, e in particolare al confronto sulle esperienze europee già avviate di Case rifugio, si svolge a Venezia alla fine del 1986 con il titolo Violare il silenzio. La conferenza viene organizzata dal Centro donna del Comune di Venezia, che era stato istituito nel 1980, in collaborazione con il Comitato che aveva promosso la legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale nel 1979.
I primi Centri antiviolenza e Case rifugio nascono su iniziativa di gruppi di donne provenienti dall’UDI e da altre associazioni femministe in città come Bologna, Modena, Milano, Roma, Merano e Palermo, spesso con il sostegno delle amministrazioni locali e provinciali, che iniziano a occuparsi di politiche di contrasto alla violenza contro le donne molto prima dell'amministrazione centrale: la prima legge regionale risale infatti al 1989, e viene promulgata dalla Provincia autonoma di Bolzano.
Nel corso degli anni Novanta i Centri e le Case si sviluppano con grande rapidità e in meno di un decennio vengono fondati 70 Centri antiviolenza: una fioritura resa possibile e stimolata dal costante confronto e dalla circolazione delle pratiche e delle esperienze promossa dalla Rete dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne. La Rete, convocata per la prima volta al Centro documentazione delle donne di Bologna nel 1991, organizza il primo convegno nazionale nel 1996a Marina di Ravenna, con il titolo Uscire dalla violenza si può, al quale partecipano più di 500 donne[ 7][DLR2] .
Come ricorda il Rapporto del Grevio, dunque,«i movimenti femminili e le ONG per i diritti delle donne hanno rivestito, e continuano a rivestire, un ruolo fondamentale nel sostenere e permettere l'evoluzione delle misure legislative e politiche per prevenire e combattere la violenza nei confronti delle donne»[ 8].
Da questo punto di vista, gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, hanno rappresentato un periodo molto dinamico, sia per quanto riguarda l’impegno delle associazioni di donne sia per quanto riguarda il livello istituzionale, che registra una accresciuta presenza femminile, sia per quanto riguarda i rapporti intercorsi tra questi due livelli, a tratti conflittuali, a tratti virtuosi.
Nel 1995 l'Italia aderisce alla Dichiarazione ONU, approvata dalla Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne "Azione per l'Uguaglianza, lo Sviluppo e la Pace", svoltasi a Pechino, impegnandosi a dare esecuzione al connesso "Programma di azione". Un anno dopo, viene finalmente adottata la legge n. 66 del 1996 sulla violenza sessuale (Norme contro la Violenza Sessuale), risultato di un lungo e complesso iter parlamentare, che aveva attraversato diverse legislature.
Nel 1998, il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri avvia il progetto pilota di ricerca-azione Rete antiviolenza tra le città Urban Italia, nell’ambito del Programma di Iniziativa Comunitaria Urban Italia, che nella sua prima fase coinvolge 8 città attraverso una metodologia partecipativa.
Il progetto viene lanciato dopo l’approvazione della Direttiva Prodi-Finocchiaro del 1997 (Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 7 marzo 1997), che viene riconosciuto dalle associazioni di donne come il primo documento del Governo italiano a considerare la violenza contro le donne una priorità per le proprie azioni.
La Direttiva del 1997 costituiva il primo passo di un programma di attuazione degli impegni assunti dall’Italia con l’adesione alla Dichiarazione ONU di Pechino, che intendeva trasporre integralmente nell’ordinamento italiano la complessa strategia prevista dal citato Programma di azione ONU. La Direttiva, infatti, affrontava tutte le "aree critiche" del percorso delle donne verso l’uguaglianza e lo sviluppo, individuate dal Programma, inclusa quella relativa alla violenza contro le donne (Cap. 4, lett. d).
Proprio con riferimento all’area critica "violenza contro le donne", la Direttiva accoglieva pienamente le istanze dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio che, come abbiamo visto, lavoravano spesso in sinergia con gli enti locali, in particolare con i Comuni.
Sei anni dopo Pechino, nel 2001, vengono adottate nuove misure di contrasto alla violenza domestica, grazie all’approvazione della legge n. 154/2001 (Misure Contro La Violenza Nelle Relazioni Familiari), che ha introdotto la misura precautelare dell’allontanamento d’urgenza del maltrattante dall’abitazione familiare, ancora oggi purtroppo molto poco applicata, come spesso già sottolineato dalla Commissione. La legge, nata da un disegno d’iniziativa governativa, rappresentava anche l’esito dell’azione di advocacy promossa, tra gli altri, dal gruppo delle avvocate della rete dei Centri e delle Case rifugio.
La rete nazionale di Centri e Case rifugio contribuisce anche all’elaborazione della legge n. 7/2006 (Conversione del D.L. in materia di sicurezza, misure anti-stupri e stalking), che ha previsto nuove fattispecie di reato in materia di violenza contro le donne (attribuendo rilevanza anche a talune forme di violenza, fino ad allora misconosciute, come le mutilazioni genitali femminili).La rete ha svolto un ruolo estremamente importante anche nello sviluppo di altre pratiche istituzionali a supporto delle donne.
Nel 2006 viene istituita la linea telefonica di assistenza pubblica nazionale italiana (1522), la cui gestione viene co-affidata attraverso un bando nazionale a un Centro antiviolenza della rete (LeOnde di Palermo) e a un gruppo di ricercatrici e ricercatori sociali (LeNove). L'istituzione di una linea di assistenza nazionale non solo ha permesso alle donne in situazioni di violenza di disporre di uno strumento più immediato e accessibile per chiedere supporto e sostegno, ma ha anche riconosciuto a livello nazionale i Centri e le Case rifugio come parte integrante di una più ampia rete di servizi antiviolenza. Nell’ambito di questo progetto, denominato AriaNna (Attivazione di una Rete Nazionale Antiviolenza) e pensato in continuità con la Rete antiviolenza tra le città Urban, il Dipartimento per le pari opportunità chiederà infatti agli Enti locali, nei territori nei quali insistevano i Centri antiviolenza di stipulare un Protocollo di Rete a garanzia di un’azione sinergica con il numero 1522, il sostegno allo sviluppo di reti locali, e la diffusione di procedure standardizzate da utilizzare per migliorare l’integrazione dei servizi e l’efficacia degli interventi.
Sempre nel 2006, viene condotta dall’ISTAT la prima rilevazione nazionale sulla violenza contro le donne, che riceverà una valutazione positiva anche da parte del Rapporto CEDAW (2011): i dati statistici hanno per la prima volta confermato la prevalenza della violenza domestica e intima da parte dei partner rispetto alle altre forme di violenza maschile contro le donne.
Infine, nel febbraio 2009, l'Italia ha adottato una legge specifica sullo stalking (legge n. 38 del 2009), una misura che i Centri antiviolenza stavano aspettando da molti anni e su cui lavoravano dal 2005, attraverso un dialogo costante con il legislatore. E’ proprio in seguito all’approvazione della legge sullo stalking e grazie all'azione politica dei gruppi di donne e dei Centri antiviolenza, e in particolare della rete Di.Re, che viene adottato il primo Piano nazionale contro la violenza e lo stalking nell'ottobre 2010.
1.3 I Piani nazionali antiviolenza
Il primo Piano nazionale contro la violenza e lo stalking rimane operativo fino al novembre 2013: lo stesso anno in cui viene ratificata la Convenzione di Istanbul e approvata la legge cosiddetta anti-femminicidio (il già citato D.L. n.93/2013, conv. in legge n. 119/2013), che ha richiesto la definizione di un nuovo Piano nazionale, adottato nel 2015, per il periodo 2015-2017 (Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere).
[DLR2] Si tratta in entrambi i casi di Piani di carattere "straordinario"; straordinarietà sicuramente legata all’esigenza di fornire una risposta immediata e tempestiva all’allarme sociale - lanciato proprio con la legge antifemminicidio- nei confronti del crescente fenomeno della violenza contro le donne. Tale caratteristica - come è stato espressamente evidenziato da molte Associazioni - deve essere ormai superata, optando per interventi programmatori permanenti e più strutturali.
Sempre con riguardo ai Piani, e in particolare in relazione alla individuazione degli interventi e alla loro programmazione, molte delle Associazioni impegnate nel campo del sostegno alle vittime della violenza hanno lamentato un loro scarso coinvolgimento. L'avvio da parte dell'Esecutivo, in occasione della predisposizione del Piano nazionale del 2015, di un processo di consultazione delle Associazioni delle donne è stata giudicata un primo importante passo, che ha portato al recepimento di suggerimenti e indicazioni nella redazione del nuovo Piano. Si tratta comunque come evidenzia il Rapporto della Rete D.i.R.e - di un confronto non ancora sufficiente. La redazione di strumenti giuridici operativi per il contrasto della violenza di genere deve presupporre un metodo maggiormente partecipativo - che storicamente peraltro ha contraddistinto il sistema nei primi anni del nuovo millennio - che non releghi le Associazioni allo svolgimento di mere funzioni consultive, ma porti ad progressivo ritorno a modalità di lavoro più condivise.[ 9]
Un esempio del parziale riconoscimento delle associazioni che gestiscono Centri e Case come esperte qualificate e titolate a intervenire prioritariamente nella definizione delle politiche antiviolenza, è rappresentato proprio dall’Intesa Stato-Regioni del 2014 che ha identificato i requisiti minimi per i centri antiviolenza e le Case rifugio.
Da un lato, oltre ad aver accolto i principi della Convenzione di Istanbul e l'approccio della «metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne» (art. 1, comma 2 e art. 8, comma 2), l’accordo ha riconosciuto il fatto che il percorso di protezione e sostegno debba essere personalizzato, ovvero «costruito insieme alla donna e formulato nel rispetto delle sue decisioni e dei suoi tempi» (art. 5, comma 2).
D'altra parte, l'Intesa non è però riuscita a riconoscere il ruolo svolto dai Centri nella promozione di una trasformazione del sistema culturale e sociale nel quale si origina la violenza maschile. Dunque, sebbene l'Intesa sia servita a fornire gli strumenti tecnici alle amministrazioni regionali e locali per verificare quali organizzazioni possano accedere al sistema di finanziamento nazionale, continua a mancare una valorizzazione delle attività di prevenzione e, dunque, un esplicito collegamento tra la capacità politica delle associazioni di intervenire nel contesto culturale e sociale e la qualità e l’efficacia dei servizi erogati.
Il ruolo e il coinvolgimento dei gruppi di donne e dei Centri antiviolenza si sono nuovamente intensificati durante la definizione dell'attuale Piano nazionale 2017-2020 (Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne). Quest'ultimo Piano era proprio pensato per «prevedere cambiamenti strutturali e di lungo termine, mirando a un cambiamento culturale relativo alla violenza contro le donne»[10].
Costruito attorno alle quattro P della Convenzione di Istanbul (Prevenzione, Protezione, Perseguimento dei reati e Politiche integrate), il Piano ha introdotto alcuni aspetti innovativi nello sviluppo delle politiche di contrasto alla violenza di genere in Italia attraverso una metodologia partecipativa, ovvero coinvolgendo le principali parti interessate (amministrazioni nazionali, regionali e locali, ONG interessate, associazioni che gestiscono Centri e Case rifugio, sindacati, ISTAT e IRPPS-CNR). In questo senso il terzo Piano ha cercato di focalizzare gli interventi previsti sui bisogni delle donne in situazioni di violenza, riconoscendo la violenza maschile come questione sociale e culturale fondata su gerarchie di genere, relazioni di potere e disuguaglianze, e utilizzando un linguaggio di genere.
Il Piano aveva infatti previsto anche una serie di interventi strutturali per lo sviluppo delle politiche contro la violenza di genere, disponendo strumenti per la gestione delle risorse assegnate, il sistema di monitoraggio e la raccolta dei dati e riconoscendo il ruolo fondamentale dei Centri e delle Case rifugio. Aveva sottolineato, inoltre, il ruolo svolto dai servizi generali, in particolare il ruolo di prima linea dei servizi sanitari pubblici, impostando il percorso per la definizione di Linee guida sulla violenza sessuale per il settore sanitario, non ancora concluso, e sulle quali la Commissione intende presentare una relazione ad hoc.
Come si dirà, le complesse procedure di allocazione delle risorse assegnate all’attuazione del Piano e la lacunosità dei meccanismi di rilevamento dei fabbisogni effettivi delle vittime, ha comportato una serie di criticità in fase applicativa, a partire dalla precarizzazione del funzionamento di molti Centri antiviolenza e Case rifugio, che sicuramente necessitano di flussi finanziari prevedibili, oltre che di finanziamenti adeguati per la programmazione dei propri interventi.
Una certa disorganicità e discontinuità dell’intervento si rileva anche sul terreno delle attività di comunicazione, informazione e formazione, indispensabili per promuovere quel profondo cambiamento sociale e culturale che costituisce il presupposto per aggredire le radici della violenza contro le donne.
Non si tratta di azioni ‘complementari’ o ‘collaterali’, né meramente opzionali: si tratta di una vera e propria attività di "prevenzione", che va indirizzata non solo alle donne, ma alla popolazione giovanile, alla cittadinanza e alle istituzioni pubbliche nel loro complesso.
Proprio per tale ragione, anche in questo campo, sarebbe opportuno garantire maggiore regolarità, stabilità e diffusione, attraverso una programmazione di medio periodo.
Al momento, come già sottolineato dal rapporto del Grevio, i Centri antiviolenza sono ancora i principali protagonisti ed erogatori. Secondo i dati ISTAT e IRPPS-CNR sul 2017, infatti, l'85,4 per cento dei Centri antiviolenza conduce attività di sensibilizzazione e formazione nelle scuole e il 72,2 per cento offre, a livello locale, formazione a operatori sanitari e sociali, Forze dell’Ordine e operatori legali.
In definitiva, da un lato, va riconosciuto – come sostiene il Rapporto Grevio – che l’ultimo Piano rappresenta il primo strumento politico esaustivo su scala nazionale ad adottare l'approccio richiesto dalla Convenzione di Istanbul.
Dall’altro, occorre lavorare ancora per superare quelle criticità che hanno esposto il nostro sistema a talune severe osservazioni da parte dello stesso Grevio, secondo il quale «la risposta da parte dell’Italia alla violenza nei confronti delle donne continua ad essere per lo più guidata dall’idea di dare precedenza all’inasprimento delle pene, senza prestare altrettanta attenzione alla dimensione preventiva e protettiva delle politiche»[11]. Non v’è dubbio, infatti, «che l’adozione di leggi punitive severe, se non supportata da un adeguato investimento volto all’abolizione delle barriere che impediscono alle donne di godere pienamente e in egual misura dei diritti umani, porta all'inefficace applicazione pratica di tali leggi e, di conseguenza, impedisce a molte vittime di ottenere un accesso equo alla giustizia»[12].
1.4 Il Rapporto tra servizi specializzati e servizi generali
Come già accennato, la metodologia che i Centri e le Case rifugio gestite dall’associazionismo femminile e femminista hanno messo a punto nel corso del tempo, è incentrata principalmente sul potenziamento delle capacità di autonomia delle donne che decidono di intraprendere un percorso di uscita dalla violenza. Un obiettivo che può essere raggiunto o comunque perseguito solo attraverso un percorso personalizzato, di ascolto e supporto attivo tra donne, che riesca a sostenerle nel faticoso processo di liberazione dal ciclo della violenza in cui sono state intrappolate dal maltrattante, attraverso la ricostruzione di un proprio contesto relazionale e alla riappropriazione di tutte le risorse simboliche e materiali necessarie a una piena autogestione della quotidianità oltreché alla possibilità di riprogettare le proprie scelte di vita.
Nei Centri e delle Case gestite da associazioni di donne, il perno attorno al quale ruota il lavoro delle equipe impegnate a co-costruire il progetto di fuoriuscita dalla violenza con le donne che vi si rivolgono, è la figura dell’operatrice d’accoglienza: la sua caratteristica principale è la capacità di gestire una relazione simmetrica, non giudicante, anche a partire dal riconoscimento della disparità di ruoli tra donne che accompagna inevitabilmente il percorso. Una figura centrale, troppo poco valorizzata dall’Intesa Stato-Regioni.
La metodologia della relazione fra donne è inoltre intimamente connessa alla necessità di intervenire anche a livello culturale sulla imbricazione e intersezionalità del sistema di disuguaglianze di genere economiche, sociali e politiche che genera e perpetua la violenza maschile e di genere.
Si tratta quindi di un approccio integrato alla violenza oltreché personalizzato sui bisogni delle donne che la vivono, che tuttavia entra frequentemente in conflitto con la logica organizzativa, parcellizzante e standardizzante, che sta alla base sia dell’approccio istituzionale all’erogazione di servizi assistenziali sia dell’approccio espresso dagli enti gestori non esclusivamente specializzati nella violenza contro le donne.
Tale differenza di approcci, che è stata sottolineata nelle Audizioni delle Associazioni presso la Commissione, è stata segnalata con preoccupazione anche nel Rapporto del Grevio: «i gruppi femminili indicano che molti dipendenti dei servizi di supporto generale non possiedono conoscenze adeguate sul tema della violenza e non seguono un approccio sensibile alle specificità di genere. (...) Inoltre, le ONG femminili hanno portato all'attenzione del Grevio il fatto che una formazione inadeguata può far sì che il personale dei servizi generali nutra un atteggiamento culturale che mette in discussione la credibilità delle vittime e le espone alla vittimizzazione secondaria»[13].
L’assenza di politiche di coordinamento e di una sostanziale valorizzazione delle competenze maturate dalle associazioni di donne, si riflette quindi innanzitutto sulla capacità di mettere davvero al centro di tutti i servizi, specializzati e generali, la risposta ai bisogni delle donne che si impegnano in percorsi di uscita dalla violenza nel rispetto della loro autodeterminazione.
2. Il sistema di finanziamento dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio
2.1 I modelli regionali di impiego delle risorse destinate a Centri antiviolenza e Case rifugio
Una delle principali raccomandazioni contenute nel rapporto del Grevio e rivolte al Governo italiano riguarda la semplificazione e l’accelerazione dell'erogazione dei finanziamenti a Centri antiviolenza e Case rifugio.
È in questa direzione che il 31 maggio 2019 la Commissione ha inteso indirizzare alcuni quesiti ai Presidenti delle Regioni e delle Province autonome.
In questa sede presentiamo una prima sintesi analitica delle risposte pervenute da Regioni e Province tra il 26 giugno e il 26 novembre 2019, al fine di ricostruire il percorso/la filiera dei finanziamenti nazionali sul quale si era concentrata anche l’istruttoria della Corte dei conti nel 2016[14]: ci occuperemo quindi in dettaglio delle modalità di erogazione delle risorse finanziarie destinate al Piano straordinario (2015-2017) e al Piano strategico (2017-2020), in base al D.L. n.93/2013, conv. in legge n. 119/2013, il cui riparto viene predisposto tramite DPCM e, a partire dal 2017, annualmente.
Le risorse statali assegnate agli interventi previsti dall'art. 5 – che finanzia le linee di azione individuate per l’attuazione dei Piani nazionali – e dall’art. 5 bis – che prevede un finanziamento permanente da ripartire tra le Regioni per il potenziamento dell’assistenza e del sostegno alle donne vittime di violenza e ai/alle loro figli/e – sono erogate dalle Regioni attraverso differenti procedure amministrative, ovvero in base al proprio modello di governance.
L’analisi delle risposte delle Regioni al quesito (b)[15], ci consente di individuare almeno tre modelli differenti di erogazionedelle risorsefinanziarie trasferite alle Regioni (sulla base del piano di riparto previsto dall’Intesa Stato-Regioni):
1. Regioni che, a loro volta, li trasferiscono ad altre amministrazioni pubbliche/enti locali, al fine del successivo finanziamento dei Centri e delle Case rifugio;
2. Regioni che assegnano le risorse direttamente ai Centri e alle Case rifugio attraverso specifici atti di concessione;
3. Regioni che assegnano le risorse a valere sull'art. 5 ad Enti locali e/o Ambiti territoriali, mentre provvedono direttamente alla selezione degli enti gestori dei Centri e delle Case rifugio (art. 5 bis).
1. Le Regioni che, sia pur seguendo procedure differenziate, procedono al trasferimento dei fondi primariamente ad altre amministrazioni pubbliche/enti locali sono:
ü Lombardia: le risorse vengono assegnate agli enti locali (Comuni o Comunità montane) capifila delle 27 Reti Interistituzionali Antiviolenza, con le quali sono stati stipulati specifici accordi di collaborazione per la realizzazione di piani di attività locali, che li trasferiscono a loro volta ai 50 Centri e alle 74 Case e strutture di ospitalità con loro attualmente convenzionate; tra i criteri di riparto regionali, pur essendo cambiati nel corso degli anni e da Programma a Programma, oltre a una quota fissa da ripartire in modo uguale tra le Reti, figurano principalmente la popolazione complessiva residente nel territorio di competenza di ciascuna Rete e il numero di Centri convenzionati mentre, per quanto riguarda il Programma che ha utilizzato le risorse nazionali relative al DPCM 2017, figura anche il numero di donne prese in carico dai Centri antiviolenza «così come risultanti dal sistema informativo ORA[16]»;
ü Liguria: per i Centri antiviolenza e le Case rifugio già operativi effettua un riparto - mediante DGR - rivolto ai Comuni capifila delle Conferenze dei Sindaci, mentre ha utilizzato Avvisi pubblici rivolti al privato sociale solo per quanto riguarda l’istituzione di nuovi Centri e Case, a valere sulla quota riservata del 33 per cento prevista dall’art. 5 bis (recentemente abrogata);
ü Emilia Romagna: ha erogato i fondi direttamente ai Comuni che finanziano (o gestiscono) Centri e/o Case, direttamente o attraverso convenzioni; i fondi vengono ripartiti e assegnati con apposite delibere e il monitoraggio finale viene effettuato con controlli a campione; anche per quanto riguarda il finanziamento dei progetti rivolti all’autonomia abitativa previsti dal DPCM 2016, è stato predisposto un bando regionale, anch’esso destinato ai Comuni;
ü Marche: dal 2016, assegna le risorse agli Ambiti Territoriali Sociali capifila dei cinque territori provinciali in cui hanno sede i cinque Centri antiviolenza e le otto strutture residenziali attualmente esistenti, attraverso DGR di programmazione triennale;
ü Umbria: trasferisce i fondi attraverso bandi rivolti ai Comuni sedi di Centri antiviolenza e Case rifugio (Perugia e Orvieto) e in seguito alla rendicontazione delle attività precedentemente svolte; solo nel caso di Terni, su richiesta del Comune stesso, si è invece provveduto al trasferimento diretto all’associazione che gestisce il Centro antiviolenza e la casa rifugio nel proprio territorio; dalla relazione si evince inoltre che, dal 1 gennaio 2019, il sistema regionale è stato articolato in Reti Interistituzionali, lasciando presupporre che il sistema di finanziamento possa essere in una fase di transizione verso il modello lombardo;
ü Lazio: assegna i fondi tramite avvisi pubblici rivolti ai Comuni che devono essere in partenariato (obbligatorio) con organizzazioni del privato sociale in possesso dei requisiti previsti dall’Intesa Stato-Regioni;
ü Molise: ha attivato «servizi per il contrasto alla violenza di genere» nel 2016 attraverso il loro affidamento agli Ambiti territoriali sociali con capofila l’Ats di Campobasso, orientando la programmazione regionale ad «una gestione pubblica dei servizi» (i servizi sono attualmente articolati in un Centro antiviolenza, una casa rifugio e una rete di sportelli diffusi a livello regionale);
ü Campania: attribuisce le risorse agli Ambiti territoriali - attraverso specifici Avvisi competitivi (il riparto tiene conto della numerosità della popolazione femminile) - «affinché possano attivare e/o garantire i servizi relativi al sostegno delle donne vittime di violenza ed il potenziamento dei punti ascolto per la protezione di primo livello», senza fornire indicazioni su procedure e modalità di finanziamento dei Centri e delle Case esistenti o di nuova istituzione[17];
ü Basilicata: eroga le risorse attraverso i Comuni di Potenza e Latronico per Centri antiviolenza e Case rifugio e il Comune di Montalbano Jonico per attività di «sportello informativo», «previa richiesta e relativa istruttoria».
2. Le Regioni che provvedono direttamente alla selezione e al finanziamento dei soggetti gestori di Centri e alle Case rifugio, sono:
ü Piemonte: assegna le risorse attraverso bandi per il finanziamento di progetti a sostegno delle donne vittime di violenza rivolti esclusivamente alle strutture già iscritte all’Albo regionale dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio; alla presentazione dei progetti segue una fase di co-progettazione e un monitoraggio in itinere; all’Albo possono iscriversi Comuni e/o soggetti gestori delle funzioni socio-assistenziali nonché associazioni del privato sociale operanti nel settore e in possesso dei requisiti individuati dai regolamenti regionali;
ü Puglia: regola l’accesso sia alle risorse assegnate in base agli artt. 5 e 5 bis (dal 2016), sia a quelle integrative messe a disposizione su propri fondi (dal 2019), tramite Avvisi pubblici annuali non competitivi rivolto ai Centri antiviolenza e alle Case regolarmente autorizzate e iscritte negli appositi registri regionali in quanto rispondenti ai requisiti dell’Intesa Stato-Regioni; fino al 2018 l’assegnazione dei finanziamenti regionali prevedeva il trasferimento delle risorse agli Ambiti territoriali sociali con i quali Centri antiviolenza e Case rifugio sono convenzionati, ma la Regione ha osservato come questo tipo di attuazione fosse «causa di rallentamenti dell’iter procedurale», e che, in particolare, «le operazioni contabili (tempi degli impegni e delle liquidazioni, vincoli di finanza pubblica) dilatano i tempi amministrativi», ripercuotendosi «negativamente», nel medio e lungo periodo, sulla qualità dei servizi erogati;
ü Calabria: ha erogato le risorse direttamente ai Centri antiviolenza e alle Case rifugio «storicizzati nei rapporti con la Regione» e iscritti all’Albo regionale previsto dalla LR 23/2003, sulla base dei quali è stato effettuato il riparto nazionale, previa presentazione e approvazione di un programma di interventi biennale.
La Regione Sicilia, non ha fornito informazioni sui soggetti beneficiari degli avvisi pubblici emanati per l’assegnazione delle risorse, ma da una verifica a campione sui DDG elencati, risulta effettuare il riparto delle risorse di cui all’art. 5 bis rivolgendoli direttamente ai Centri e alle Case iscritte all’Albo regionale e/o genericamente ad associazioni e cooperative del privato sociale.
3. Infine, le Regioni che utilizzano o hanno utilizzato un sistema misto di assegnazione delle risorse nazionali sono:
ü Veneto: assegna le risorse a valere sulle linee di intervento previste dall'art. 5 ai Comuni e alle Aziende ULSS (singoli, associati tra loro o in convenzione con enti del privato sociale) secondo un meccanismo di acconto (70%) e saldo (30%), tramite Bandi annuali, considerando l’esistenza di partenariati tra soggetti pubblici e del privato sociale come «uno dei criteri cardine per l’erogazione dei contributi»; le risorse a valere sull’articolo 5 bis finalizzate alla gestione e all’implementazione dei Centri, delle Case rifugio e delle Case di secondo livello iscritte negli elenchi approvati dalla Giunta regionale vengano invece erogate direttamente a Centri e Case già individuati dal DPCM 2017;
ü Toscana: si rivolge agli Ats per le linee di intervento a valere sull’art. 5 e con avvisi rivolti direttamente ai Centri e alle Case operanti da almeno sei mesi nell’anno precedente a quello di riferimento del DPCM per la quota di risorse pari al 90 per cento del 67 per cento a valere sull’art. 5 bis, che vengono ripartite per il 30 percento in parti uguali e per la restante quota (70 per cento) in base al numero degli accessi per i Centri e in base ai posti letto per le Case rifugio; per le risorse dell’art. 5 bis pari al 33 per cento, destinato all’apertura di nuove strutture specializzate, si era invece proceduto con ulteriore avviso rivolto alle Società della Salute, alle Conferenze dei Sindaci degli Ambiti territoriali zonali e alle Province; la Regione dichiara di effettuare uno stretto monitoraggio periodico sui requisiti degli enti gestori per garantire «dal rischio di sovrapposizione di finanziamenti a strutture ed interventi che non si qualifichino come specialisti ma che fanno parte di un sistema di sostegno sociale più ampio»; si sottolinea, in particolare, le perplessità a riguardo delle Case di seconda accoglienza, che «non sono strutture specializzate per l’accoglienza di donne vittime di violenza e i loro figli ma accolgono più tipi di disagio» tanto che «si è preferito non finanziare l’implementazione di questo tipo di strutture con le risorse di cui al DPCM 2018», mentre si sta lavorando alla definizione di una più precisa classificazione delle strutture con l’istituzione di un Nomenclatore regionale della violenza di genere.
La Relazione presentata dalla Regione autonoma del Friuli Venezia Giulia,pur non rispondendo puntualmente al quesito posto dalla Commissione, sembra avvalersi anch’essa di un sistema misto, assegnando contributi nazionali e regionali per il sostegno all’operatività dei 7 Centri esistenti (cinque dei quali sono stati istituiti prima del 2000) e delle relative Case rifugio (12, operative nel 2018) direttamente alle associazioni che li gestiscono e contributi per l’avvio e/o il consolidamento di sportelli informativi o progetti di sensibilizzazione agli Enti territoriali che ne fanno richiesta.
La Regione autonoma Valle d’Aosta, è invece l’unica che, attraverso l’Assessorato regionale Sanità, salute e politiche sociali, gestisce direttamente gli interventi di prevenzione e contrasto alla violenza di genere e di sostegno alle donne vittime di violenza; il finanziamento e il funzionamento dell’unico Centro antiviolenza attivo sono regolamentati dalla legge regionale n. 4/2013 e la Regione copre anche le spese ordinarie della sede; la gestione dell’unica casa rifugio viene invece affidata tramite gara d’appalto, ma la relazione non specifica a quale tipologia di beneficiari.
Sebbene le Province autonome di Trento e Bolzano non attingano alla ripartizione dei fondi nazionali relativi ai Piani antiviolenza, riportiamo qui alcuni elementi contenuti nelle risposte fornite alla Commissione[18].
Per quanto riguarda la Provincia autonoma di Bolzano, i servizi Casa delle donne (che attualmente consistono in 4 centri antiviolenza e 5 strutture protette), istituiti con la legge provinciale n. 10 del 6 novembre 1989, possono essere gestiti direttamente dai servizi sociali pubblici oppure la loro gestione può essere delegata ad enti privati senza scopo di lucro, attraverso bandi o gare indetti dai servizi sociali pubblici (Comunità comprensoriali o Azienda Servizi sociali di Bolzano). Attualmente, i servizi Casa delle donne sono gestiti da tre associazioni non profit e da due servizi sociali pubblici che ricevono un finanziamento integrale attraverso il Fondo sociale provinciale. La Ripartizione politiche sociali della Provincia verifica la sussistenza dei criteri di autorizzazione e accreditamento dei servizi ogni 5 anni, oltre a verificare annualmente la rendicontazione delle spese effettuate dagli enti gestori.
La Provincia autonoma di Trento regola l'erogazione dei servizi per la tutela delle donne vittime di violenza di genere in base all'articolo 22 della Legge provinciale sulle politiche sociali (n. 14 del 27 luglio 2007), stabilendo che gli enti locali (Comuni e Comuni associati in Comunità) e la Provincia debbano assicurare l'erogazione dei servizi socio-assistenziali mediante erogazione diretta, oppure tramite affidamento diretto ai soggetti accreditati che ne facciano richiesta, oppure affidandoli a soggetti accreditati individuati tramite procedura comparativa, escludendo esplicitamente il metodo del massimo ribasso.
Non è invece pervenuta alcuna risposta alla Commissione da parte della Regione Abruzzo e della Regione Sardegna.
2.1 La capacità di spesa delle risorse nazionali da parte delle Regioni
Per quanto riguarda le entità del riparto e le capacità di spesa e impegno delle risorse nazionali da parte delle Regioni, i documenti più rilevanti che risultano ad oggi pubblicamente disponibili consistono in:
1) la Relazione alle Camere sull’utilizzo delle risorse art. 5 bis relative alle annualità 2013 e 2014[19];
2) le schede di monitoraggio semestrale sulle risorse ex art. 5 bis per le annualità 2015 e 2016, recentemente pubblicate sul sito istituzionale del DPO;
3) la Relazione alle Camere sulle ripartizioni dei fondi ex art. 5 bis relative alle annualità 2017 e 2018 (basata sulle schede di monitoraggio redatte dalle Regioni e ricevute dal DPO tra aprile e maggio 2019), disponibile sul sito istituzionale del Senato[20].
Ad integrazione di questi documenti, la Commissione propone in questa sede una sintesi delle risposte al quesito (a)[21] sottoposto alle Regioni, relativamente all’entità delle risorse effettivamente utilizzate nel triennio 2016-2018.
Nello specifico, per quanto riguarda i fondi per l’attuazione dell’art. 5 bis (Azioni per i centri antiviolenza e le Case-rifugio) ricevuti con i riparti nazionali (DPCM del 25 novembre 2016, DPCM del 1 dicembre 2017, DPCM del 9 novembre 2018):
ü il Piemonte riporta, senza ulteriori specificazioni, di aver destinato ed utilizzato nel triennio 2016-2018 le risorse statali assegnate con il DPCM 2016 per un totale di 1.147.060 euro, con il DPCM 2017 per un totale di 757.722 euro e con il DPCM 2018 per un totale di 1.231.791,13 euro (cui sono state aggiunti 214.285,71 euro di risorse regionali per la creazione di nuove Case rifugio nel 2017 e 105.206 euro nel 2018);
ü la Liguria, dichiara di aver utilizzato un ammontare di risorse nazionali di 1.268.298 euro nel triennio 2016-2018 (di cui 929.964 euro nel 2017 e 338.334 euro nel 2018, ai quali nel triennio è stato aggiunto un totale di 499.915,80 euro di fondi regionali e di 900.000 euro di fondi europei) e, nel dettaglio, di aver utilizzato per sostenere Centri antiviolenza e Case rifugio ad indirizzo segreto già esistenti 321.035,40 euro derivanti dal DPCM 2016, 185.894 euro dal DPCM 2017 e 322.486,86 dal DPCM 2018 (ai quali, dal 2015 a oggi sono stati aggiunti 250.000 euro di fondi regionali); di aver promosso la creazione di nuovi Centri e Case mettendo a disposizione la somma di 180.000 euro tramite DGR nel 2017 dei quali, avendo ricevuto un’unica richiesta, sono stati assegnati 74.469,28 euro per la creazione di una nuova casa rifugio nel genovese; di aver messo a disposizione tramite DGR nel 2018 la somma di 232.901,72 euro (comprensiva dei fondi non assegnati nel 2017 e della quota DPCM 2017) dei quali ne sono stati assegnati 60.892,45 per la creazione di una nuova casa rifugio nell’imperiese all’unica organizzazione che ne aveva fatto richiesta; di aver emesso un ulteriore avviso pubblico per l’istituzione di nuovi Centri e Case tramite DGR nel 2019, ancora aperto al momento della risposta alla Commissione;
ü la Lombardia, indica di avere già utilizzato nel triennio 2016-2018 un totale di 7.156.435,42 euro per l’attivazione, il sostegno e il consolidamento delle Reti territoriali antiviolenza (di cui 2.548.359,08 euro di fondi regionali e 4.608.076,43 euro di risorse nazionali a valere sull’articolo 5bis); più nel dettaglio, mentre non si riscontra uno specifico riferimento alle risorse del DPCM 2016[22], le risorse nazionali del DPCM 2017 (pari a 2.024.196 euro) sono state ripartite con DGR alla fine del 2018, destinando il 67% (pari a 1.430.490 euro) a finanziare il proseguimento delle Reti già consolidate e il 33% a consolidare le attività delle nuove Reti e dei nuovi Centri (già sostenute con il Programma «Nuove reti e nuovi centri 2016») e le risorse del DPCM 2018 (pari a 3.131.788,97 euro) sono state ripartite con DGR nell’aprile 2019 alle Reti, per un 30% sulla base della popolazione residente, per un altro 30% sulla base del numero di Centri convenzionati e il restante 40% in modo uguale tra le 27 Reti;
ü il Veneto, dichiara di aver effettivamente utilizzato sia tutte le risorse a valere sull’art. 5 bis ricevute con il DPCM del novembre 2016 (per un totale di 1.286.715 euro), che sono state concesse ai Comuni e alle ULSS per l’implementazione e la gestione di Centri antiviolenza, Case rifugio e Case di secondo livello, sia le risorse ricevute con il DPCM 2017 (per un totale di 972.428 euro), e di essere destinataria di un riparto totale di 1.584.261,43 euro in base al DPCM 2018;
ü l’Emilia-Romagna, nel 2017, ha interamente assegnato e concesso agli enti locali sedi di Centri e Case la somma complessiva di 1.982.758 di cui è stata destinataria con il DPCM del novembre 2016 (di cui 1.559.228 euro assegnati e concessi per gli interventi regionali già operativi, 423.530 euro per l’istituzione di nuovi Centri e Case e 115.572 euro per il funzionamento di due centri e l’istituzione di un nuovo centro per uomini maltrattanti), nel 2018-2019 la somma complessiva di 1.055.762 euro che le è stata destinata dal riparto del dicembre 2017 (di cui 682.829 per il funzionamento di Centri e Case esistenti, 297.063 per nuovi Centri e Case e 75.869,80 euro per il trattamento degli autori di violenza), mentre i fondi che le sono stati ripartiti con il DPCM del novembre del 2018 (1.778.010,77 euro) verranno assegnati per un 33% all’istituzione di nuovi Centri e Case, per il 90% del restante 67% al funzionamenti di Centri e Case esistenti e per il 10% all’implementazione dell’Osservatorio regionale oltreché per il sostegno ai programmi per maltrattanti;
ü la Regione Marche, nel triennio 2016-2018, ha destinato alle attività connesse al contrasto alla violenza di genere un totale complessivo di 1.432.626,19 euro, di cui 320.000 euro di fondi regionali, 791.575 euro di fondi statali relativi al 2016 e 321.051,19 euro relativi al DPCM 2017; più nel dettaglio, i fondi relativi al 2016, sono stati impegnati con DGR nel 2017 e assegnati agli ATS prevedendo un acconto del 60% nello stesso anno e la liquidazione del saldo nel 2018 per i fondi a sostegno di Centri e Case provinciali, la liquidazione del 100% nel 2017 dei fondi per la casa rifugio di emergenza regionale, la liquidazione dell’acconto del 30% nel 2017 e del saldo del 70% nel 2018 per i fondi destinati all’istituzione di due nuove Case di semi-autonomia; per quanto riguarda le risorse ricevute con il DPCM 2017, è stato predisposto tramite DGR nel 2018 un meccanismo di acconto del 50% nello stesso anno e di liquidazione del saldo nel 2019 per i fondi destinati a Centri, Case provinciali e casa rifugio di emergenza regionale, mentre i fondi per nuove Case rifugio (due Case di semi-autonomia e una casa rifugio a indirizzo segreto) sono stati impegnati interamente per il 2019; sulla base di questo stesso meccanismo sono state programmate anche le risorse relative al DPCM 2018;
ü la Toscana, ha impegnato tutte le risorse stanziate con il DPCM 2016 (per un totale di 1.332.799 euro) e con il DPCM 2017 (per un totale di 894.305 euro) e il 90% delle risorse regionali relative alle annualità 2017, 2019, 2020 (per uno stanziamento totale di 1 milione di euro), mentre ha programmato l’utilizzo delle risorse del DPCM 2018 (per un totale di 1.459.531,82 euro) entro il 2020; per quanto riguarda le risorse relative al DPCM 2017, la Regione segnala di averle ricevute con notevole ritardo e in due tranche (il 9 ottobre e il 13 novembre 2018);
ü l’Umbria, ha interamente utilizzato sia le risorse statali assegnate con il DPCM del 2016, di cui 150.732 euro per il funzionamento dei Centri residenziali esistenti e delle Case rifugio a indirizzo segreto da questi gestite e 98.106 euro per progetti finalizzati all’apertura di nuovi Centri non residenziali e di uno sportello in una struttura ospedaliera (alle quali sono state aggiunte risorse regionali per 200.000 euro), sia le risorse nazionali assegnate con il DPCM 2017, di cui 297.177 euro (67%) per Centri e Case esistenti e 68.811 (33%) per i servizi di accoglienza in emergenza e il consolidamento dei nuovi Centri (alle quali sono state aggiunte risorse regionali per 200.000 euro), mentre non fa alcun cenno alle risorse stanziate con il DPCM del 2018;
ü la Regione Lazio, indica di aver programmato nel dicembre 2017 tramite DGR l’importo complessivo di 1.210.713 euro assegnato con il DPCM 2016 a valere sull’art. 5 bis (di cui, 514.457 euro per nuovi Centri e Case, 283.998 euro per il sostegno ai Centri esistenti, 294.369 euro per il sostegno alle Case rifugio esistenti e 117.889 per gli interventi regionali già operativi), di aver poi trasferito ai Comuni le risorse (non quantificate) per l’istituzione di nove Centri, di aver programmato con DGR nel luglio 2019 le risorse assegnate con il DPCM 2017 e di aver sostenuto con risorse regionali negli anni 2017 (579.775,30 euro), 2018 (683.016,70 euro) e 2019, tre Centri già istituiti dalla Città metropolitana di Roma Capitale dei quali ha preso in carico la gestione affidandola a tre associazioni;
ü la Campania, riporta di aver programmato nel 2019 tramite DGR le risorse nazionali ricevute con il DPCM 2016 e il DPCM 2018, ovvero 458.944,71 euro per l’istituzione di nuovi Centri, 585.231,34 euro per i Centri già esistenti, 1.081.272,34 euro per le Case esistenti, 200.000 euro per l’istituzione di una nuova casa rifugio e 130.051,40 euro per il potenziamento dei punti di ascolto già operativi, precisando di aver ripartito e impegnato a favore di tutti gli Ambiti territoriali le risorse del Fondo istituito con la LR 34/2017 (Interventi per favorire l’autonomia personale, sociale ed economica delle donne vittime di violenza di genere e dei loro figli ed azioni di recupero rivolte agli uomini autori della violenza) per complessivi 960.000 euro, e, in relazione alle risorse utilizzate nel triennio 2016-2018, di aver trasferito agli Ambiti territoriali, con Decreto dirigenziale del dicembre 2017, la somma di 606.273,25 euro a valere sul DPCM 2016 per il potenziamento dei Centri esistenti e gli interventi regionali già operativi;
ü la Puglia, per quanto riguarda le aree Prevenzione/Protezione e sostegno, nel triennio 2016-2018 ha effettivamente utilizzato un totale di 6.097.483 euro, di cui: 2.700.000 euro attinti dal bilancio autonomo (LR 29/2014), che sono stati destinati ai Programmi antiviolenza attuati dai Centri antiviolenza, 1.216.441 euro a valere sui fondi ripartiti con il DPCM 2016 (art. 5 bis) per il sostegno diretto ai Centri e alle Case, il potenziamento degli sportelli antiviolenza, l’apertura di Case per la protezione di secondo livello e la comunicazione (campagne ed eventi) e 838.642 euro a valere sui fondi DPCM 2017 (art. 5 bis) per i medesimi interventi;
ü la Calabria, per quanto concerne le risorse ripartite con il DPCM del 2016, sottolineando di averle accertate in entrata a giugno ma di averle incassate solo a fine settembre 2017, ha ricevuto 563.403,50 euro a valere sull’art. 5 bis, dei quali, a inizio 2018, ha liquidato a titolo di anticipo 209.841,30 euro sui complessivi 317.541 euro da assegnare a Centri e Case esistenti, mentre ha emanato a fine 2018 l’avviso pubblico per l’istituzione di nuovi Centri e Case finanziandolo sia con le risorse relative al DPCM del 2016 (245.863 euro) sia con le risorse relative al DPCM del 2017 (per un totale di 418.309,50 euro), di cui ha impegnato la spesa per complessivi 200.000 euro, non riuscendo ad aggiudicare i restanti 218.309,50 euro; per quanto riguarda le risorse ripartite con il DPCM 2017 relative a Centri e Case esistenti, ha impegnato e assegnato 168.836 euro con DDS a gennaio 2019, da erogare previa presentazione di un programma di interventi (tra le aree previste, anche Prevenzione, recupero e accompagnamento del maltrattante); infine, per quanto riguarda la dotazione finanziaria assegnata con il DPCM del novembre 2018 destinati a Centri e Case esistenti (397.036 euro) e di nuova istituzione (271.259 euro) per un totale di 668.000 euro, la Regione ne ha programmato l’assegnazione con DGR del 6 giugno 2019;
ü la Regione Sicilia, dopo aver indicato le somme assegnate dal DPCM 2016 (1.571.439 euro sull’art. 5 bis e 1.194.700 euro sull’art. 5), dal DPCM 2017 (1.399.467,63 euro sull’art. 5 bis) e dal DPCM 2018 (1.664.659,01 euro sull’art. 5 bis), elenca gli avvisi pubblicati tramite DDG nel 2017 e nel 2018, tra i quali, sebbene non vengano specificate le annualità alle quali si riferiscono le risorse nazionali cui si è attinto, si segnalano: l’avviso del 18 ottobre 2017 per la concessione di contributi per l’adeguamento dei Centri e l’apertura di nuovi sportelli ad essi collegati (240.032 euro di risorse nazionali assegnate, di cui risultano impegnati con ulteriore DDG 24.000 euro al dicembre 2017) e l’ulteriore avviso alla stessa data per l’adeguamento delle strutture ad indirizzo segreto e di emergenza (309.719 euro di fondi nazionali e 30.000 euro di fondi regionali assegnati, di cui risultano impegnati 20.000 euro di fondi regionali impegnati al dicembre 2017), l’avviso del 12 luglio 2018 per l’apertura di sportelli d’ascolto (334.792,09 euro di risorse nazionali assegnate, somma interamente impegnata nel marzo 2018), l’avviso del 12 luglio 2018 per la realizzazione di nuove Case di accoglienza e di emergenza (316.825 euro di risorse nazionali, somma interamente impegnata nell’aprile 2019), l’avviso del’11 aprile 2018 per il sostegno alla gestione dei Centri (929.519 di fondi nazionali, di cui risultano impegnati con vari decreti nel 2018 424.961,03 euro).
Infine, sull’utilizzo dei fondi nazionali nel triennio 2016-2018, hanno fornito informazioni molto scarne tre Regioni: la Regione autonoma Valle d’Aosta (che, per il triennio 2016-2018, indica di «aver previsto nel bilancio regionale» 5.000 euro annuali per le attività del Centro antiviolenza e 693.502,20 euro per il finanziamento della casa rifugio); la Regione autonoma Friuli Venezia-Giulia (che riporta di aver ricevuto nel biennio 2018-2019 risorse relative all’art. 5 bis pari a 828.567,88 euro); la Basilicata (che riporta un totale di 259.464,31 euro di risorse nazionali assegnate nel triennio 2016-2018).
Sebbene, come già sottolineato, le Province autonome di Trento e Bolzano non attingano alla ripartizione dei fondi nazionali relativi ai Piani antiviolenza, riportiamo per completezza gli elementi forniti in risposta alla Commissione anche in merito a questo quesito.
Nel dettaglio, la Provincia autonoma di Bolzano riporta di aver effettivamente destinato ai servizi Casa delle donne 1.850.000 euro nel 2016, 1.850.000 euro nel 2017 e 1.900.000 euro nel 2018, mentre la Provincia autonoma di Trento riporta di aver destinato alle attività connesse al contrasto alla violenza di genere un totale di 666.969,17 euro nel 2016, 714.978,10 euro nel 2017 e 744.340,53 euro nel 2018.
Per ottenere una visione più generale, l’eterogeneità e, in alcuni casi, la lacunosità delle risposte pervenute alla Commissione da parte delle Regioni in merito ai quesiti sottoposti, può essere analizzata e colmata attraverso il risultato delle audizioni e della documentazione fornita dalle Associazioni, in qualità di enti gestori di Centri antiviolenza, dal Rapporto del Grevio e dall’indagine presentata da ActionAid Italia per il 2018[23].
Innanzitutto, come è stato sottolineato dal Rapporto del Grevio, e come rilevabile anche dall’indagine di ActionAid Italia, «una delle conseguenze di questo sistema a più livelli di finanziamento è il ritardo con cui i fondi raggiungono i destinatari finali, in particolare le ONG che gestiscono i centri antiviolenza e/o le Case rifugio. (...) Tali ritardi hanno un impatto negativo sulla capacità di raggiungere gli obiettivi dei PAN e rappresentano un ostacolo alla continuità e alla qualità dei servizi e dei programmi di sostegno e protezione dalla violenza delle donne e dei loro bambini. Un'altra conseguenza di questo modo di distribuire i fondi nazionali è la mancanza di trasparenza e uniformità nella gestione delle risorse a livello regionale e locale»[24].
In assenza di un sistema strutturato di monitoraggio e di valutazione a livello nazionale, i Centri aderenti alla rete D.i.Re hanno, infatti, più volte nel corso degli anni presentato relazioni di monitoraggio sul riparto dei finanziamenti statali disposti attraverso i DPCM, a partire dalla proprio «osservatorio di prossimità» di raccolta dati. I rilievi che i Centri D.i.Re hanno pubblicamente presentato in merito al riparto dei fondi assegnati alle Regioni dai DPCM, sono riassumibili in questi due principali aspetti:
- il riparto nazionale avviene prevalentemente senza un preliminare confronto tra gli Uffici regionali e le associazioni che lavorano quotidianamente sul campo con le donne sulle priorità e le azioni da porre in essere: senza una programmazione condivisa degli obiettivi si va ad inficiare la possibilità stessa di un utilizzo delle risorse in base alle reali necessità territoriali;
- nella maggioranza dei territori, si verificano gravi ritardi non solo nella spesa ma anche nell’impegno stesso delle risorse, fenomeno che spesso si verifica in conseguenza del tardivo trasferimento dei fondi dall’amministrazione centrale alle Regioni, come viene rilevato anche in molte delle risposte che le Regioni hanno fornito alla Commissione.
Per quanto riguarda il Decreto di riparto relativo all'annualità 2017, sebbene la programmazione dei fondi sia diventata da biennale ad annuale proprio a partire dal 2017, i fondi sono stati trasferiti alle Regioni solo tra ottobre e dicembre 2018. Infine, per quanto riguarda i 20 milioni di euro stanziati dal Governo nel 2018 per l'apertura e il potenziamento di Centri antiviolenza e Case rifugio, il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri risale al 9 novembre 2018, anche se l'intesa in Conferenza Stato-Regioni era stata raggiunta il 10 maggio, e il relativo trasferimento alle Regioni è poi stato effettuato solo alla fine del 2019.
La grave intempestività dei decreti di riparto è stata del resto riconosciuta anche dalla Ministra per le Pari opportunità e la famiglia, professoressa Elena Bonetti, che durante l’audizione del 10 dicembre scorso si era impegnata a garantire lo stanziamento delle risorse relative all’annualità 2020 da parte del DPO entro il primo trimestre dell’anno corrente.
Concretamente, si è proceduto in primo luogo a modificare il decreto di riparto riferito all’annualità 2019 con il DPCM del 2 aprile 2020, che ha accelerato la procedura amministrativa di trasferimento delle risorse alle Regioni. Contestualmente, si è proceduto a elaborare nel corso dei mesi di marzo, aprile e maggio la nuova bozza di DPCM di riparto riferito all’annualità 2020.
E’ dunque inevitabile che, a cascata, come hanno sottolineato le Associazioni audite dalla Commissione, l’insieme di questi gravi ritardi finisca per ricadere negativamente innanzitutto sull’organizzazione e la sostenibilità del lavoro dei Centri antiviolenza e nelle Case rifugio, rendendo qualunque tipo di programmazione a medio e lungo termine pressoché impossibile: gli enti gestori si ritrovano infatti ad anticipare le spese per almeno uno o due anni, comprese le risorse necessarie alla retribuzione del personale impiegato, tanto che sono molte le associazioni costrette ad esporsi a livello creditizio.
2.3 I requisiti previsti dall’intesa stato-regioni e i criteri delle Procedure di affidamento
Alle criticità appena rilevate riguardo al riparto dei fondi nazionali, si aggiungono quelle relative alle ambiguità di fondo che caratterizzano l’Intesa Stato-Regioni rispetto alla definizione dei requisiti minimi richiesti a Centri antiviolenza e alle Case rifugio.
Va infatti rilevato che, fino all’abrogazione della quota riservata del 33 per cento, prevista dall’art. 5 bis per la creazione di nuovi Centri e Case rifugio, disposta con dal cosiddetto Codice rosso e assunta dall’ultimo DPCM di riparto firmato il 4 dicembre scorso, la maggior parte degli uffici regionali ha puntato a suddividere le risorse su target ampi di beneficiari del Terzo settore, non esclusivamente specializzati, e spesso con poca esperienza nel contrasto alla violenza contro le donne, privilegiando servizi misti pubblico-privato in un’ottica di dipendenza dell’ente non profit dal partner pubblico[25].
Inoltre, come sottolineato dalle Associazioni audite dalla Commissione, alcune Regioni, facendo leva sulle maglie larghe dei requisiti previsti, «hanno così accreditato addirittura enti che nemmeno ne sono provvisti, dimenticando in tal modo tutte le prescrizioni della Convenzione di Istanbul e dell'Intesa Stato-Regioni».
Questa valutazione, del resto, trova un preciso riscontro anche nella ricostruzione dei passaggi che hanno condotto all’approvazione dell’Intesa, contenuta sia nella Posizione che le Regioni hanno rappresentato alla Commissione, sia nell’audizione del Coordinatore della Commissione Politiche sociali nell'ambito della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome che si è tenuta il 2 settembre 2019: «le Regioni hanno da subito evidenziato i limiti di tale Intesa, in troppe parti tanto generica da rendere difficoltosa l’effettuazione di verifiche sul possesso dei requisiti e da non mettere sufficienti barriere all’entrata rispetto alla creazione di strutture e servizi dotati di scarsa esperienza».
Nel merito di questa criticità, è intervenuto anche il Rapporto del Grevio, disapprovando il fatto che «in alcune regioni, l’idoneità al finanziamento statale è stata accertata tramite auto-dichiarazione da parte dell’organizzazione interessata, senza effettivi controlli». Di conseguenza, continua il Grevio, «a seconda delle regioni, i centri antiviolenza che non riescono ad accedere al finanziamento statale nell’ambito delle procedure di gara regionali, possono essere escluse dalle cifre ufficiali. Pertanto, le cifre ufficiali tendono, da una parte, a includere le entità che non operano nel rispetto degli standard dell’accordo Stato-Regioni del 2014 ma che ricevono finanziamenti statali, e dall’altra, ad escludere entità rispettose di questi standard, ma che non beneficiano dei finanziamenti statali»[26].
La Commissione ha a sua volta trovato riscontri della disparità tra i dati finora segnalati al DPO dalle Regioni e la reale consistenza numerica e qualitativa dei servizi antiviolenza offerti nei territori, anche nelle audizioni della dottoressa Linda Laura Sabbadini, in rappresentanza di ISTAT e della dottoressa Maura Misiti e del dottor Pietro Demurtas, in rappresentanza di IRPPS-CNR.
Risultano significativi, anche in questo senso, i dati delle rilevazioni ISTAT-CNR relativi all’adesione dell’universo complessivo dei servizi specializzati censiti ai requisiti richiesti dall’Intesa Stato-Regioni.
Se per quanto riguarda i Centri antiviolenza indicati dalle Regioni al DPO, si registra un’ottima aderenza (superiore a 80%) a tutti gli articoli, tranne che per l’articolo 3, relativo alle operatrici (73,3%), anche i Centri non indicati dalle Regioni mostrano standard di adesione elevati per la maggioranza degli articoli, e in particolare per quanto riguarda l’articolo 1, relativo alla definizione (96%) e l’articolo 4, relativo ai servizi minimi garantiti (79,4%)[27].
Per quanto riguarda le procedure e i criteri di erogazione dei fondi assegnati agli enti territoriali - considerata l’instabilità nella programmazione e nel trasferimento dei finanziamenti stessi da parte dell’amministrazione centrale, nonché la varietà di modelli adottati dalle Regioni per la riassegnazione dei fondi agli enti locali - si assiste ad un diffuso ricorso alla "procedura aperta", basata sul criterio "dell'offerta economicamente più vantaggiosa" (artt. 60 e 95 del D.Lgs. 50/2016), tipica degli appalti relativi ai lavori pubblici[28].
Si tratta, certamente, di una procedura tendenzialmente celere, che tuttavia trasforma la capacità di abbattimento dei costi e di anticipo della spesa in un criterio di selezione implicito: ai soggetti concorrenti viene richiesto di dimostrare di saper operare più come imprese-fornitrici di beni o prestazioni standardizzate, che come enti senza fini di lucro in grado di gestire situazioni sociali ed umane estremamente critiche. La maggior parte delle associazioni che gestiscono Centri e Case seguono, invece, criteri e parametri di gestione extra-mercantili[29].
Questa tendenza, che viene stigmatizzata dal rapporto del Grevio come «cattiva pratica», finisce «per favorire gli erogatori di servizi generici, i quali tendono a ridurre al minimo i costi complessivi, a spese delle associazioni di donne specializzate, che invece danno la priorità alle esigenze delle vittime, conformemente all’approccio incentrato sulla vittima previsto dalla convenzione».
In questo senso, va anche rilevato che dalle audizioni delle Associazioni presso la Commissione, è emerso come il sistema di finanziamento più frequentemente utilizzato da Comuni ed enti territoriali per le strutture di ospitalità, sia basato sulla corresponsione di rette. Un sistema che, non solo rende disomogeneo l’accesso ai servizi, ma rende difficoltosa e precaria la messa in sicurezza delle donne, sia perché non tutti i Comuni risultano disponibili a garantire la copertura delle rette, sia in quanto la durata temporale dei servizi è subordinata alla decisione dei uffici comunali competenti. Una decisione che spesso avviene, ancora una volta, in base a una logica di bilancio e non in base all’effettivo raggiungimento di un’autonomia abitativa da parte delle donne impegnate nel percorso di uscita dalla violenza che hanno avuto la necessità di allontanarsi dall’abitazione familiare.
In questo senso, le associazioni audite dalla Commissione hanno coralmente sollecitato un superamento di questo sistema in favore di un finanziamento diretto alle strutture di ospitalità, con convenzioni pluriennali.
Un’ulteriore criticità segnalata dal Grevio riguarda la scarsità dei finanziamenti a disposizione, che risulta palese quando si procede al calcolo degli importi medi totali ricevuti dai Centri antiviolenza e dalle Case rifugio. Secondo il già citato rapporto della Corte dei Conti del 2016, infatti, l’importo medio annuale dei finanziamenti pubblici a disposizione dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio era di circa 6.000 euro. Poiché le associazioni di donne che gestiscono Centri e Case operano principalmente su base volontaria gratuita e/o scarsamente retribuita, molte di loro incontrano difficoltà a coprire anche i costi di base delle proprie attività.
Secondo i dati ISTAT-CNR, infatti, il personale volontario rappresenta il 58,2% di coloro che lavoravano nei centri antiviolenza nel 2017, mentre nelle Case rifugio lavoravano 2.559 persone retribuite e 889 volontarie. Un dato che va aggiunto alla mole non quantificabile di lavoro gratuito svolto dalle operatrici e dalle figure professionali impegnate nei Centri e nelle Case rifugio
In conclusione, dal quadro fin qui delineato, emerge con chiarezza la necessità di una programmazione centrale ed un quadro unitario di riferimento in grado di ridurre le disomogeneità territoriali, garantendo la continuità e il necessario coordinamento agli interventi e alle politiche indirizzate alla prevenzione e al contrasto della violenza contro le donne.
Non a caso, la distribuzione dei fondi nazionali è già stata oggetto di un’istruttoria condotta dalla Corte dei conti, ed è solo con l’attuale Piano nazionale per il triennio 2017-2020, che è stato previsto per la prima volta un meccanismo di monitoraggio e valutazione nazionale.
Il Rapporto del Grevio rileva che i primi due Piani nazionali sulla violenza di genere «non hanno generato i risultati previsti, né specifici indicatori da utilizzare per valutare i progressi nell’implementazione e non hanno specificato le autorità incaricate dell’attuazione»[30].
Va però riconosciuto che, proprio per rimediare a queste carenze, il DPO ha incaricato il CNR sia di individuare i criteri per una valutazione a posteriori dei risultati ottenuti dal secondo Piano nazionale[31], sia di individuare gli indicatori che consentiranno di misurare l’efficacia e l’impatto del Piano vigente[32].
È opportuno far notare che il Piano operativo relativo all’attuale Piano strategico nazionale, è stato varato solo il 18 luglio del 2019 e che la sua titolarità è stata assegnata all’Autorità politica delegata per le pari opportunità e non alla Cabina di regia, alla quale partecipano anche i rappresentanti del sistema delle Regioni e delle Autonomie locali, che era stata istituita nel 2018 proprio con la funzione di indirizzo e strategia politica in materia come previsto dal Piano stesso. Il Piano operativo è stato inoltre presentato solo alla fine del 2019 al Comitato tecnico di supporto, che è composto da rappresentanti qualificati dell’amministrazione centrale e degli enti territoriali nonché da rappresentanti degli enti del Terzo settore maggiormente rappresentativi, tralasciando il contributo che gli enti gestori di Centri antiviolenza e Case rifugio avrebbero potuto apportare alla sua definizione.
La capacità di dialogo e cooperazione tra tutte le parti coinvolte, determina una maggiore efficacia dei servizi erogati e della qualità del supporto nei confronti delle donne che intraprendono percorsi di uscita da situazioni di violenza, alle quali questi servizi sono chiamati a rispondere.
3. Raccomandazioni e orientamenti di riforma
Alla luce dei risultati di questa indagine, si ritiene dunque prioritario e urgente il raggiungimento dei seguenti obiettivi:
1) implementare le risorse per l’intero sistema di prevenzione e contrasto alla violenza, semplificare e velocizzare il percorso dei finanziamenti, verificarne l’effettiva erogazione ai Centri antiviolenza e alle Case rifugio attraverso un sistema di monitoraggio più efficace e potenziare la governance centrale del sistema;
2) promuovere un’analisi territoriale dei bisogni coinvolgendo gli enti gestori specializzati di Centri antiviolenza e Case rifugio in tutti i livelli decisionali.
A tal fine, in questa sede, si prospetta l’esigenza di una riforma organica della normativa in materia di prevenzione e di contrasto di ogni forma di violenza di genere, nell’ambito della quale vengono prioritariamente individuati i seguenti strumenti:
1) revisione dell’Intesa Stato-Regioni;
2) istituzione di un Osservatorio nazionale permanente, con compiti di valutazione indipendente dell’intero sistema dei servizi dedicati al contrasto della violenza contro le donne, di monitoraggio dell’implementazione delle azioni previste e di controllo degli standard di qualità dei servizi antiviolenza.
3.1 Proposte di revisione del d.l. n.93/2013, conv. in legge n. 119/2013 e dell’Intesa Stato-Regioni
Per quanto riguarda le procedure di erogazione dei finanziamenti a Centri antiviolenza e Case rifugio, sulla scia dei rilievi contenuti nel rapporto del Grevio e nel monitoraggio di ActionAid Italia, la Commissione raccomanda l’adozione di misure volte alla semplificazione e alla sburocratizzazione delle operazioni di allocazione dei fondi agli enti gestori (pubblici e/o del privato sociale specializzato).
Come più volte evidenziato, è indispensabile evitare il protrarsi dell’attuale stato di precarietà e di incertezza che contraddistingue il modello di sostegno pubblico di attività dirette alla protezione di diritti fondamentali delle donne (a partire dalla tutela del diritto alla vita e all’integrità fisica)[33].
Nel pieno rispetto del principio di leale collaborazione tra Stato ed Enti territoriali[34], è opportuno ripensare, in primo luogo, il controverso sistema di trasferimenti plurimi delle risorse che recano, per legge, il vincolo di destinazione ai Centri e alle Case rifugio (causa primaria della tempistica che intercorre tra stanziamento statale ed erogazione effettiva delle risorse).
Si raccomanda, altresì, il superamento del meccanismo di riparto annuale, in favore di un riparto almeno triennale (che consentirebbe una programmazione più razionale degli impegni di spesa).
Come abbiamo potuto constatare, inoltre, alcune delle criticità rilevabili nell’attuale assetto del sistema istituzionale antiviolenza sono direttamente imputabili alla lacunosità dell’Intesa Stato-Regioni e sono numerosi gli attori istituzionali e non governativi che insistono da tempo sulla necessità di una sua revisione.
Per il raggiungimento di questo obiettivo, la Commissione intende qui fare riferimento ai suggerimenti formulati da IRPPS-CNR nell’ambito delle attività del progetto ViVa[35]e alle richieste avanzate dalle Associazioni audite.
In sintesi, per quanto riguarda i requisiti minimi per i Centri antiviolenza, è necessario individuare innanzitutto in modo chiaro quali sono i soggetti che possono candidarsi a gestirli e chiarire che cosa si intenda per «ente promotore» rivedendo l’articolo 1 (Definizione), comma 2.
In questo senso, andrebbe utilmente precisato che il promotore è l’ente finanziatore, sia esso pubblico o privato.
Occorre, inoltre, superare gli equivoci sorti in sede di interpretazione dell’articolo 1, comma 3, ridefinendo e precisando meglio il requisito della comprovata esperienza nel campo del contrasto alla violenza sulle donne.
In tale direzione, si tratta innanzitutto di chiarire se sia sufficiente l’inserimento nello Statuto della finalità del contrasto alla violenza di genere come attività esclusiva o prioritaria dei soggetti che si candidano o se tale riferimento non debba essere considerato meramente aggiuntivo (e non alternativo) rispetto al criterio "dei cinque anni di esperienza".
Si potrebbe, altresì, valutare se il riferimento al solo Statuto dell’associazione risulti adeguato o se – come da qualcuno prospettato – sia opportuno prendere in considerazione anche l’Atto Costitutivo.
Sarebbe opportuno, inoltre, chiarire cosa si intenda per "finalità prioritaria", valorizzando così l’attività di quelle associazioni che da molti anni operano esclusivamente per il supporto alle donne vittime di violenza e alle/i loro figlie/i. Un possibile criterio di valutazione potrebbe essere, ad esempio, quello relativo alla consistenza percentuale delle risorse destinate ad interventi di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne nel bilancio degli enti del privato sociale che si candidano a gestire Centri antiviolenza e Case rifugio.
Si raccomanda, in ogni caso, l’introduzione di una norma sulle procedure di affidamento della gestione dei servizi ad associazioni, che preveda il ricorso a modelli alternativi rispetto a quelli previsti dal codice dei contratti pubblici[36] (evitando, così, il frequente ricorso alle procedure degli appalti sotto-soglia e all’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa), quali, ad esempio, la co-progettazione[37].
Risulta altrettanto importante chiarire quali siano i requisiti strutturali ed organizzativi a cui i Centri devono tendere (articolo 2), dal momento che dall’attuale formulazione non si evince se, ad esempio, la reperibilità h24 sia rivolta alle donne o alle/i operatrici/ori delle Reti antiviolenza o che cosa si intenda concretamente per apertura di cinque giorni alla settimana, ivi compresi i festivi.
Infine, è cruciale il rafforzamento del ruolo dei Centri antiviolenza all’interno delle Reti territoriali (articolo 6), in quanto soggetti essenziali e cuore del funzionamento delle Reti stesse, in particolare laddove non siano già soggetti promotori e coordinatori delle Reti stesse.
Rispetto alle Case rifugio, al fine di garantire una maggiore qualità dei servizi e la massima sicurezza alle donne ospiti e alle/i loro figlie/i, è allo stesso modo necessario rivederne la definizione (articolo 8), chiarendo, ad esempio, se per Case rifugio si intendono esclusivamente quelle ad indirizzo segreto o se si intenda includere anche le Case rifugio ad indirizzo pubblico.
È necessario inoltre definire quale sia la relazione tra i Centri antiviolenza e le Case rifugio nelle fasi di protezione e supporto alle donne e alle/i loro figlie/i, in modo da garantire un maggiore raccordo tra i principali servizi specializzati anche nell’ottica del potenziamento del lavoro di rete. A questo proposito, sarebbe opportuno prevedere un ulteriore articolo, affinché anche le Case rifugio aderiscano alle Reti territoriali e siano coinvolte in prima linea nell’operatività delle stesse.
Infine, si ritiene necessaria una riformulazione di alcuni articoli dell’Intesa Stato-Regioni (come, ad esempio, gli articoli 1, 3, 6 e 7) aggiornandoli ai dettami della Convenzione di Istanbul e del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017 – 2020, per garantire una più lineare conoscenza dei servizi specializzati antiviolenza che operano sul territorio nazionale e implementare l’azione del numero di pubblica utilità 1522.
3.2 verso una riforma del sistema: Definire principi guida e standard di qualità dei servizi
Per consentire a tutte le amministrazioni coinvolte di agire verso un miglioramento della qualità dei servizi, appare necessario ragionare non solo in termini di requisiti minimi, bensì nell’ottica della definizione di un insieme di standard e principi guida a cui tendere.
Uno dei motivi di preoccupazione posto all'attenzione dal Rapporto Grevio in merito agli interventi delle Regioni, riguarda l’assenza di un controllo, preliminare all’assegnazione dei finanziamenti, sulle organizzazioni del "privato sociale" che si candidano a gestire o che già gestiscono Centri e Case Rifugio. Di conseguenza, si teme che le sovvenzioni pubbliche dedicate esclusivamente ai CAV e alle CR vengano assegnate anche ad organizzazioni che, mediante il loro operato, non producano propriamente quel sistema di valori mirato al rispetto dei principi fondamentali, come la parità tra donne e uomini ed i diritti umani»[38].
L’adozione di standard e principi guida rappresenta del resto un orizzonte verso il quale sia gli Stati sia i servizi antiviolenza devono tendere, anche in relazione al fatto che gli uni e gli altri operano all’interno di una cornice normativa internazionale (UN-WOMEN, OSCE e UNFPA, e in particolare il Consiglio d’Europa) che già li individua.
Tra questi, risultano fondanti: l’adozione di approccio fondato sul genere che riconosca la natura strutturale della violenza contro le donne, la concezione proprietaria del corpo femminile, causa e conseguenza della disparità di potere e delle disuguaglianze sociali tra donne e uomini; il riconoscimento che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani; una lettura intersezionale della trasversalità della violenza, che consenta di elaborare risposte specifiche a fronte dell’eterogeneità delle condizioni sociali, culturali ed economiche delle donne che si rivolgono ai servizi e la garanzia della sicurezza, della segretezza e dell’anonimato.
Anche al fine di un rafforzamento della governance del sistema di servizi antiviolenza e sulla scia di analoghe esperienze internazionali, si suggerisce l’istituzione di un Osservatorio nazionale permanente, che vada oltre i limitati orizzonti temporali dei Piani antiviolenza e dei mandati governativi, con compiti di valutazione dell’efficienza e dell’efficacia del sistema delle azioni di contrasto alla violenza contro le donne (dall’analisi dei flussi finanziari alla qualità dei servizi erogati), nonché di monitoraggio delle prestazioni erogate dai servizi antiviolenza (anche attraverso la previsione di visite periodiche sul campo e l’esercizio di poteri ispettivi).
Al fine di garantire continuità e stabilità al sistema dei servizi antiviolenza, risulta ormai indilazionabile lo sviluppo e l’implementazione di una programmazione di ampio respiro, a partire dalla necessità di finanziamenti strutturali, secondo un criterio di sostenibilità per gli enti del privato sociale specializzati.
Si tratta, infatti, di superare la logica degli interventi straordinari ed emergenziali e di riconoscere la dimensione sistemica del fenomeno della violenza contro le donne attraverso la definizione di un impegno istituzionale di lungo periodo nel contrasto alla violenza maschile contro le donne.
In questa direzione la Commissione ha inteso offrire un contributo alla riforma dei servizi preposti alla prevenzione e al contrasto di ogni forma di violenza contro le donne.
[1] La rilevazione ISTAT, diretta ai centri antiviolenza (CAV) indicati dalle Regioni al DPO in conformità all’Intesa Stato-Regioni, ha raggiunto 281 CAV; di questi, 253 hanno completato il questionario. La rilevazione IRPPS-CNR, diretta ai centri antiviolenza che non rientrano negli elenchi trasmessi dalle Regioni al DPO, ha interessato 85 CAV, di cui 82 hanno completato il questionario. Questi centri sono stati individuati a partire dal database utilizzato dal 1522, dal sito comecitrovi.women.it, da indicazioni di stakeholder o durante la rilevazione stessa. Nel complesso, quindi, hanno risposto alle due rilevazioni 335 CAV.
[2] La rilevazione ISTAT, diretta alle case rifugio indicate dalle Regioni al DPO, ha interessato 210 strutture; la rilevazione CNR-IRPPS, diretta alle case rifugio e alle strutture di ospitalità che non rientrano nella rilevazione ISTAT ha interessato 54 strutture.
[3] Audizione di rappresentanti dell'associazione Vìola Dauna, dell'associazione Befree, della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, della Casa internazionale delle donne di Roma, della Cooperativa EVA, dell'associazione Differenza donna, dell'associazione DIRE-Donne in rete contro la violenza, dell'associazione Donne insieme, dell'associazione Lucha y Siesta, dell'associazione Onda Rosa, dell'associazione Pangea REAMA, dell'associazione Telefono Rosa e dell'associazione UDI-Unione Donne in Italia.
[4]La raccomandazione auspicava la presenza di un Centro antiviolenza ogni 10.000 persone e di una casa rifugio ogni 50.000 abitanti.
[5] Rapporto di Valutazione (di Base) del GREVIO sulle misure legislative e di altra natura da adottare per dare efficacia alle disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), p. 25.
[6] Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020, p. 27.
[7] E’ da questa prima rete informale che nel 2008 nascerà l’associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, il cui Atto costitutivo riflette i contenuti della Carta della Rete Nazionale dei Centri Antiviolenza e delle Case delle donne, il documento conclusivo di un incontro della rete a cui avevano partecipato 57 Centri e che si era svolto alla Casa internazionale delle donne di Roma nel 2006. Attualmente, aderiscono alla rete D.i.Re 80 Centri antiviolenza distribuiti in quasi tutto il territorio nazionale.
[8] Grevio, cit., p. 25.
[9] D.i.Re., Shadow Report 2018, p. 10.
[10] D.i.Re., Shadow Report 2018, p. 4.
[11] Grevio, cit., p. 18.
[12] Grevio, cit., p. 18.
[13] Grevio, cit., p. 48.
[14] Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, La gestione delle risorse finanziarie per l’assistenza e il sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli (D.L. N. 93/2013), Deliberazione 5 settembre 2016, n. 9/2016/G.
[15] Il quesito era così formulato: «b. i criteri che la Sua Regione ha stabilito per l'accesso alle risorse da parte dei Centri antiviolenza e delle case rifugio che operano in quel territorio, anche attraverso la produzione dei bandi emanati, i criteri di monitoraggio utilizzati per verificare l'utilizzo delle risorse».
[16] Sulle controversie sorte tra Centri "storici" e Regione Lombardia in merito alla richiesta di inserire nella banca dati ORA anche il codice fiscale delle donne prese in carico da Centri e case nonché alle sue conseguenze sia sul principio di riservatezza e anonimato sia sull’accesso ai finanziamenti da parte di Centri e case che non hanno inteso aderire al sistema, si veda, oltre alle già citate audizioni delle Associazioni, ActionAid Italia, Trasparenza e accountability: Monitoraggio dei Fondi Statali Antiviolenza 2019, p. 21.
[17] Le Associazioni audite dalla Commissione hanno segnalato che, di fatto, il trasferimento spesso non avviene.
[18] La quota di risorse da ripartire alle Province autonome di Trento e Bolzano, viene infatti versata all'entrata del bilancio dello Stato.
[19] Relazione alle Camere sullo stato di utilizzo da parte delle Regioni delle risorse stanziate ai sensi dell’art. 5 bis del decreto legge del 14 agosto 2013, n. 93 convertito, con modificazioni, nella Legge 15 ottobre 2013, n. 119, consultabile su http://www.pariopportunita.gov.it/materiale/fondi-ripartiti-alle-regioni.
[20] Relazioni sullo stato di utilizzo delle risorse stanziate per potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza (anni dal 2017 al 2018) (articolo 5-bis, comma 7, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93), consultabile su http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/346878.pdf.
[21] Il quesito era così formulato: «a. L'entità delle risorse destinate dalla Sua Regione alle attività connesse al contrasto della violenza di genere per il prossimo triennio 2019- 2021 e l'entità delle risorse effettivamente utilizzate nel triennio precedente 2016-2018».
[22] Per quanto riguarda l’utilizzo di queste risorse è possibile consultare la scheda di monitoraggio su http://www.pariopportunita.gov.it/materiale/fondi-ripartiti-alle-regioni.
[23] La Commissione ha ascoltato in audizione i rappresentanti della Associazione ActionAid Italia il 12 dicembre 2019. In merito al triennio 2016-2018, lo studio di monitoraggio di ActionAid Italia, aggiornato ai dati del 1 ottobre 2019, calcola che le Regioni avrebbero nel complesso liquidato una cifra pari al 63 per cento della somma totale ricevuta dal DPO per il biennio 2015-2016. Per quanto riguarda l'annualità 2017, invece, «a distanza di quasi due anni dall’emanazione del decreto di ripartizione dei fondi e a un anno circa dal loro trasferimento da parte del DPO, le Regioni hanno liquidato solo il 34% delle risorse». Infine, la liquidazione dei fondi per il 2018, trasferiti alle Regioni alla fine del 2019, risulterebbe pari allo 0,39 per cento. ActionAid Italia, cit., pp. 6-9.
[24] Grevio, cit., p. 23.
[25] A questo proposito, le Associazioni audite dalla Commissione hanno segnalato come particolarmente critici i casi della Regione Lazio e della Regione Campania.
[26] Grevio, cit., p. 51.
[27] Questi Centri, tuttavia, mostrano difficoltà nelle attività di raccolta e analisi dati (dichiarata solo dalla metà, il 46,9%) e nel lavoro di rete (effettuato dal 56,1%).
[28] Nel corso dell’ultimo decennio, larga parte delle amministrazioni pubbliche, negli affidamenti ai privati di servizi sociali "sotto soglia comunitaria", ha finito per ritenere ‘obbligata’ la strada dell’applicazione dell’art. l’art. 95 del D.Lgs. 50/2016, secondo il quale "i contratti relativi ai servizi sociali (…) sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo". Tale linea interpretativa della disciplina dei contratti pubblici, peraltro, trovava avallo sia nelle "Linee guida per l’affidamento di servizi ad enti del terzo settore ed alle cooperative sociali" dell’ANAC, sia nel parere espresso dal Consiglio di Stato, nell’Adunanza della Commissione speciale del 26 luglio 2018, sul quesito sottoposto dall’ANAC in merito alla "normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d.lgs.18 aprile 2016 n. 50 e del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117".
Si tratta, tuttavia, di un orientamento, ormai, in via di ridefinizione, soprattutto a seguito dell’emanazione del Codice del Terzo Settore. Lo stesso Consiglio di Stato, alla fine del 2019, ha prospettato all’ANAC la necessità di una "rimeditazione" della soluzione adottata negli anni passati in materia di appalti di servizi sociali (Parere del 19/12/2019 del Consiglio di Stato sulla proposta ANAC di revisione delle proprie "Linee guida recanti indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali", numero affare 01655/2019, pag.9).
[29] Vale anche (ed a maggior ragione) per i Centri Antiviolenza e per le Case rifugio il recentissimo richiamo della Corte Costituzionale (seppur riferito ad altre tipologie di soggetti) alle logiche proprie dei soggetti no profit che operano nel campo delle politiche sociali: il rapporto pubblico-privato in questa area "non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico"( Corte Cost., Sent. n.131/2020)
[30] Grevio, cit., p. 28.
[31] IRPPS-CNR, Primo rapporto di valutazione sul Piano d’azione Straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017, Deliverable n.11 – dicembre 2019.
[32] IRPPS-CNR, Rapporto di valutazione ex-ante del Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017–2020, Deliverable n.5 – febbraio 2019.
[33] Come ricorda la Corte Cost. nella sua Sent. n. 50/2008, Massima n. 32168, la normativa in materia di violenza sessuale e di genere è «finalizzata ad assicurare la prevenzione e repressione di reati» ed «è riconducibile sia all'ambito materiale dell'ordine pubblico e sicurezza, sia a quello dell'ordinamento penale».
[34] Principio richiamato nella citata sentenza della Corte Cost. nella sua Sent. n. 50/2008, Massima n. 32168, che aveva ad oggetto proprio la questione del riparto di competenze tra Stato e Regioni nella delicata materia delle azioni di contrasto della violenza di genere. È opportuno richiamare l’attenzione sulle argomentazioni della Corte. La sentenza, infatti, metteva in chiara evidenza come la questione coinvolga ambiti attribuiti alla competenza legislativa esclusiva statale (ordine pubblico, sicurezza e ordinamento penale), così come, almeno in parte, l’ambito dei servizi sociali, di competenza regionale. Data la complessità della questione, la stessa Corte rilevava come il concorso di competenze statali e regionali non possa comporsi «mediante l'applicazione del principio di prevalenza». Suggeriva, pertanto, «la necessità che debbano essere previste forme di leale collaborazione» tra Stato e Regioni, che avrebbero potuto essere assolte tramite la «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata», in sede di programmazione delle risorse.
[35] IRPPS-CNR, Servizi specializzati e generali: uno studio sugli standard, Deliverable n. 3, dicembre 2018.
[36]Si può ipotizzare l’esclusione esplicita dell’applicabilità del Codice dei contratti pubblici ai servizi di contrasto della violenza di genere, con l’estensione anche a tali servizi del modello già previsto dal Codice del Terzo Settore (autorizzazione, accreditamento, co-programmazione, co-progettazione). Del resto, come già rilevato, nella direzione di un ripensamento complessivo delle procedure di affidamento dei servizi sociali seguite nell’ultimo decennio si è di recente espresso il Consiglio di Stato, con il citato Parere del 19/12/2019, numero affare 01655/2019.
[37]Vale la pena richiamare, ancora una volta, la citata sentenza n.131/2020 della Corte Costituzionale, che - pur riferita ad altre tipologie di soggetti no profit - ha colto l’occasione per ribadire il significato dei modelli alternativi di affidamento di servizi di interesse pubblico al privato sociale. Secondo la Corte, va valorizzato quel "canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico". Se c’è un campo nel quale la cooperazione pubblico-privato non dovrebbe basarsi (per usare le parole della Corte) "sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata", né sul "mero scambio utilitaristico", questo è proprio quello della delicatissima attività dei servizi dedicati alle donne vittime di violenza.
[38] Grevio, cit., p. 26.
[ 1] La rilevazione ISTAT, diretta ai centri antiviolenza (CAV) indicati dalle Regioni al DPO in conformità all’Intesa Stato-Regioni, ha raggiunto 281 CAV; di questi, 253 hanno completato il questionario. La rilevazione IRPPS-CNR, diretta ai centri antiviolenza che non rientrano negli elenchi trasmessi dalle Regioni al DPO, ha interessato 85 CAV, di cui 82 hanno completato il questionario. Questi centri sono stati individuati a partire dal database utilizzato dal 1522, dal sito comecitrovi.women.it, da indicazioni di stakeholder o durante la rilevazione stessa. Nel complesso, quindi, hanno risposto alle due rilevazioni 335 CAV.
[ 2] La rilevazione ISTAT, diretta alle case rifugio indicate dalle Regioni al DPO, ha interessato 210 strutture; la rilevazione CNR-IRPPS, diretta alle case rifugio e alle strutture di ospitalità che non rientrano nella rilevazione ISTAT ha interessato 54 strutture.
[ 3] Audizione di rappresentanti dell'associazione Vìola Dauna, dell'associazione Befree, della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, della Casa internazionale delle donne di Roma, della Cooperativa EVA, dell'associazione Differenza donna, dell'associazione DIRE-Donne in rete contro la violenza, dell'associazione Donne insieme, dell'associazione Lucha y Siesta, dell'associazione Onda Rosa, dell'associazione Pangea REAMA, dell'associazione Telefono Rosa e dell'associazione UDI-Unione Donne in Italia.
[ 4]La raccomandazione auspicava la presenza di un Centro antiviolenza ogni 10.000 persone e di una casa rifugio ogni 50.000 abitanti.
[ 5] Rapporto di Valutazione (di Base) del GREVIO sulle misure legislative e di altra natura da adottare per dare efficacia alle disposizioni della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), p. 25.
[ 6] Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020, p. 27.
[ 7] E’ da questa prima rete informale che nel 2008 nascerà l’associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, il cui Atto costitutivo riflette i contenuti della Carta della Rete Nazionale dei Centri Antiviolenza e delle Case delle donne, il documento conclusivo di un incontro della rete a cui avevano partecipato 57 Centri e che si era svolto alla Casa internazionale delle donne di Roma nel 2006. Attualmente, aderiscono alla rete D.i.Re 80 Centri antiviolenza distribuiti in quasi tutto il territorio nazionale.
[ 8] Grevio, cit., p. 25.
[ 9] D.i.Re., Shadow Report 2018, p. 10.
[10] D.i.Re., Shadow Report 2018, p. 4.
[11] Grevio, cit., p. 18.
[12] Grevio, cit., p. 18.
[13] Grevio, cit., p. 48.
[14] Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, La gestione delle risorse finanziarie per l’assistenza e il sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli (D.L. N. 93/2013), Deliberazione 5 settembre 2016, n. 9/2016/G.
[15] Il quesito era così formulato: «b. i criteri che la Sua Regione ha stabilito per l'accesso alle risorse da parte dei Centri antiviolenza e delle case rifugio che operano in quel territorio, anche attraverso la produzione dei bandi emanati, i criteri di monitoraggio utilizzati per verificare l'utilizzo delle risorse».
[16] Sulle controversie sorte tra Centri "storici" e Regione Lombardia in merito alla richiesta di inserire nella banca dati ORA anche il codice fiscale delle donne prese in carico da Centri e case nonché alle sue conseguenze sia sul principio di riservatezza e anonimato sia sull’accesso ai finanziamenti da parte di Centri e case che non hanno inteso aderire al sistema, si veda, oltre alle già citate audizioni delle Associazioni, ActionAid Italia, Trasparenza e accountability: Monitoraggio dei Fondi Statali Antiviolenza 2019, p. 21.
[17] Le Associazioni audite dalla Commissione hanno segnalato che, di fatto, il trasferimento spesso non avviene.
[18]Si precisa, infatti, che le quote di risorse destinate alle province autonome di Trento e di Bolzano dai DPCM viene acquisita al bilancio dello Stato ai sensi dell’articolo 2, comma 108, della legge 23 dicembre 2009, n. 191.
[19] Relazione alle Camere sullo stato di utilizzo da parte delle Regioni delle risorse stanziate ai sensi dell’art. 5 bis del decreto legge del 14 agosto 2013, n. 93 convertito, con modificazioni, nella Legge 15 ottobre 2013, n. 119, consultabile su http://www.pariopportunita.gov.it/materiale/fondi-ripartiti-alle-regioni.
[20] Relazioni sullo stato di utilizzo delle risorse stanziate per potenziare le forme di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli attraverso modalità omogenee di rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza (anni dal 2017 al 2018) (articolo 5-bis, comma 7, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93), consultabile su http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/346878.pdf.
[21] Il quesito era così formulato: «a. L'entità delle risorse destinate dalla Sua Regione alle attività connesse al contrasto della violenza di genere per il prossimo triennio 2019- 2021 e l'entità delle risorse effettivamente utilizzate nel triennio precedente 2016-2018».
[22] Per quanto riguarda l’utilizzo di queste risorse è possibile consultare la scheda di monitoraggio su http://www.pariopportunita.gov.it/materiale/fondi-ripartiti-alle-regioni.
[23] La Commissione ha ascoltato in audizione i rappresentanti della Associazione ActionAid Italia il 12 dicembre 2019. In merito al triennio 2016-2018, lo studio di monitoraggio di ActionAid Italia, aggiornato ai dati del 1 ottobre 2019, calcola che le Regioni avrebbero nel complesso liquidato una cifra pari al 63 per cento della somma totale ricevuta dal DPO per il biennio 2015-2016. Per quanto riguarda l'annualità 2017, invece, «a distanza di quasi due anni dall’emanazione del decreto di ripartizione dei fondi e a un anno circa dal loro trasferimento da parte del DPO, le Regioni hanno liquidato solo il 34% delle risorse». Infine, la liquidazione dei fondi per il 2018, trasferiti alle Regioni alla fine del 2019, risulterebbe pari allo 0,39 per cento. ActionAid Italia, cit., pp. 6-9.
[24] Grevio, cit., p. 23.
[25] A questo proposito, le Associazioni audite dalla Commissione hanno segnalato come particolarmente critici i casi della Regione Lazio e della Regione Campania.
[26] Grevio, cit., p. 51.
[27] Questi Centri, tuttavia, mostrano difficoltà nelle attività di raccolta e analisi dati (dichiarata solo dalla metà, il 46,9%) e nel lavoro di rete (effettuato dal 56,1%).
[28] Nel corso dell’ultimo decennio, larga parte delle amministrazioni pubbliche, negli affidamenti ai privati di servizi sociali "sotto soglia comunitaria", ha finito per ritenere ‘obbligata’ la strada dell’applicazione dell’art. l’art. 95 del D.Lgs. 50/2016, secondo il quale "i contratti relativi ai servizi sociali (…) sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo". Tale linea interpretativa della disciplina dei contratti pubblici, peraltro, trovava avallo sia nelle "Linee guida per l’affidamento di servizi ad enti del terzo settore ed alle cooperative sociali" dell’ANAC, sia nel parere espresso dal Consiglio di Stato, nell’Adunanza della Commissione speciale del 26 luglio 2018, sul quesito sottoposto dall’ANAC in merito alla "normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d.lgs.18 aprile 2016 n. 50 e del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117".
Si tratta, tuttavia, di un orientamento, ormai, in via di ridefinizione, soprattutto a seguito dell’emanazione del Codice del Terzo Settore. Lo stesso Consiglio di Stato, alla fine del 2019, ha prospettato all’ANAC la necessità di una "rimeditazione" della soluzione adottata negli anni passati in materia di appalti di servizi sociali (Parere del 19/12/2019 del Consiglio di Stato sulla proposta ANAC di revisione delle proprie "Linee guida recanti indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali", numero affare 01655/2019, pag.9).
[29] Vale anche (ed a maggior ragione) per i Centri Antiviolenza e per le Case rifugio il recentissimo richiamo della Corte Costituzionale (seppur riferito ad altre tipologie di soggetti) alle logiche proprie dei soggetti no profit che operano nel campo delle politiche sociali: il rapporto pubblico-privato in questa area "non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico"( Corte Cost., Sent. n.131/2020)
[30] Grevio, cit., p. 28.
[31] IRPPS-CNR, Primo rapporto di valutazione sul Piano d’azione Straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017, Deliverable n.11 – dicembre 2019.
[32] IRPPS-CNR, Rapporto di valutazione ex-ante del Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017–2020, Deliverable n.5 – febbraio 2019.
[33] Come ricorda la Corte Cost. nella sua Sent. n. 50/2008, Massima n. 32168, la normativa in materia di violenza sessuale e di genere è «finalizzata ad assicurare la prevenzione e repressione di reati» ed «è riconducibile sia all'ambito materiale dell'ordine pubblico e sicurezza, sia a quello dell'ordinamento penale».
[34] Principio richiamato nella citata sentenza della Corte Cost. nella sua Sent. n. 50/2008, Massima n. 32168, che aveva ad oggetto proprio la questione del riparto di competenze tra Stato e Regioni nella delicata materia delle azioni di contrasto della violenza di genere. È opportuno richiamare l’attenzione sulle argomentazioni della Corte. La sentenza, infatti, metteva in chiara evidenza come la questione coinvolga ambiti attribuiti alla competenza legislativa esclusiva statale (ordine pubblico, sicurezza e ordinamento penale), così come, almeno in parte, l’ambito dei servizi sociali, di competenza regionale. Data la complessità della questione, la stessa Corte rilevava come il concorso di competenze statali e regionali non possa comporsi «mediante l'applicazione del principio di prevalenza». Suggeriva, pertanto, «la necessità che debbano essere previste forme di leale collaborazione» tra Stato e Regioni, che avrebbero potuto essere assolte tramite la «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata», in sede di programmazione delle risorse.
[35] IRPPS-CNR, Servizi specializzati e generali: uno studio sugli standard, Deliverable n. 3, dicembre 2018.
[36]Si può ipotizzare l’esclusione esplicita dell’applicabilità del Codice dei contratti pubblici ai servizi di contrasto della violenza di genere, con l’estensione anche a tali servizi del modello già previsto dal Codice del Terzo Settore (autorizzazione, accreditamento, co-programmazione, co-progettazione). Del resto, come già rilevato, nella direzione di un ripensamento complessivo delle procedure di affidamento dei servizi sociali seguite nell’ultimo decennio si è di recente espresso il Consiglio di Stato, con il citato Parere del 19/12/2019, numero affare 01655/2019.
[37]Vale la pena richiamare, ancora una volta, la citata sentenza n.131/2020 della Corte Costituzionale, che - pur riferita ad altre tipologie di soggetti no profit - ha colto l’occasione per ribadire il significato dei modelli alternativi di affidamento di servizi di interesse pubblico al privato sociale. Secondo la Corte, va valorizzato quel "canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico". Se c’è un campo nel quale la cooperazione pubblico-privato non dovrebbe basarsi (per usare le parole della Corte) "sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata", né sul "mero scambio utilitaristico", questo è proprio quello della delicatissima attività dei servizi dedicati alle donne vittime di violenza.