Legislatura 17ª - Disegno di legge n. 588
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Onorevoli Senatori. -- Come è noto, nel corso della XVI legislatura, il Governo Berlusconi prima ed il Governo Monti poi, hanno presentato alle Camere, rispettivamente, il disegno di legge comunitaria 2011 e il disegno di legge comunitaria 2012, il cui iter di approvazione si è arrestato per entrambi alla seconda lettura in Senato (v. rispettivamente, atti Senato nn. 3129 e 3510). Con lo scioglimento delle Camere, i due disegni di legge sono decaduti. La possibilità di ripresentarli come tali al nuovo Parlamento -- analogamente a quanto si è solitamente fatto nell’avvicendarsi delle legislature -- è attualmente preclusa dall’entrata in vigore della legge 24 dicembre 2012, n. 234, recante «Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea», la quale ha sostituito alla strumento della legge comunitaria annuale i due strumenti della «legge di delegazione europea» e della «legge europea».
Nel presente disegno di legge europea sono inserite tutte le norme, diverse dalle deleghe, necessarie ad adempiere ad obblighi europei e finalizzate a porre rimedio a casi di non corretto recepimento di normativa dell’Unione europea nell’ordinamento nazionale, laddove si è riconosciuta la fondatezza delle censure mosse dalla Commissione europea. Si tratta di casi di pre-infrazione, avviati dalla Commissione nel quadro del sistema di comunicazione EU Pilot, oppure di procedure di infrazione ai sensi degli articoli 258-260 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
A quella parte di pre-contenzioso e contenzioso per la quale si è riconosciuta l’esattezza delle censure della Commissione europea si intende porre rimedio con il presente disegno di legge, con il duplice effetto positivo di garantire il rispetto degli obblighi assunti dallo Stato italiano in sede europea e di evitare aggravi di oneri a carico dello Stato, derivanti da possibili sentenze di condanna ad una pena pecuniaria da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Il corretto e puntuale adempimento degli obblighi europei e la conseguente riduzione delle infrazioni a carico dell’Italia sono obiettivi prioritari del Governo italiano, che si inquadrano nelle indicazioni in materia di attuazione degli obblighi del mercato interno contenute nel Patto per la crescita e l’occupazione adottato dal Consiglio europeo il 29 giugno 2012. Con il presente disegno di legge si intende, quindi, sia prevenire l’imminente apertura di procedure d’infrazione ex articolo 258 del TFUE, sia arrivare alla chiusura di un numero consistente delle stesse, migliorando peraltro così la posizione dell’Italia rispetto agli altri Stati membri nella classifica degli inadempimenti.
Sinteticamente, con l’adozione del provvedimento:
-- si potrebbero chiudere 19 procedure d’infrazione e 11 casi EU pilot;
-- si darebbe attuazione a 2 decisioni della Commissione europea;
-- si evita l’apertura di due procedure d’infrazione derivanti da casi non trattati dalla Commissione europea nell’ambito del sistema EU pilot;
-- si attuano due regolamenti UE.
Sullo schema di disegno di legge è stato acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, ai sensi dell’articolo 22, comma 2, lettera c), della legge n. 234 del 2012, nonché dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, che definisce le attribuzioni della Conferenza, come modificato dalla stessa legge n. 234 del 2012. Sul merito del parere espresso dalla Conferenza Stato-regioni, si veda la parte finale della presente relazione.
Di seguito sono illustrati i contenuti del disegno di legge.
Il Capo I contiene disposizioni in materia di libera circolazione delle persone e dei servizi e in materia di diritto di stabilimento.
L’articolo 1 mira a sanare i profili di non corretto recepimento nell’ordinamento italiano della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, sollevati dalla Commissione europea nell’ambito della procedura d’infrazione n. 2011/2053.
Detta procedura è stata avviata il 29 novembre 2011 con l’invio di una lettera di messa in mora ex articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in seguito alla chiusura negativa del caso EU Pilot 1694/11/JUST.
In particolare, le disposizioni del diritto nazionale contestate dalla Commissione europea sono:
a) l’articolo 3, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, con riguardo all’ingresso e al soggiorno del partner con cui il cittadino abbia una relazione stabile, introduce una condizione aggiuntiva -- vale a dire l’attestazione dello Stato membro di origine -- mentre la direttiva non consente agli Stati membri di limitare i mezzi di prova ai documenti ufficiali dello Stato membro di origine;
b) l’articolo 5, comma 5, del citato decreto legislativo n. 30 del 2007, in relazione alla prova della titolarità del diritto alla libera circolazione per il cittadino dell’Unione o un suo familiare non avente la cittadinanza di uno Stato membro, da fornire prima di procedere al respingimento, aggiunge una condizione aggiuntiva -- anch’essa non in linea con le previsioni della direttiva -- nella misura in cui prevede che l’interessato possa dimostrare il proprio diritto di ingresso con altra idonea documentazione, «secondo la legge nazionale»;
c) l’articolo 9, comma 3-bis, del decreto legislativo n. 30 del 2007 ha introdotto, ai fini della valutazione relativa all’esistenza di risorse sufficienti per i soggiorni superiori a tre mesi, un richiamo espresso a che tale valutazione sia effettuata con particolare riguardo alle «spese afferenti all’alloggio», richiamo ritenuto dalla Commissione incompatibile con le disposizioni della direttiva, poiché, riservando particolare rilievo ad un elemento specifico, rischia di travisare quanto previsto dalla direttiva in materia di valutazione delle risorse sufficienti;
d) l’articolo 9, comma 5, del decreto legislativo n. 30 del 2007, con riferimento all’iscrizione anagrafica, e l’articolo 10, comma 3, dello stesso decreto, con riferimento al rilascio della carta di soggiorno, non includono, tra i documenti che devono essere presentati, la prova di una stabile relazione con il cittadino dell’Unione; ciò rende poco chiaro quali documenti debba presentare il partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile, ai fini del rilascio dell’iscrizione anagrafica e della carta di soggiorno; la Commissione ritiene, quindi, che sia necessario includere nella normativa di recepimento della direttiva 2004/38/CE (ossia il decreto legislativo n. 30 del 2007) un riferimento alla prova di una relazione stabile con il cittadino dell’Unione, come previsto dall’articolo 8, paragrafo 5, lettera f), della direttiva;
e) l’articolo 183-ter del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), facendo richiamo solo alla lettera a) -- e non anche alla lettera b) -- dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 30 del 2007, esclude il partner dall’applicazione delle garanzie previste in materia di allontanamento dal territorio nazionale a titolo di pena o di misura accessoria; infatti, il partner non può essere considerato ricompreso nella definizione di familiare di cui all’articolo 183-ter del citato decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in quanto la sua assimilazione ai familiari del cittadino dell’Unione è consentita, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2004/38 (e del corrispondente articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 30 del 2007), solo nella misura in cui si tratta di un «partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro», e «la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio»; non essendo soddisfatta in Italia quest’ultima condizione, è necessario fare riferimento espresso al partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione debitamente attestata, al fine di estendergli la tutela in materia di allontanamento dal territorio nazionale a titolo di pena o di misura accessoria garantita dall’articolo 183-ter.
Al fine di superare gli addebiti mossi dalla Commissione europea, l’articolo intende apportare le seguenti modifiche alla normativa nazionale:
1) circa i rilievi sub a) e d), modifica il decreto legislativo n. 30 del 2007, prevedendo che la dimostrazione dell’esistenza di una relazione stabile del partner con un cittadino UE debba essere comprovata con «documentazione ufficiale»;
2) con riguardo al rilievo sub b), sopprime l’espressione «secondo la legge nazionale»;
3) con riferimento ai rilievi sub c), elimina il riferimento al «particolare riguardo alle spese afferenti all’alloggio», introdotto in sede di conversione del decreto-legge n. 89 del 2011;
4) in relazione, infine, al rilievo sub e), sopprime, all’articolo 183-ter del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), il riferimento alla sola lettera a) dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 30 del 2007, richiamando così integralmente il citato comma 2, il quale include sia il familiare che il partner, al fine di estendere a quest’ultimo le garanzie in materia di allontanamento.
L’articolo 2 apporta una modifica all’articolo 5 del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101, il quale sancisce che «le amministrazioni pubbliche tenute al rispetto del principio di libera circolazione dei lavoratori, di cui agli articoli 39 del Trattato che istituisce la Comunità europea e 7 del regolamento (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, salve più favorevoli previsioni, valutano, ai fini giuridici ed economici, l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite da cittadini comunitari nell’esercizio di un’attività analoga a quella considerata rilevante e svolta presso pubbliche amministrazioni di un altro Stato membro, anche in periodi antecedenti all’adesione del medesimo all’Unione europea, o presso organismi dell’Unione europea, secondo condizioni di parità rispetto a quelle maturate nell’ambito dell’ordinamento italiano [...]».
La modifica apportata dall’articolo 2 disegno di legge fa seguito alla procedura di infrazione 2009/4686, allo stadio di parere motivato ex articolo 258 del TFUE, avviata nei confronti dell’Italia per la ritenuta discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri, derivante della normativa contenuta nei contratti collettivi applicabili all’area della dirigenza medica e veterinaria, i quali prevedono, ai fini dell’ottenimento dell’indennità di esclusività, nonché degli altri trattamenti economici e professionali ivi previsti, un’anzianità di servizio di un certo numero di anni, da maturarsi senza soluzione di continuità. Tale clausola di continuità del servizio prestato, pur applicandosi anche ai cittadini italiani, provocherebbe, secondo la Commissione europea, un’indiretta discriminazione nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea che intendano esercitare la propria attività professionale presso strutture sanitarie pubbliche in Italia, in quanto il trasferimento, a tal fine, dal loro Stato di provenienza determina inevitabilmente l’interruzione del rapporto di lavoro.
Per questi motivi, l’articolo in questione, aggiungendo un secondo periodo alla richiamata norma di cui all’articolo 5 del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59, sancisce che, relativamente alle aree della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria che presta servizio presso le strutture sanitarie pubbliche, per le quali l’ordinamento italiano richiede, ai fini del riconoscimento di vantaggi economici o professionali, che l’esperienza professionale e l’anzianità siano maturate senza soluzione di continuità, tale condizione non si applica se la soluzione di continuità dipende dal passaggio dell’interessato da una struttura sanitaria di cui alla legge 10 luglio 1960, n. 735, di uno Stato membro a quella di un altro Stato membro. La legge da ultimo citata disciplina il riconoscimento dell’attività sanitaria prestata all’estero da sanitari italiani, presso le strutture sanitarie individuate dalla medesima legge, ai fini della partecipazione a concorsi pubblici per sanitari banditi in Italia, riconoscendo tale attività come titolo valutabile nei concorsi medesimi.
Lo scopo è dunque quello di eliminare la discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri.
La stima degli oneri economici derivanti dall’applicazione della norma ha implicato la quantificazione dei dirigenti medici e veterinari e dei dirigenti sanitari attualmente operanti presso le strutture sanitarie pubbliche del Servizio sanitario nazionale, che abbiano in precedenza lavorato in strutture pubbliche di altri Stati dell’Unione europea e che si siano trasferiti in Italia allo scopo di espletare la propria attività professionale presso le strutture sanitarie pubbliche italiane. Infatti, mentre a legislazione vigente l’esperienza professionale espletata negli Stati dell’Unione europea non può cumularsi con quella espletata in Italia, a causa della soluzione di continuità determinatasi in ragione del trasferimento, a seguito della proposta normativa in questione tale esperienza potrà essere utilmente conteggiata ai fini del riconoscimento dei predetti trattamenti economici.
A tal fine, il Ministero della salute ha chiesto ai direttori generali degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale di procedere all’espletamento di un’attività ricognitiva finalizzata ad acquisire elementi in ordine alla quantificazione dei dirigenti medici e veterinari che presentino caratteristiche tali da poter beneficiare della proposta normativa in esame.
Su un totale di 220 strutture sanitarie interpellate, hanno fornito riscontro 171, di cui 90 aziende sanitarie locali, 68 aziende ospedaliere universitarie e 13 istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto pubblico. Le aziende che sono interessate dalla modifica normativa risultano essere pari a 66.
In particolare, l’indagine ha inteso rilevare l’incremento presunto di spesa che deriverebbe dall’applicazione della misura in oggetto.
Dalla elaborazione dei dati pervenuti risulta che, allo stato attuale, un numero pari a circa 153 dirigenti, medici e sanitari, presenta le caratteristiche suddette e che, ove si applicasse la norma in esame, si determinerebbe un incremento presunto totale di spesa, per l’anno 2012, di euro 231.266,41, che rappresenta il risultato differenziale tra l’ammontare delle indennità attualmente spettanti, sulla base della legislazione vigente, ai soggetti interessati, e quello che deriverebbe dall’applicazione della norma in esame. Dalla rilevazione effettuata si è inoltre stimato un ammontare di circa euro 2.396.290,07, quale importo complessivo da corrispondere eventualmente a titolo di emolumenti arretrati, nel caso di conteggio dell’anzianità pregressa sulla base della norma in esame.
Utilizzando un fattore moltiplicativo pari ad 1,28 -- assumendo cioè che nel resto degli enti che non hanno fornito risposta sussista una situazione se non equivalente, quantomeno analoga -- avremo i seguenti dati:
numero di dirigenti coinvolti: 161;
differenziale annuale sulle indennità corrisposte: 296.021,00;
arretrati: 3.067.251,29.
Pertanto la norma è stata volutamente circoscritta al solo ambito sanitario, anche per ordini di valutazione tecnica contabile, posto che, per esempio, il Fondo sanitario nazionale non può pagare altri che il personale del comparto di riferimento.
Il fondo ex articolo 5 della legge n. 183 del 1987 è dotato della capienza necessaria a far fronte agli oneri di cui sopra.
L’articolo 3 è diretto a risolvere integralmente le contestazioni sollevate dalla Commissione europea nell’ambito del caso EU Pilot 2066/11/MARK in materia di prestazioni transfrontaliere di servizi in Italia dei consulenti in materia di proprietà industriale. Il caso è già stato chiuso negativamente e sarà a breve avviata una procedura di infrazione.
La Commissione europea, in particolare:
1) ha censurato per contrarietà all’articolo 56 del TFUE e all’articolo 16 della direttiva servizi (direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006) la norma dettata dall’articolo 203, comma 4, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (codice della proprietà industriale), che impone ai consulenti che abbiano il domicilio professionale in uno Stato membro dell’Unione europea e vogliano esercitare la propria attività anche in Italia di eleggere domicilio esclusivo in Italia al momento della loro iscrizione all’albo nazionale dei consulenti in proprietà industriale abilitati;
2) ha contestato la mancanza di un raccordo tra l’articolo 201 dello stesso decreto legislativo n. 30 del 2005 e la normativa in materia di riconoscimento delle qualifiche, in ordine al regime applicabile ai prestatori transfrontalieri.
Questo secondo rilievo è stato risolto con l’adozione del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, che ha disposto, con l’articolo 87, comma 1, l’introduzione del comma 4-bis all’articolo 201 e, con l’articolo 87, comma 2, la modifica dell’articolo 203, comma 3.
La modifica normativa prevista dall’articolo 3 del presente disegno di legge, abrogando la norma contestata nel primo rilievo della Commissione, rimuove l’obbligo di domiciliazione in Italia per i consulenti che abbiano il domicilio professionale in uno Stato membro dell’Unione europea.
Con il citato articolo viene, pertanto, risolto ogni addebito residuo sollevato dalla Commissione europea nei confronti della normativa italiana in materia.
L’articolo 4 è diretto a risolvere le contestazioni sollevate dalla Commissione europea nell’ambito del caso EU Pilot 4277/12/MARK, in materia di guide turistiche, per violazione degli obblighi imposti dalla citata direttiva servizi (2006/123/CE).
Con nota 6 settembre 2012, infatti, la Commissione europea ha rilevato l’esistenza di norme in materia di guide turistiche in contrasto con l’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva servizi laddove la legislazione nazionale prevede che l’abilitazione all’esercizio della professione di guida turistica abbia validità solo nella regione o provincia di rilascio, precludendo, pertanto, alle guide la possibilità di esercitare la professione a livello nazionale. Sulla base del principio di tolleranza zero riguardo alle violazioni della direttiva servizi, la Commissione ha chiesto, con nota del 13 febbraio 2013, un calendario dettagliato relativo alle iniziative intraprese per la definizione di un intervento normativo in materia.
Con l’articolo 4 in questione, dunque, si consente alle guide turistiche, abilitate ad esercitare la propria professione in altri Stati membri, di operare in regime di libera prestazione di servizi su tutto il territorio nazionale italiano, senza la necessità di ulteriori autorizzazioni o abilitazioni, siano esse generali o specifiche.
Al riguardo, si fa presente che l’intera disciplina delle guide turistiche dovrebbe essere oggetto di un riordino normativo per definire i requisiti di accesso alla stessa in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Tuttavia, in attesa del predetto riordino normativo della materia, al fine di evitare l’apertura di una procedura di infrazione ai sensi dell’articolo 258 del TFUE, si è ravvisata la necessità di garantire, anche per l’esercizio della professione di guida turistica, l’applicazione della direttiva servizi su tutto il territorio nazionale.
In questo quadro, si è ritenuto opportuno anticipare, già in questa sede, la previsione generale della validità su tutto il territorio nazionale dell’abilitazione all’esercizio della professione di guida turistica anche per i professionisti italiani, onde evitare una disparità di trattamento rispetto ai professionisti appartenenti ad altri Stati membri.
L’articolo 5 modifica l’articolo 51 del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79, in materia di ordinamento e mercato del turismo, per porre rimedio ai profili di non corretto recepimento degli obblighi derivanti dall’articolo 7 della direttiva 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti «tutto compreso», sollevati dalla Commissione europea nell’ambito della procedura d’infrazione 2012/4094, avviata nei confronti della Repubblica Italiana ai sensi dell’articolo 258 del TFUE.
L’articolo 7 della direttiva stabilisce che «l’organizzatore e/o il venditore parte del contratto danno prove sufficienti di disporre di garanzie per assicurare, in caso di insolvenza o di fallimento, il rimborso dei fondi depositati e il rimpatrio del consumatore». La disposizione lascia ampia libertà agli Stati membri nella scelta delle misure da adottare per assicurare la copertura per intero dei rischi derivanti dall’insolvenza o dal fallimento dell’organizzatore del viaggio.
Il sistema italiano ha dato attuazione agli obblighi imposti dall’articolo 7 della direttiva con l’istituzione del Fondo nazionale di garanzia, previsto dall’articolo 51, comma 1, del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79, il quale stabilisce che «Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ... opera il fondo nazionale di garanzia, per consentire, in caso di insolvenza o di fallimento del venditore o dell’organizzatore, il rimborso del prezzo versato ed il rimpatrio del consumatore nel caso di viaggi all’estero, nonché per fornire una immediata disponibilità economica in caso di rientro forzato di turisti da Paesi extracomunitari in occasione di emergenze, imputabili o meno al comportamento dell’organizzatore».
Il Fondo nazionale di garanzia per il consumatore di pacchetto turistico consente, pertanto, in caso di insolvenza e/o fallimento dell’organizzatore o venditore di rimborsare il prezzo versato ed il rimpatrio del consumatore nel caso di viaggi all’estero, nonché di fornire un’immediata disponibilità economica, in caso di rientro forzato da Paesi extracomunitari in occasioni di emergenze, imputabili o meno al comportamento dell’organizzatore.
Il Fondo nazionale di garanzia, gestito dal Dipartimento per gli affari regionali, il turismo e lo sport della Presidenza del Consiglio dei ministri, non dispone di alcuna dotazione a carico del bilancio dello Stato. Il relativo capitolo di bilancio (cap. 863) è riportato «per memoria» all’inizio di ogni esercizio finanziario e viene annualmente alimentato, a norma del comma 2 del predetto articolo 51 del decreto legislativo n. 79 del 2011, esclusivamente da una quota pari al 2 per cento dell’ammontare del premio delle polizze di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile verso il consumatore, di cui all’articolo 50, per il risarcimento dei danni di cui agli articoli 44, 45 e 47 del medesimo decreto legislativo. Queste somme vengono versate a cura delle compagnie di assicurazione su un apposito capitolo del Ministero dell’economia e delle finanze per essere poi riassegnate, previa richiesta del Dipartimento per gli affari regionali, il turismo e lo sport, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, al citato capitolo 863.
Il Fondo può contare quindi esclusivamente sulle somme che di volta in volta vengono riassegnate dal Ministero dell’economia e delle finanze, la cui media può stimarsi intorno ai 200.000/250.000 euro annui, affluenti ad intervalli di tempo non regolari e nemmeno prevedibili, tenuto conto della complessa e lunga procedura che deve seguirsi per le suddette riassegnazioni.
Le ordinarie risorse finanziarie disponibili con l’attuale sistema di alimentazione del Fondo non hanno potuto, pertanto, far fronte al notevole incremento delle istanze di rimborso causate, nel 2009, dal fallimento di due importanti tour operator italiani (Todomondo, Viaggi del Ventaglio).
Nell’ambito della procedura d’infrazione 2012/4094, la Commissione europea, nell’evidenziare l’incapacità del sistema italiano nel rispondere ed evadere le domande di rimborso degli acquirenti di pacchetti turistici dall’anno 2009, ha pertanto invitato le Autorità italiane ad adottare misure urgenti e decisive per rispettare gli obblighi imposti dalla direttiva 90/314/CEE. Ad avviso della Commissione, infatti, il Fondo nazionale come attualmente previsto dall’articolo 51 del decreto legislativo n. 79 del 2011 non è in grado di fornire una garanzia effettiva di rimborso per tutti gli importi versati e per il rimpatrio dei consumatori lasciati a terra. In particolare, l’alimentazione del Fondo, limitata al solo 2 per cento dell’ammontare del premio delle polizze di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile degli organizzatori e dei venditori di pacchetti turistici, si è dimostrata insufficiente a garantire il rispetto dell’obbligo di cui all’articolo 7 della direttiva.
Alla luce degli addebiti mossi dalla Commissione europea, l’articolo 5 in esame dispone pertanto l’aumento dal 2 per cento al 4 per cento della quota dell’ammontare del premio delle polizze di assicurazione obbligatoria come fonte di alimentazione del Fondo, anche al fine di stipulare dei contratti assicurativi che possano coprire l’eventuale differenza economica tra la disponibilità finanziaria del pertinente capitolo 863 del bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri e l’effettivo importo da rimborsare.
L’articolo 6 adegua la normativa nazionale a quella dell’Unione europea e supera le contestazioni mosse all’Italia nell’ambito del caso EU Pilot 1753/11/MARK, in particolare per quanto concerne la norma che impone la presenza di almeno un avvocato italiano nelle società tra avvocati. La Commissione europea ha, infatti, avviato una richiesta di informazioni in merito all’articolo 35, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96, il quale prevede che gli avvocati stabiliti, provenienti da altri Stati membri, possono essere soci di una società tra avvocati solo se almeno uno dei soci sia in possesso del titolo nazionale di avvocato. Tale previsione è stata ritenuta dalla Commissione contraria al diritto dell’Unione europea, in quanto impedisce agli avvocati di altri Stati membri, che desiderino stabilirsi in Italia utilizzando il loro titolo professionale di origine in conformità con la direttiva 98/5/CE, di costituire società tra professionisti che non annoverino tra i loro soci almeno un avvocato italiano.
Il citato caso EU Pilot è stato chiuso negativamente dal competente servizio della Commissione, che ha proposto l’avvio di una procedura di infrazione, ai sensi dell’articolo 258 del TFUE.
Occorre, pertanto, sopprimere, al comma 1 della norma sopra citata, la parte che impone la presenza del socio avvocato italiano nella società tra avvocati; conseguentemente, al comma 2, che concerne l’obbligo dell’avvocato stabilito di esercitare l’attività giudiziale d’intesa con un avvocato italiano -- obbligo previsto, per tre anni, per tutti gli avvocati comunitari «stabiliti», al fine di diventare avvocati «integrati» e poter, quindi, esercitare la professione alle stesse condizioni e secondo le stesse modalità previste per l’avvocato italiano -- è necessario eliminare il riferimento alla qualità di socio dell’avvocato italiano.
L’articolo 7 mira a prevenire l’avvio di una procedura di infrazione per erroneo recepimento della direttiva 2009/81/CE, relativa al coordinamento delle procedure per l’aggiudicazione di taluni appalti di lavori, di forniture e di servizi nei settori della difesa e della sicurezza da parte delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori.
L’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 208 del 2011 di recepimento della direttiva, infatti, ha erroneamente previsto che le procedure di aggiudicazione degli appalti nei settori della difesa e della sicurezza non si applichino ai contratti affidati nel quadro di accordi internazionali dei quali siano parti anche solo due o più Stati membri, laddove l’analoga previsione della direttiva (articolo 12, lettera a)) limita tale esclusione ai soli casi in cui gli accordi siano conclusi con la partecipazione di almeno uno Stato terzo.
Essendo evidente, pertanto, che l’attuale formulazione dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 208 del 2011 estende arbitrariamente l’ambito di applicazione delle esclusioni recate dalla direttiva, in aperta violazione della medesima, nonché dei principi generali in materia di appalti pubblici vigenti nell’ordinamento UE, è stato concluso con la Commissione europea un accordo formale per riallineare la disposizione in parola al testo della direttiva ed evitare il sicuro avvio di una procedura di infrazione.
L’inserimento di tale norma nel presente disegno di legge si giustifica ai sensi dell’articolo 30, comma 3, lettera a), della legge n. 234 del 2012 (disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea).
L’articolo 8 modifica la disciplina in materia di accesso ai posti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni per i familiari di cittadini dell’Unione, per i soggiornanti di lungo periodo e i titolari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, al fine di porre rimedio ai profili di non conformità della disciplina italiana sollevati dalla Commissione europea nell’ambito dei casi EU Pilot 1769/11/JUST e 2368/11/HOME con riferimento alle violazioni delle direttive 2004/38/CE, 2003/109/CE e 2004/83/CE.
Nell’ambito di detti casi, le Autorità italiane hanno sostenuto la piena compatibilità dell’ordinamento interno col diritto dell’Unione europea; tuttavia le argomentazioni proposte sono state ritenute dalla Commissione europea non soddisfacenti ai fini del superamento dei rilievi mossi. I casi in oggetto sono pertanto prossimi al passaggio a procedura d’infrazione ai sensi dell’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Nell’ambito del caso EU Pilot 1769/11/JUST, la Commissione europea ha rilevato la non conformità dell’articolo 38, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, alla direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, nella parte in cui non prevede la possibilità di accedere ai posti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni italiane per i cittadini di Stati terzi che siano familiari di cittadino dell’Unione europea. La Commissione ha infatti ricordato che con l’entrata in vigore della direttiva 2004/38/CE anche i familiari di un cittadino dell’Unione che abbiano la cittadinanza di un Paese terzo hanno diritto di accedere a un’attività economica subordinata (articolo 23 della direttiva). Ad essi si estendono i diritti goduti dai cittadini di uno Stato membro, a condizioni di parità con i cittadini nazionali (articolo 24). Di conseguenza i cittadini di uno Stato terzo che siano familiari di un cittadino dell’Unione e che siano titolari del permesso di soggiorno o del diritto di soggiorno hanno lo stesso diritto dei lavoratori migranti dell’Unione di accedere ai posti alle dipendenze della amministrazioni pubbliche dello Stato membro ospitante. Ai sensi dell’articolo 45, paragrafo 4, del TFUE, come interpretato dalla Corte di giustizia, gli Stati membri hanno il diritto di riservare ai cittadini nazionali solo quegli impieghi presso la pubblica amministrazione che implicano, in modo diretto o indiretto, la partecipazione all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre autorità pubbliche. Tali criteri vanno valutati caso per caso, in relazione alla natura dei compiti e delle responsabilità richieste dal posto. Tutti i posti presso le pubbliche amministrazioni che non soddisfano tali criteri devono pertanto essere resi disponibili per i cittadini dell’Unione e quindi anche per i cittadini di Stati terzi loro familiari e titolari del diritto di soggiorno.
Alla luce di ciò, il comma 1, lettera a), dell’articolo 8 del presente disegno di legge modifica l’articolo 38, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001 al fine di garantire l’accesso ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale, non solo ai cittadini delll’Unione ma anche ai «loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente».
Inoltre, nell’ambito del caso EU Pilot 2368/11/HOME, la Commissione ha lamentato la non compatibilità dell’ordinamento nazionale alla direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, nella misura in cui quest’ultimo non riconosce al cittadino di uno Stato terzo, che sia soggiornante di lungo periodo, lo stesso diritto di accedere al pubblico impiego previsto per i cittadini nazionali e i cittadini di uno Stato membro dell’Unione. La Commissione europea ha altresì richiamato le Autorità italiane ad una corretta applicazione del diritto dell’Unione europea, al fine di garantire ai beneficiari di protezione sussidiaria l’esercizio del diritto all’accesso al pubblico impiego senza discriminazioni. È opportuno ricordare che, con riferimento ai cittadini di Stati terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, a norma dell’articolo 11 della direttiva 2003/109/CE, gli stessi devono godere dello stesso trattamento previsto per i cittadini nazionali per quanto riguarda l’esercizio di un’attività lavorativa subordinata, purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di retribuzione. Il citato articolo 11, al paragrafo 3, lettera a), prevede una deroga al diritto alla parità di trattamento, stabilendo che gli Stati membri «possono fissare limitazioni all’accesso al lavoro subordinato o autonomo nei casi in cui la legislazione nazionale o la normativa comunitaria in vigore riservino dette attività ai cittadini dello Stato in questione, dell’UE o del SEE». Da tali disposizioni consegue che al soggiornante di lungo periodo deve essere garantito lo stesso accesso al pubblico impiego riconosciuto ai cittadini dello Stato interessato, salvo nel caso di:
-- attività che implichino la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri, anche in via occasionale;
-- attività che la legislazione nazionale o la normativa dell’Unione riservino espressamente ai cittadini dello Stato in questione, dell’UE o del SEE, a condizione che tale normativa fosse vigente alla data di entrata in vigore della direttiva 2003/109/CE.
Con riguardo invece ai titolari dello status di protezione sussidiaria, l’articolo 25, comma 2, del decreto legislativo n. 251 del 2007 di attuazione della direttiva 2004/83/CE garantisce la possibilità di accedere al pubblico impiego solo agli aventi lo status di rifugiato e non anche ai titolari dello status di protezione sussidiaria. Ai sensi dell’articolo 26, paragrafo 3, della direttiva sopra richiamata, gli Stati membri autorizzano i beneficiari dello status di protezione sussidiaria ad esercitare un’attività dipendente o autonoma nel rispetto della normativa generalmente applicabile alle professioni e agli impieghi nella pubblica amministrazione, non appena sia stato loro riconosciuto lo status di protezione sussidiaria. Ai sensi della predetta norma e alla luce di quanto ribadito dalla Corte di giustizia (causa C-149/79; causa C-290/94), al titolare dello status di protezione sussidiaria deve essere garantito lo stesso accesso al pubblico impiego riconosciuto ai cittadini dello Stato interessato, salvo nel caso di attività che implicano la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri o che abbiano ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato; attività temporaneamente escluse in considerazione della situazione esistente sul mercato del lavoro dello Stato membro.
Alla luce dei rilievi mossi dalla Commissione europea, sono state predisposte le modifiche di cui al comma 1, lettera b), dell’articolo 8 in esame, il quale aggiunge all’articolo 38 del decreto legislativo n. 165 del 2001 un ulteriore comma per far sì che le disposizioni in materia di accesso al pubblico impiego che riguardano i cittadini dell’Unione si applichino anche ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.
La modifica di cui al comma 2, infine, è stata predisposta per ragioni sistematiche e di chiarezza.
L’inserimento di tale articolo nel presente disegno di legge si giustifica ai sensi dell’articolo 30, comma 3, lettera c), della legge n. 234 del 2012 (disposizioni necessarie per dare attuazione o per assicurare l’applicazione di atti dell’Unione europea).
Il Capo II reca disposizioni in materia di fiscalità.
L’articolo 9 modifica il trattamento fiscale applicabile, ai fini dell’imposta erariale sugli aeromobili privati, agli aeromobili privati immatricolati all’estero in registri aeronautici diversi da quello nazionale tenuto dall’ENAC.
In particolare, nell’ambito del caso EU Pilot 3192/12/TAXU, è stato rilevato che la versione originaria del comma 14-bis dell’articolo 16 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, stabiliva l’applicazione dell’imposta anche agli aeromobili esteri a seguito di una sosta sul territorio italiano superiore a 48 ore. Successivamente, con l’articolo 3-sexies, comma 1, lettera c), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, detto termine è stato esteso a 45 giorni.
Al riguardo, la Commissione europea ha fatto notare che, nonostante detta estensione, la norma violerebbe l’articolo 3 della direttiva 83/182/CEE del Consiglio, del 28 marzo 1983, che impone agli Stati membri, per un periodo di sei mesi, l’applicazione di una franchigia da qualsiasi imposta di consumo in caso di importazione temporanea di aerei da turismo.
Pertanto, al fine di evitare l’apertura di una procedura d’infrazione, è stato predisposto l’articolo in questione, con il quale, sostanzialmente, si eleva il presupposto impositivo a sei mesi prescrivendo l’applicazione dell’imposta solo al superamento di detto limite.
L’articolo 10 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di monitoraggio fiscale (in particolare il decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, e il decreto legislativo 19 novembre 2008, n. 195) al fine di renderla più proporzionale agli obiettivi perseguiti dallo Stato, così come richiesto dalla Commissione europea nell’ambito del caso EU Pilot 1711/11/TAXU.
In particolare, il comma 1 reca le seguenti modifiche al decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito, con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227.
Articolo 1: alcuni operatori, fra i quali i money transfer (articolo 11, comma 1, lettere c) e c-bis), del decreto legislativo n. 231 del 2007), finora non tenuti agli adempimenti di cui all’articolo 1 del decreto-legge n. 167 del 1990, vengono compresi nell’ambito applicativo della normativa sul monitoraggio a fini fiscali dei flussi transfrontalieri.
Sarebbero monitorate tutte le operazioni di valore pari o superiore a 15.000 euro (limite stabilito nell’ambito della disciplina antiriciclaggio) anche nel caso di operazioni che appaiono fra loro collegate, cosiddette operazioni frazionate.
Ai sensi delle disposizioni vigenti i trasferimenti verso l’estero effettuati tramite intermediari italiani da soggetti non residenti sono «monitorati» ai sensi del comma 4-bis dell’articolo 1 del predetto decreto-legge. La finalità di tale previsione è quella di impedire che vengano usati come prestanome soggetti non sottoposti al monitoraggio. Le modalità di monitoraggio di tali flussi transfrontalieri si differenziano da quelle previste nel caso di operazioni messe in essere da soggetti residenti e richiedono apposite e costose modalità di lavorazione. Inoltre, i particolari limiti ai trasferimenti posti da tale disposizione appaiono difficilmente verificabili. Si ricorda che i trasferimenti da parte di soggetti non residenti possono essere effettuati solo «nei limiti dei trasferimenti dall’estero complessivamente effettuati o ricevuti, e dei corrispettivi o altri introiti realizzati in Italia».
Per effetto della proposta normativa in oggetto, i trasferimenti effettuati da soggetti non residenti sarebbero monitorati analogamente a quelli effettuati da soggetti italiani, utilizzando gli stessi programmi con notevole snellimento degli adempimenti degli intermediari.
In sostanza, la normativa sul monitoraggio a fini fiscali risulterebbe allineata a quella sull’antiriciclaggio mutuandone i presupposti applicativi e, quindi, evitando, con riferimento alle medesime operazioni, la raccolta di dati diversi.
Inoltre, in tal modo, vi sarebbe un’unica soglia al di sopra della quale gli intermediari sarebbero tenuti agli adempimenti sia ai fini dell’antiriciclaggio che del monitoraggio fiscale. Il limite sarebbe, quindi, unificato con riferimento ai trasferimenti di valore pari o superiore a 15.000 euro, anche per quanto concerne l’obbligo di rilevare e segnalare le operazioni frazionate.
Articolo 2: poiché la Commissione europea, nell’ambito del caso EU Pilot 1711/11/TAXU, ha contestato l’utilità del vigente articolo 2 (Trasferimenti attraverso non residenti) -- concernente l’indicazione nella dichiarazione dei redditi dei trasferimenti da o verso l’estero effettuati senza il tramite degli intermediari indicati nel comma 1 dell’articolo 1 dello stesso decreto-legge n. 167 del 1990 -- e la proporzionalità delle relative sanzioni, indicate nell’articolo 5, comma 2, i vigenti contenuti della norma vengono eliminati e, di conseguenza, verrà eliminata la sezione I del modulo RW della dichiarazione dei redditi. Risulteranno diminuiti gli adempimenti per i contribuenti, in linea con quanto richiesto dalla Commissione europea.
La nuova norma ha l’obiettivo di dare concreta attuazione alle disposizioni di contrasto delle frodi internazionali consentendo all’Agenzia delle entrate di richiedere agli intermediari i dati e le notizie relative ad operazioni finanziarie con l’estero, da chiunque poste in essere.
Articolo 4: con le modifiche proposte a tale norma, sono tenuti alla dichiarazione delle attività detenute all’estero, non solo i possessori «formali» delle stesse, ma anche i soggetti che possono essere considerati «titolari effettivi» ai sensi della normativa sul monitoraggio. Pertanto, la dichiarazione sarebbe dovuta anche nei casi in cui le attività e gli investimenti esteri, pur essendo formalmente intestati ad entità giuridiche (ad esempio società, fondazioni, o trust), siano riconducibili a persone fisiche o altri soggetti residenti tenuti agli obblighi dichiarativi di cui all’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990 in qualità di titolari effettivi dell’entità nell’accezione utilizzata ai fini della normativa antiriciclaggio.
Al riguardo, ai sensi dell’articolo 2 dell’allegato tecnico del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, per «titolare effettivo» si intende:
«a) in caso di società:
1) la persona fisica o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedano o controllino un’entità giuridica, attraverso il possesso o il controllo diretto o indiretto di una percentuale sufficiente delle partecipazioni al capitale sociale o dei diritti di voto in seno a tale entità giuridica, anche tramite azioni al portatore, purché non si tratti di una società ammessa alla quotazione su un mercato regolamentato e sottoposta a obblighi di comunicazione conformi alla normativa comunitaria o a standard internazionali equivalenti; tale criterio si ritiene soddisfatto ove la percentuale corrisponda al 25 per cento più uno di partecipazione al capitale sociale;
2) la persona fisica o le persone fisiche che esercitano in altro modo il controllo sulla direzione di un’entità giuridica;
b) in caso di entità giuridiche quali le fondazioni e di istituti giuridici quali i trust, che amministrano e distribuiscono fondi:
1) se i futuri beneficiari sono già stati determinati, la persona fisica o le persone fisiche beneficiarie del 25 per cento o più del patrimonio di un’entità giuridica;
2) se le persone che beneficiano dell’entità giuridica non sono ancora state determinate, la categoria di persone nel cui interesse principale è istituita o agisce l’entità giuridica;
3) la persona fisica o le persone fisiche che esercitano un controllo sul 25 per cento o più del patrimonio di un’entità giuridica».
Viene inoltre soppresso l’obbligo di indicare l’ammontare dei trasferimenti da, verso e sull’estero che nel corso dell’anno hanno interessato le attività detenute all’estero, attualmente previsto dal comma 2 dell’articolo 4 del decreto-legge n. 167 del 1990. In pratica è eliminata, nel modulo RW della dichiarazione dei redditi, la sezione III con evidenti vantaggi di semplificazione degli adempimenti, in linea con quanto indicato dalla Commissione europea.
È altresì stabilito che su tutti i redditi di capitale e sui redditi diversi gli intermediari indicati dalla normativa antiriciclaggio, ai quali le attività sono affidate in gestione, custodia o amministrazione, debbano applicare le previste ritenute. La norma prevede l’introduzione dell’imposizione tramite ritenuta (a titolo d’acconto) anche per tutte le tipologie di redditi di capitale sinora sottoposte ad imposizione solo nell’ambito della determinazione del reddito complessivo nella dichiarazione dei redditi.
Viene confermato al comma 3 il contenuto delle disposizioni introdotte dal comma 16-bis dell’articolo 8 del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, circa l’esonero dalla dichiarazione nei casi in cui le attività siano affidate in gestione o in amministrazione agli intermediari residenti e per i contratti conclusi attraverso il loro intervento, qualora i flussi finanziari e i redditi derivanti da tali attività e contratti siano riscossi attraverso l’intervento degli intermediari stessi. Peraltro, nei casi di gestione o amministrazione gli intermediari provvederanno a sottoporre ad imposizione i redditi ai sensi del comma 2 dell’articolo 4, nella nuova formulazione che se ne propone.
Articolo 5: le sanzioni relativamente alla violazione degli obblighi di dichiarazione di cui all’articolo 4 del decreto-legge n. 167 del 1990 sono state attenuate, in linea con le indicazioni della Commissione europea. Originariamente le sanzioni erano previste nella misura dal 5 al 25 per cento dell’ammontare degli importi non dichiarati ed era altresì prevista la confisca di beni di corrispondente valore.
Sono previste sanzioni particolarmente severe nel caso di attività detenute in Paesi a fiscalità privilegiata e non indicate nel modulo RW. Infatti viene confermato quanto disposto a questo riguardo dall’articolo 12 del decreto-legge n. 78 del 2009. Resta ugualmente immutata la previsione che per l’accertamento di tali violazioni i termini di cui all’articolo 43, primo e secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, e all’articolo 57, primo e secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, sono raddoppiati.
Lo stesso dicasi per il prolungamento dei termini di cui all’articolo 20 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, con riferimento alle le violazioni di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 4 del decreto-legge n. 167 del 1990, nel testo vigente.
Articolo 6: il riferimento attualmente vigente al «tasso ufficiale medio» è sostituito con quello al «tasso ufficiale di riferimento vigente in Italia nel relativo periodo d’imposta».
Sono state introdotte, inoltre, disposizioni per i casi in cui le attività estere non sono produttive di redditi (ad esempio taluni conti correnti). Le stesse sono in linea con le indicazioni già date in sede di istruzioni al modulo RW (vedi colonna 4 della sezione II).
Il comma 2 introduce una modifica al decreto legislativo 19 novembre 2008, n. 195, al fine di prevedere la trasmissione telematica all’Agenzia delle entrate di tutte le informazioni raccolte dall’Agenzia delle dogane.
Si fa presente al riguardo che i dati contenuti nelle dichiarazioni di trasporto al seguito, ai sensi dell’articolo 3-ter del decreto-legge n. 167 del 1990, abrogato dalla lettera a) del comma 1 dell’articolo 13 del decreto legislativo 19 novembre 2008, n. 195, erano trasmesse all’amministrazione finanziaria.
Nella formulazione del vigente articolo 5 del decreto legislativo n. 195 del 2008 non si rinviene tale previsione. D’altra parte appare dubbio se le informazioni possano essere legittimamente fornite all’Agenzia delle entrate. Al riguardo si ritiene opportuno ripristinare la possibilità per l’Agenzia delle entrate di conoscere i dati dei trasferimenti al seguito, al fine di poter conoscere in maniera completa i trasferimenti complessivi effettuati, attraverso i vari canali, dai singoli contribuenti in modo da ricostruirne l’effettiva capacità contributiva.
Al comma 3 dello stesso articolo 10, infine, è stata inserita una modifica all’articolo 8 del decreto-legge 30 settembre 1983, n. 512, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 novembre 1983, n. 649, in base alla quale la ritenuta è operata dai soggetti residenti che intervengono nella riscossione dei proventi, anziché nel pagamento degli stessi.
L’articolo 11 abroga la norma, prevista dal comma 2 dell’articolo 10 della legge n. 448 del 2001, che accorda ai comuni la possibilità di ampliare l’oggetto dei contratti di affidamento del servizio di accertamento e riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge n. 448 del 2001, affidando ai medesimi concessionari anche la riscossione di altre entrate comunali, senza necessità di indire nuove gare, ma semplicemente con una nuova rinegoziazione dei medesimi contratti in essere.
L’abrogazione si rende necessaria a seguito di una specifica richiesta di informazioni da parte della Commissione europea, nell’ambito del caso EU Pilot 3452/12/MARKT, la quale ha sostenuto che tale fattispecie di affidamento diretto non rispetta il principio di libera concorrenza e può dare origine a violazioni concrete del diritto europeo sui contratti pubblici.
Per gli affidamenti in essere effettuati ai sensi dell’articolo 10, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, i servizi della Commissione si sono dimostrati disponibili ad accettare un periodo transitorio ragionevole per consentire agli enti locali di organizzare le procedure ad evidenza pubblica per gli affidamenti delle attività di riscossione che non erano oggetto dei contratti originari con le società concessionarie.
A tal fine, il secondo comma dello stesso articolo 11 introduce il termine dell’ultimo giorno del terzo mese successivo alla data di entrata in vigore della legge, per la cessazione degli affidamenti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa.
Al riguardo si stima che la disposizione non determina effetti finanziari.
Il Capo III contiene disposizioni in materia di lavoro e politica sociale.
L’articolo 12 reca disposizioni volte al corretto recepimento della direttiva 1999/63/CE del Consiglio, relativa all’accordo sull’organizzazione dell’orario di lavoro della gente di mare concluso dall’Associazione armatori della Comunità europea (ECSA) e dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell’Unione europea (FST), al fine di sanare il caso EU Pilot 3852/12/EMPL.
In particolare, la clausola 5, paragrafo 6, dell’Accordo europeo allegato alla predetta direttiva -- richiamato nella nota della Commissione europea del 7 settembre 2012, con la quale è stato aperto il progetto pilota -- prevede che, con il dovuto rispetto dei princìpi generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, gli Stati membri possano applicare normative nazionali, regolamenti o procedure che consentono alle autorità competenti di autorizzare o registrare contratti collettivi che consentono deroghe ai limiti fissati dalla medesima clausola 5 in materia di durata dell’orario di lavoro o di riposo della gente di mare.
Sul piano del diritto interno, invece, l’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999 -- come sostituito dall’articolo 7, comma 2, della legge n. 183 del 2010 (cosiddetto «collegato lavoro») -- stabilisce che le disposizioni previste dal medesimo articolo 11 in materia di orario di lavoro e di riposo a bordo delle navi mercantili possono essere derogate mediante contratti collettivi -- per i quali non viene prevista né l’autorizzazione né la registrazione -- stipulati a livello nazionale dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (in assenza di specifiche disposizioni nei contratti collettivi nazionali, le deroghe possono essere stabilite nei contratti territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale). Il testo attualmente in vigore della disposizione sopra citata, inoltre, non richiama più, a differenza del testo previgente, i princìpi generali in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
Ciò posto, la novella legislativa che si propone ripristina l’autorizzazione per le deroghe in materia di orario di lavoro e di riposo -- già prevista dal testo previgente dell’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999 -- ed apporta ulteriori modifiche a quest’ultima disposizione, al fine di corrispondere alle osservazioni della Commissione europea.
Nello specifico, la disposizione di cui al comma 1, lettera a), dell’articolo 11 del disegno di legge è finalizzata a rendere più chiaro l’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 271 del 1999, integrando la definizione di «lavoratore marittimo» di cui all’articolo 3, comma 1, lettera n), del citato decreto legislativo. Quest’ultima disposizione attualmente definisce lavoratore marittimo «qualsiasi persona facente parte dell’equipaggio che svolge, a qualsiasi titolo, servizio o attività lavorativa a bordo di una nave o unità mercantile o di una nave da pesca».
La disposizione che si propone specifica che il lavoratore marittimo in questione appartiene alla categoria della gente di mare di cui agli articoli 114, lettera a), e 115 del codice della navigazione.
In tal modo, viene chiarito che rientra nell’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 271 del 1999 solamente il personale appartenente alla categoria della gente di mare e non il personale addetto ai servizi dei porti, anche al fine di corrispondere ad uno specifico rilievo formulato dalla Commissione europea nella nota del 6 febbraio 2013 (sul quale si rimanda al prosieguo della presente relazione illustrativa).
Infatti, l’articolo 114 cod. nav. prevede la distinzione del personale marittimo in «gente di mare» (categoria poi più ampiamente descritta in seno all’articolo 115 cod. nav.), «personale addetto ai servizi dei porti» (articolo 116 cod. nav.) e «personale tecnico delle costruzioni navali» (articolo 117 cod. nav.).
Pertanto, i lavoratori marittimi classificati quali «gente di mare» sono distinti nettamente dai lavoratori portuali ovvero dagli addetti alle operazioni portuali, tra i quali vanno annoverati gli appartenenti alle imprese di cui agli articoli 16, 17 e 18 della legge n. 84 del 1994 e ai quali si applica, invece, il regime previsto dalla direttiva 2003/88/CE. Gli addetti alle operazioni portuali -- o lavoratori portuali -- sono lavoratori preposti alle attività del cosiddetto ciclo delle operazioni portuali, ovvero al complesso delle attività collegate alla movimentazione del carico delle navi, nelle quali rientrano una pluralità di «segmenti» di attività -- caricazione, discarica, rizzaggio/derizzaggio delle merci a bordo, caricazione su altre modalità di trasporto (ferrovia, gomma) -- accomunate dalla circostanza che le stesse si svolgono a ciglio banchina e nell’ambito portuale. È pacifico, pertanto, che a tali lavoratori si applichi la direttiva principale sull’orario di lavoro e cioè la direttiva 2003/88/CE, tenuto conto che le mansioni svolte e le caratteristiche proprie dell’attività non sono tali da giustificare alcuna deroga al ricorso alla disciplina generale applicata a lavoratori di ambiti sostanzialmente affini che si svolgano nell’ambito di cantieri o altri insediamenti produttivi di carattere industriale e/o commerciale.
La disposizione di cui al comma 1, lettera b), dello stesso articolo 11 è volta, come già accennato, a ripristinare l’autorizzazione ministeriale per i contratti collettivi che prevedono deroghe in materia di orario di lavoro o di riposo a bordo delle navi mercantili, unitamente al richiamo ai princìpi generali in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, conformemente a quanto stabiliva il citato articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999 nella formulazione previgente alle modifiche operate dal «collegato lavoro». Tale testo, infatti, disponeva che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, tenuto conto dei princìpi generali di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, potesse autorizzare contratti collettivi che consentivano di derogare ai limiti fissati dal medesimo articolo 11 in materia di orario di lavoro o di riposo a bordo delle navi mercantili. La formulazione in esame, infatti, era conforme alla disciplina comunitaria e, pertanto, deve essere ora ripristinata, come è stato richiesto dalla Commissione europea con nota del 7 settembre 2012.
La Commissione europea, inoltre, con nota del 6 febbraio 2013 ha richiesto di eliminare dal testo dell’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999 la previsione che il ricorso alle deroghe debba essere contenuto (la quale non è presente nella clausola 5, paragrafo 6, dell’Accordo europeo allegato alla direttiva 1999/63/CE), nonché di inserirvi la precisazione che le deroghe devono attenersi, per quanto possibile, ai modelli generali (conformemente a quanto previsto dalla sopra citata clausola 5, paragrafo 6). Pertanto, al fine di corrispondere ai predetti rilievi della Commissione, il comma 1, lettera b), dell’articolo in esame non riproduce più la previsione che il ricorso alle deroghe debba essere contenuto e stabilisce, invece, che le deroghe debbono, nella misura del possibile, rispettare i modelli fissati dai commi 2 e 3 del medesimo articolo 11 del decreto legislativo n. 271 del 1999 in materia di orario di lavoro e di riposo a bordo delle navi mercantili.
Viene precisato altresì, sempre al comma 1, lettera b), che le deroghe debbono consentire la fruizione di periodi di riposo più frequenti o più lunghi o la concessione di riposi compensativi anche per i lavoratori marittimi addetti alla guardia. Nella nota della Commissione europea del 7 settembre 2012, infatti, si fa espresso riferimento a tale categoria di lavoratori, la quale viene contemplata dalla clausola 5, paragrafo 6, dell’Accordo europeo allegato alla predetta direttiva, ma non dal testo attualmente in vigore dell’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999 e neanche dal testo di quest’ultima disposizione previgente alla modifica introdotta con il collegato lavoro.
Con riferimento, invece, all’altra categoria di lavoratori marittimi menzionata nella nota della Commisione europea del 7 settembre 2012 e contemplata dalla clausola 5, paragrafo 6, sopra citata -- ossia la gente di mare operante a bordo di navi su brevi rotte -- si ritiene che a tale categoria sia assimilabile il riferimento ai lavoratori marittimi che «operano a bordo di navi impiegate in viaggi di breve durata», già presente nel testo attualmente in vigore dell’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999 e non modificato dalla disposizione che si propone.
Nella nota della Commissione del 6 febbraio 2013, inoltre, viene formulato un rilievo con riferimento alla previsione, contenuta nel testo attualmente in vigore dell’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999, in base alla quale le deroghe debbono consentire la fruizione di periodi di riposo più frequenti o più lunghi o la concessione di riposi compensativi, tra l’altro, «per lavoratori marittimi che operano a bordo di navi [...] adibite a servizi portuali». La Commissione osserva, infatti, che la clausola 5, paragrafo 6, dell’Accordo europeo allegato alla direttiva 1999/63/CE non fa riferimento ai lavoratori addetti ai servizi portuali, ai quali si applica, invece, la direttiva principale sull’orario di lavoro, e cioè la direttiva 2003/88/CE.
A tale proposito, va rilevato che nella prassi amministrativa seguita nell’ordinamento interno il sopra citato articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999 non è mai stato applicato ai lavoratori portuali, i quali, infatti, sono destinatari della normativa interna di recepimento della direttiva 2003/88/CE. La disposizione in esame, invece, viene applicata, tra gli altri, ai lavoratori marittimi operanti a bordo di determinate tipologie di navi, come i rimorchiatori, le quali solo in parte navigano nelle acque portuali e nelle loro adiacenze, essendo prevalentemente impiegate in operazioni di marina mercantile di vario tipo.
Ad ogni modo, al fine di evitare l’insorgere di ogni possibile equivoco sull’ambito di applicazione dell’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo n. 271 del 1999, la disposizione di cui al comma 1, lettera b), dell’articolo che si propone non riproduce più la previsione -- presente nel testo attualmente in vigore del sopra citato articolo 11, comma 7 -- in base alla quale le deroghe debbono consentire la fruizione di periodi di riposo più frequenti o più lunghi o la concessione di riposi compensativi, tra l’altro, «per lavoratori marittimi che operano a bordo di navi [...] adibite a servizi portuali».
La disposizione in esame, inoltre, introduce una sorta di «norma di chiusura», in base alla quale le deroghe in materia di orario di lavoro o di riposo a bordo delle navi mercantili, previste dalla contrattazione collettiva, possono contemplare la fruizione di periodi di riposo più frequenti o più lunghi o la concessione di riposi compensativi in funzione delle peculiari tipologie o condizioni di impiego della nave su cui il lavoratore marittimo è imbarcato. La disposizione in questione è volta a tutelare i lavoratori marittimi i quali, nella generalità dei casi, possono essere esposti all’effettuazione di orari particolarmente faticosi e che non rientrano (o non sempre rientrano) nelle altre ipotesi contemplate dall’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 271, come modificato dalla disposizione che si propone (le quali sono costituite, come si è detto, dai lavoratori marittimi addetti alla guardia e dai lavoratori marittimi che operano a bordo di navi impiegate in viaggi di breve durata).
La disposizione di cui al comma 2 dell’articolo in esame, infine, reca una norma di carattere transitorio, concernente i contratti collettivi stipulati a decorrere dal 24 novembre 2010 che abbiano stabilito deroghe ai sensi dell’articolo 11, comma 7, del decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 271, come sostituito dall’articolo 7, comma 2, della legge 4 novembre 2010, n. 183. Viene previsto, a tale riguardo, che i predetti contratti collettivi debbano essere sottoposti all’autorizzazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Qualora l’autorizzazione non venga richiesta, ovvero non venga concessa, le clausole dei contratti collettivi, le quali abbiano stabilito le deroghe sopra menzionate, perdono efficacia.
L’articolo 13 mira a sanare la procedura d’infrazione 2010/2045 -- attualmente allo stadio di parere motivato ex articolo 258 del TFUE -- relativa alla non conformità dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 368 del 2001 ai requisiti della clausola 7 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE (relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato).
In tale procedura di infrazione, la Commissione ha contestato il fatto che l’articolo 8 citato -- nel prevedere che, ai fini di cui all’articolo 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cosiddetto «statuto dei lavoratori»), i lavoratori con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi -- si pone in contrasto con la clausola 7 dell’Accordo quadro, la quale impone agli Stati membri di prendere in considerazione i lavoratori a tempo determinato in sede di calcolo della soglia oltre la quale, ai sensi delle disposizioni nazionali, possono costituirsi gli organi di rappresentanza dei lavoratori nelle imprese previsti dalle normative europee e nazionali.
La Commissione, infatti, osserva che l’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE non prevede alcun periodo minimo di durata del contratto di lavoro a tempo determinato e non contempla deroghe. Pertanto, la circostanza che la legislazione nazionale italiana stabilisca una durata contrattuale minima ha l’effetto di escludere lavoratori con contratto a tempo determinato dal conteggio ai fini delle soglie, anche se in uno stabilimento è presente un gran numero di essi (come è noto, ai sensi dell’articolo 35, primo comma, della legge n. 300 del 1970, per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni del titolo III della medesima legge, relativo all’attività sindacale, si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti e alle imprese agricole che occupano più di cinque dipendenti).
Nella summenzionata procedura di infrazione 2010/2045, la Commissione contesta, altresì, il non corretto recepimento dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2002/14/CE, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori (e che nell’ordinamento interno si applica a tutte le imprese che impiegano almeno 50 lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 25 del 2007).
Secondo la Commissione, infatti, l’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 25 del 2007 -- nella parte in cui prevede che i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato sono computabili, ai fini della soglia numerica occupazionale, ove il contratto abbia durata superiore ai nove mesi -- si pone in contrasto con la predetta direttiva, poiché quest’ultima, pur consentendo agli Stati membri, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di determinare le modalità di calcolo delle soglie dei lavoratori impiegati, impone, tuttavia, di tener conto in tale calcolo della definizione stessa della nozione di lavoratore di cui all’articolo 2, lettera d), della medesima direttiva, ossia di «ogni persona che nello Stato membro interessato è tutelata come un lavoratore nell’ambito del diritto nazionale del lavoro». Pertanto, la norma nazionale, ad avviso della Commissione, avrebbe l’effetto di escludere dal computo della soglia numerica occupazionale una determinata categoria di lavoratori (ossia i lavoratori con contratto a tempo determinato di durata pari o inferiore a nove mesi), in contrasto con la definizione della nozione di lavoratore fornita dalla direttiva in esame.
Ciò posto, la disposizione di cui al comma 1, al fine di recepire correttamente la direttiva 1999/70/CE, sostituisce l’articolo 8 del decreto legislativo n. 368 del 2001. La modifica è finalizzata ad espungere la disposizione, attualmente vigente, la quale prevede che i lavoratori con contratto a tempo determinato sono computabili soltanto nel caso in cui il contratto abbia durata superiore a nove mesi.
Pertanto, in base alla nuova formulazione dell’articolo 8, tutti i lavoratori a tempo determinato verranno computati, pro rata temporis, ai fini delle soglie occupazionali contemplate dall’articolo 35 dello statuto dei lavoratori. Viene previsto, infatti, il criterio di computo che si basa sul «numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro».
A tale riguardo, va osservato che il criterio di computo consistente nel numero medio di lavoratori impiegati negli ultimi due anni è previsto espressamente, a livello europeo, dall’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2009/38/CE, riguardante l’istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie. Tale direttiva è stata attuata, nel nostro ordinamento, con il decreto legislativo n. 113 del 2012, il cui articolo 2, comma 2, recita: «Ai fini del presente decreto, le soglie minime prescritte per il computo dei dipendenti si basano sul numero medio ponderato mensile di lavoratori impiegati negli ultimi due anni».
La disposizione, pertanto, si pone in linea con la normativa europea, nonché con quella nazionale già in vigore.
La disposizione di cui al comma 2, al fine di recepire correttamente la direttiva 2002/14/CE, modifica l’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 25 del 2007. Va osservato, a tale riguardo, che il testo attualmente in vigore dell’articolo 3, comma 2, citato recita: «La soglia numerica occupazionale è definita nel rispetto delle norme di legge e si basa sul numero medio ponderato mensile dei lavoratori subordinati impiegati negli ultimi due anni. I lavoratori occupati con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto abbia durata superiore ai nove mesi. Per i datori di lavoro pubblici o privati che svolgono attività di carattere stagionale, il periodo di nove mesi di durata del contratto a tempo determinato si calcola sulla base delle corrispondenti giornate lavorative effettivamente prestate, anche non continuative».
La modifica che si propone è finalizzata a riformulare il testo del citato articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 25 del 2007, sopprimendo il secondo ed il terzo periodo ed espungendo, in tal modo, la previsione che i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato sono computabili soltanto nel caso in cui il contratto abbia durata superiore ai nove mesi. Pertanto, per effetto della modifica in esame, sia i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (come è già previsto dalla norma attualmente in vigore), che quelli con contratto a tempo determinato -- qualunque sia la durata del contratto -- verranno computati in base al criterio del numero medio mensile dei lavoratori impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.
La disposizione di cui al comma 3 reca una norma di carattere transitorio, finalizzata a rendere più agevole ai datori di lavoro, sotto il profilo organizzativo e gestionale, l’applicazione delle nuove disposizioni introdotte dai commi 1 e 2 dello stesso articolo 13 del presente disegno di legge.
Si precisa che ai fini della predisposizione dell’articolo in esame il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha provveduto a consultare le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro, ai sensi della clausola 7, paragrafo 2, dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE.
L’articolo 14 è volto alla definizione della procedura di infrazione 2013/4009, relativa alla compatibilità di alcune disposizioni italiane con la direttiva 2003/109/CE in materia di status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, con particolare riguardo al diritto al sussidio per i nuclei familiari a basso reddito con almeno tre figli di età inferiore ai 18 anni.
Tale beneficio, istituito dall’articolo 65 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è una prestazione concessa dai comuni ed erogata dall’INPS in favore dei nuclei familiari composti da cittadini italiani residenti con almeno tre figli minori che risultino in possesso di risorse economiche non superiori al valore dell’indicatore della situazione economica (ISE). Successivamente, l’articolo 80 della legge n. 388 del 2000 ha esteso l’assegno in argomento ai cittadini dell’Unione europea residenti in Italia. L’articolo 27 del decreto legislativo n. 251 del 2007 (che ha recepito la direttiva 2004/83/CE) ha riconosciuto il diritto anche ai cittadini di Paesi terzi cui sia riconosciuto lo status di rifugiato politico o di protezione sussidiaria.
La Commissione europea, quindi, ha sollevato problemi di recepimento riguardo al principio della parità di trattamento nei settori dell’assistenza e protezione sociale dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo con i cittadini nazionali. Pertanto, la disposizione proposta è finalizzata ad estendere il beneficio in questione ai cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo o familiari dei cittadini di uno Stato membro e titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente.
Tale specificazione deriva, peraltro, dalla necessità di superare la contraria interpretazione sin qui invalsa nella pubblica amministrazione e, dunque, di coordinare la disciplina del beneficio in questione con quanto già previsto da due disposizioni di legge di portata generale:
-- l’articolo 9 del decreto legislativo n. 286 del 1998 -- come sostituito dall’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 3 del 2007, recante «Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo» -- il quale, al comma 12, lettera c), recita: «Oltre a quanto previsto per lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può (...) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l’accesso alla procedura per l’ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale»;
-- l’articolo 19 del decreto legislativo n. 30 del 2007, recante «Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare liberamente nel territorio degli Stati membri», che al comma 2, ultimo periodo, estende il beneficio della parità di trattamento rispetto ai cittadini italiani, anche in relazione alle prestazioni sociali -- riconosciuto ad ogni cittadino dell’Unione che risiede nel territorio nazionale -- ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente.
Il Capo IV reca disposizioni in materia di sanità pubblica.
L’articolo 15 modifica le sanzioni amministrative di cui all’articolo 7 del decreto legislativo 29 luglio 2003, n. 267, concernente «Attuazione della direttiva 1999/74/CE e della direttiva 2002/4/CE, per la protezione delle galline ovaiole e la registrazione dei relativi stabilimenti di allevamento», al fine di improntarle ai princìpi di effettività, proporzionalità e dissuasività, così come indicato nella raccomandazione n. 4 del rapporto finale dell’Ufficio ispettivo veterinario della Commissione europea (Food Veterinary Office - FVO).
La novella recata dall’articolo 15 è volta a sanare la procedura di infrazione 2011/2231, ormai allo stadio avanzato di parere motivato, avviata da parte della Commissione europea nei confronti dell’Italia per la non corretta applicazione degli articoli 3 e 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/74/CE, attestata dalla presenza sul territorio nazionale di allevamenti di galline ovaiole con gabbie non modificate, nonostante il divieto di utilizzo entrato in vigore il 1º gennaio 2012.
La revisione del sistema sanzionatorio è divenuta altresì ineludibile per la forte refrattarietà degli allevatori di galline ovaiole ad adeguare i propri allevamenti ai requisiti imposti dalla normativa europea, in quanto hanno ritenuto economicamente più vantaggioso non provvedere a tale adeguamento, esponendosi al rischio di pagamento della sanzione amministrativa dall’importo attualmente modesto, peraltro ulteriormente dimezzabile attraverso il pagamento in forma ridotta, che investire nella sostituzione delle gabbie non conformi.
In base alla normativa vigente, infatti, l’allevatore che, sanzionato per non aver adeguato il proprio allevamento, rinuncia ad impugnare il verbale di accertamento e paga entro sessanta giorni dalla contestazione, usufruisce della possibilità di pagare la sanzione amministrativa pecuniaria in forma ridotta. A ciò si aggiunge l’ulteriore beneficio che la «reiterazione» della violazione non sia considerata quale «recidiva», punibile con sanzioni amministrative pecuniarie dagli importi maggiorati, evitando, così, anche l’applicazione della «temibile» sanzione accessoria della sospensione dell’attività (articolo 7, comma 3, del decreto legislativo n. 267 del 2003 e articoli 8-bis, quinto comma, e 16 della legge n. 689 del 1981).
Le carenze dell’attuale sistema sanzionatorio hanno prodotto quale ulteriore effetto negativo quello della concorrenza sleale a scapito degli allevatori che hanno investito per adeguare i propri impianti.
Nel nuovo assetto sanzionatorio si è intervenuti sui limiti edittali delle sanzioni amministrative pecuniarie, raddoppiandoli in coerenza con quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di benessere animale per violazioni omogenee e di pari offensività e tenuto conto del vantaggio patrimoniale che l’infrazione arreca al proprietario/detentore; viene previsto il divieto di esercizio dell’attività negli allevamenti che utilizzano gabbie vietate dal 1º gennaio 2012 e in quelli che operano in assenza della prescritta registrazione; è introdotta la sospensione temporanea da uno a tre mesi in presenza della ripetizione della medesima violazione anche in caso di pagamento in forma ridotta delle sanzioni comminate in precedenza; è prevista la revoca della registrazione in caso di violazione del divieto e della sospensione temporanea di esercizio dell’attività di allevamento.
Dal presente articolo non derivano nuovi o maggiori oneri né minori entrate a carico della finanza pubblica dal momento che le Amministrazioni interessate provvedono all’adempimento dei compiti derivanti dalla sua attuazione con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Al contrario, la previsione di un importo maggiore delle sanzioni pecuniarie amministrative comporterà un maggiore gettito di entrata per la finanza pubblica.
L’articolo 16 è volto ad attuare le disposizioni del regolamento (UE) n. 528/2012, in materia di biocidi.
La norma ha l’obiettivo di garantire la piena applicabilità del regolamento medesimo, considerato che a partire dal 1º settembre 2013 la direttiva 98/8/CE in materia dei biocidi non troverà più applicazione, e con essa la normativa nazionale di recepimento, recata dal decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 174.
L’inapplicabilità del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 174, comporterebbe un vuoto normativo in materia di controlli, di autorità competente e di iter autorizzativi.
Contestualmente, le tariffe attualmente previste dal decreto ministeriale 16 aprile 2004, concernente «Determinazione delle tariffe relative al programma di revisione ed all’immissione in commercio di biocidi», non saranno più applicabili, con la conseguenza che, in assenza di un nuovo decreto che disciplini le tariffe previste per i servizi contemplati dalla nuova normativa, il Ministero della salute sarebbe costretto ad adottare provvedimenti autorizzativi senza alcuna retribuzione.
I primi due commi individuano il Ministero della salute, quale autorità competente, come titolare dell’attuazione degli adempimenti connessi al regolamento; i successivi tre commi, nella stessa ottica, prevedono l’adozione di decreti ministeriali per stabilire le tariffe di cui all’articolo 80 del regolamento e le relative modalità di versamento, in base al principio di copertura del costo effettivo del servizio, da aggiornare ogni tre anni, la disciplina dei controlli sul mercato e la disciplina dell’iter dei provvedimenti autorizzativi da parte del Ministero della salute. La norma non comporta oneri finanziari aggiuntivi per l’erario.
L’articolo 17 è teso a fornire al Ministero della salute gli strumenti necessari al fine di adeguare la normativa nazionale in materia di cosmetici al regolamento (CE) n. 1223/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 novembre 2009.
La norma si rende necessaria in quanto a decorrere della piena applicabilità del regolamento medesimo la direttiva 76/768/CE, che attualmente disciplina a livello europeo la materia dei cosmetici, non troverà più applicazione, e con essa la normativa di recepimento, di cui alla legge 11 ottobre 1986, n. 713.
L’inapplicabilità di tale legge comporterebbe un vuoto normativo in materia di controlli e di autorità competente.
I primi due commi dell’articolo 17 del presente disegno di legge individuano dunque il Ministero della salute, quale autorità competente, come titolare dell’attuazione degli adempimenti connessi al regolamento.
Il terzo e il quarto comma disciplinano la ripartizione delle competenze tra Ministero della salute ed enti territoriali.
Il quinto comma prevede l’adozione di un decreto ministeriale per la regolamentazione dei controlli sul mercato, mentre il sesto comma prevede analogo provvedimento per la disciplina degli adempimenti in materia di vigilanza e sorveglianza.
La norma non comporta oneri finanziari aggiuntivi per l’erario.
L’inserimento di tale articolo nel presente disegno di legge si giustifica ai sensi dell’articolo 30, comma 3, lettera c), della legge n. 234 del 2012 (disposizioni necessarie per dare attuazione o per assicurare l’applicazione degli atti dell’Unione europea).
L’articolo 18 è una disposizione particolare, che non comporta oneri né finanziari né amministrativi, relativa all’etichettatura dei prodotti alimentari, con cui si intende chiarire che qualora una sostanza allergenica sia già indicata nella denominazione di vendita del prodotto (ad esempio «latte in polvere») non è necessario che essa sia riportata anche nella relativa etichetta. Tale azione di chiarimento normativo, condotta attraverso la modifica del decreto legislativo n. 109 del 1992, di attuazione delle direttive 89/395/CEE e 89/396/CEE concernenti l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari, è conforme a quanto richiesto dalla Commissione europea nell’ambito della procedura di infrazione 2009/4583.
L’inserimento di tale articolo nel presente disegno di legge si giustifica ai sensi dell’articolo 30, comma 3, lettera c), della legge n. 234 del 2012 (disposizioni necessarie per dare attuazione o per assicurare l’applicazione degli atti dell’Unione europea).
L’articolo 19 colma una lacuna dell’ordinamento nazionale nella trasposizione della direttiva 2006/7/CE, relativa alla gestione della qualità delle acque di balneazione, per la quale è stata avviata la procedura di infrazione 2011/2217 ormai allo stadio di parere motivato ex articolo 258 del TFUE.
In particolare, la Commissione europea ha rilevato un profilo di non conformità tra l’articolo 13 del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 116, di recepimento della suddetta direttiva e l’articolo 10 della stessa, il quale prevede, in caso di impatto transfrontaliero del bacino idrografico sulla qualità delle acque di balneazione, una collaborazione tra Stati membri, anche mediante scambio di informazioni ed azioni comuni, atta a rimuovere gli ostacoli alla balneazione e a fornire adeguate informazioni ai bagnanti.
Il Capo V reca disposizioni in materia di ambiente.
L’articolo 20 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di valutazione e gestione dei rischi da alluvioni (decreto legislativo 23 febbraio 2010, n. 49) al fine di renderla più conforme alla direttiva 2007/60/CE, così come richiesto dalla Commissione europea nell’ambito della procedura d’infrazione 2012/2054, ormai allo stadio di parere motivato.
Nell’ambito della detta procedura la Commissione contesta la trasposizione non corretta, da una parte, dell’articolo 2, numero 1), e, dall’altra parte, dell’allegato, parte B.1), della direttiva 2007/60/CE. Per quanto riguarda la prima censura, la Commissione rileva che l’articolo 2 del decreto legislativo n. 49 del 2010, alla lettera a), esclude dalla nozione di «alluvione» gli «allagamenti non direttamente imputabili ad eventi meteorologici». Tale esclusione non è prevista dalla direttiva, che prevede solo la possibilità di escludere gli «allagamenti causati dagli impianti fognari». Per quanto riguarda la seconda censura, la Commissione rileva che all’allegato I, parte B, punto 1, del decreto legislativo n. 49 del 2010, il riferimento all’articolo 13 del decreto legislativo n. 49 del 2010, invece che all’articolo 12 relativo ai riesami della valutazione del rischio di alluvioni, non è corretto.
Pertanto, la modifica di cui alla lettera a) dell’articolo 20 del disegno di legge è volta ad escludere dalla definizione di alluvione solo gli allagamenti causati da impianti fognari, come richiesto dalla direttiva, mentre la modifica di cui alla lettera e) è volta a correggere un riferimento sbagliato all’articolo 12 anziché all’articolo 13.
Le altre modifiche introdotte mirano a rendere il testo del decreto legislativo più aderente a quello della direttiva 2007/60/CE.
L’articolo 21 reca alcune modifiche alla normativa nazionale in materia di gestione dei rifiuti delle industrie estrattive prevista dal decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117, adottato in attuazione della direttiva 2006/21/CE, volte a superare alcuni rilievi formulati dalla Commissione europea, nell’ambito della procedura d’infrazione 2011/2006, avviata nei confronti dello Stato italiano.
In particolare, le modifiche agli articoli 2 e 7 sono necessarie in quanto il riferimento all’articolo 11, comma 3, dello stesso decreto è errato mentre quello corretto, come ha rilevato la Commissione, è all’articolo 11, comma 6. Infatti, la direttiva in questione, all’articolo 2, paragrafo 3, fa riferimento all’articolo 11, paragrafi 1 e 3, ma il paragrafo 3 dell’articolo 11 della direttiva, relativo alla notifica all’autorità competente da parte dell’operatore in caso di eventi rilevanti, nella norma nazionale è stato trasposto appunto nel comma 6 dell’articolo 11.
Le altre modifiche apportate al decreto legislativo n. 117 del 2008 sono state richieste dalla Commissione europea per ovviare alla mancata o erronea trasposizione nello stesso decreto di recepimento di alcune parole o espressioni presenti nella direttiva 2006/21/CE. In particolare, si segnalano due modifiche, e precisamente quella che ha il fine di esplicitare che gli uffici presso i quali è possibile prendere visione degli atti e trasmettere le informazioni sono i medesimi dell’autorità competente e quella che si propone di chiarire che il «controllore» sia indipendente dal «controllato».
L’articolo 22 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di pile ed accumulatori e relativi rifiuti (articoli 1, 10, 11, 12, 23 e allegato II, Parte B, del decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188, come modificato dal decreto legislativo 11 febbraio 2011, n. 21, recante attuazione della direttiva 2006/66/CE), volte a superare i rilievi formulati dalla Commissione europea nell’ambito della procedura d’infrazione 2011/2218, ormai allo stadio di parere motivato ex articolo 258 del TFUE.
Il presente articolo:
inserisce nel decreto legislativo n. 188 del 2008 l’espresso divieto di immettere sul mercato pile ed accumulatori contenenti sostanze pericolose;
precisa che le operazioni di riciclaggio di rifiuti di pile e accumulatori possono essere effettuate anche fuori dal territorio nazionale o comunitario, solo se le relative spedizioni sono conformi alla normativa europea;
attribuisce al Ministero dell’ambiente la definizione di misure per la ricerca di metodi di riciclaggio ecocompatibili;
consente lo smaltimento in discarica o mediante incenerimento di taluni residui di rifiuti di pile e accumulatori;
estende la vigente disciplina in materia di etichettatura di pile e accumulatori.
L’articolo 23 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di riduzione dell’uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché in materia di smaltimento dei rifiuti - RAEE, previste all’allegato 1B del decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151.
Nell’ambito della procedura d’infrazione 2009/2264 avviata nei confronti dello Stato italiano, la Commissione ha rilevato che il decreto legislativo n. 151 del 2005 esclude dalle «procedure di smaltimento RAEE» gli elettrodomestici fissi di grandi dimensioni, gli apparecchi di condizionamento dell’aria e, tra i dispositivi medici, i test di fecondazione.
L’articolo in questione garantisce pertanto la corretta trasposizione della direttiva 2002/96/CE includendo le suddette apparecchiature nell’ambito delle procedure di smaltimento RAEE.
L’articolo 24 si rende necessario al fine di dare attuazione alle disposizioni contenute nella direttiva 2011/92/UE, in materia di valutazione di impatto ambientale, e superare le contestazioni mosse all’Italia nell’ambito della procedura di infrazione 2009/2086 per non conformità della parte II del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (cosiddetto «codice dell’ambiente»), alla direttiva 85/337/CEE (cosiddetta «direttiva VIA»).
Il Governo italiano ha replicato alle contestazioni della Commissione con nota del 13 luglio 2009. Peraltro, a seguito di successive modifiche apportate al decreto legislativo citato (da ultimo, dal decreto legislativo n. 162 del 2011) la Commissione europea ha verificato nuovamente la non compatibilità tra la normativa comunitaria in materia di VIA e quella italiana di recepimento ed ha emesso una nota di messa in mora complementare (lettera della Commissione europea C(2912) 951 del 27 febbraio 2012).
In particolare, la Commissione ha ritenuto che sussiste una incompatibilità tra il codice dell’ambiente e l’articolo 4, paragrafi 2 e 3, della direttiva 85/337/CEE. Il paragrafo 2 dell’articolo 4, più specificamente, prevede che gli Stati membri debbano determinare se sottoporre o meno a VIA una serie di progetti (elencati nell’allegato II della direttiva) o conducendo un esame caso per caso oppure fissando delle soglie e/o dei criteri. La Corte di giustizia europea ha statuito che, attraverso la fissazione di tali soglie o criteri, gli Stati membri hanno la facoltà di definire in maniera generale ed astratta quali progetti, rientranti nell’allegato II, debbano essere assoggettati a procedura di VIA. Tuttavia nel fissare le soglie gli Stati hanno l’obbligo di prendere in considerazione i criteri dettati dall’allegato III della direttiva (come previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva VIA). Le soglie fissate dalla normativa italiana, eccepisce la Commissione, prendono in considerazione solo alcuni di tali criteri (in particolare la «dimensione del progetto» e le «zone classificate o protette dalla legislazione degli Stati membri») ignorando gli altri che, ad avviso della Commissione, «non possono considerarsi assorbiti automaticamente nella semplice fissazione di una soglia dimensionale».
Per quanto concerne i progetti di competenza regionale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, l’articolo 6, comma 9, del decreto legislativo n. 152 del 2006 riconosce alle regioni e alle province autonome la facoltà di definire, per determinate tipologie progettuali o aree predeterminate e sulla base dell’allegato V del decreto (che riproduce i criteri di cui all’allegato III della direttiva), un incremento (nella misura massima del 30 per cento) o un decremento delle soglie per la verifica di assoggettabilità, così come stabilite dall’allegato IV (che elenca i progetti da sottoporre a verifica di assoggettabilità da parte delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano).
Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono, altresì, determinare criteri o condizioni di esclusione dalla verifica di assoggettabilità. Peraltro esse hanno la facoltà e non l’obbligo di modificare le soglie previste in sede statale e di fissare criteri o condizioni di esclusione dalla sottoposizione alla procedura di verifica di assoggettabilità, con la conseguenza che non sussiste alcuna garanzia che le soglie fissate dal decreto legislativo n. 152 del 2006, in maniera non conforme alla direttiva VIA, vengano modificate dalle regioni e dalle province autonome.
Con l’articolo in esame, si intende rispondere alle osservazioni della Commissione europea e, conseguentemente, sanare la procedura di infrazione 2009/2086, prevedendo l’emanazione, con decreto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza Stato-Regioni, di linee guida statali finalizzate all’individuazione dei criteri e delle soglie per l’assoggettamento alla procedura di cui all’articolo 20 del decreto legislativo n. 152 del 2006, sulla base dei criteri di cui all’allegato V del medesimo decreto legislativo (che traspone l’allegato III della direttiva). Tali linee guida dovranno, in particolare, prevedere le caratteristiche dei progetti, la loro localizzazione e le caratteristiche dell’impatto potenziale dei medesimi progetti. Sulla base di tali linee guida, entro il termine di tre mesi dalla data di entrata in vigore del citato decreto ministeriale, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono predisporre criteri e soglie per l’assoggettamento dei progetti di cui all’allegato IV del decreto legislativo n. 152 del 2006 alla procedura di verifica di assoggettabilità disciplinata dall’articolo 20 dello stesso decreto. Trascorso inutilmente tale ultimo termine, tutti i progetti rientranti nelle tipologie in esame sono sottoposti alla verifica di assoggettabilità senza previsione di soglie.
Inoltre, qualora tali tipologie di progetti non ricadano all’interno di aree naturali protette, le regioni e le province autonome, entro sei mesi dall’adozione delle linee guida statali e nel rispetto dei criteri indicati nelle stesse, possono dettare criteri o condizioni di esclusione dalla verifica di assoggettabilità per specifiche categorie progettuali o per particolari situazioni ambientali o territoriali: il tutto, previa motivazione.
L’articolo 25 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di acque prevista dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, al fine di superare le contestazioni per mancato o non corretto recepimento della direttiva 2000/60/CE formulate dalla Commissione europea nell’ambito della procedura d’infrazione 2007/4680, allo stadio di parere motivato ex articolo 258 del TFUE.
In particolare le modifiche apportate al predetto decreto legislativo propongono le seguenti disposizioni correttive ed integrative:
-- la modifica di cui alla lettera a) si rende necessaria al fine di attuare il corretto recepimento della direttiva sulle sostanze prioritarie, anche alla luce della linea guida europea sull’inventario, pubblicata in data successiva, che circoscrive l’inventario alle sole sostanze della lista di priorità, sulla base delle quali viene definito lo stato chimico dei corpi idrici, escludendo gli altri inquinanti.
In tal modo si assicura un corretto recepimento della norma comunitaria garantendo una comparabilità dei dati a livello europeo, semplificando il compito degli enti territoriali incaricati di redigere l’inventario;
-- la modifica di cui alla lettera b) si rende necessaria al fine di recepire correttamente l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 91/676/CEE nell’ambito della parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, mancante nell’attuale disposizione normativa, prevedendo l’obbligo per le regioni del riesame, con cadenza quadriennale, delle zone vulnerabili designate e della loro eventuale revisione sulla base dei risultati del monitoraggio delle acque;
-- la modifica di cui alla lettera c) si rende necessaria al fine di recepire nella normativa nazionale le disposizioni di cui al paragrafo 7 dell’articolo 5 della direttiva 91/676/CEE che prevedono ogni quattro anni un riesame ed una eventuale revisione dei programmi di azione;
-- la modifica di cui alla lettera d) si rende necessaria per rendere esplicito l’obbligo da parte delle regioni di comunicare al Ministero dell’ambiente gli esiti del riesame periodico (da effettuarsi ogni quattro anni) delle designazioni delle zone vulnerabili e dei programmi di azione, oltre che gli eventuali nuovi programmi di azione istituiti. Tali informazioni sono necessarie al fine della predisposizione della relazione periodica di cui all’articolo 10 della direttiva 91/676/CEE, e per gli adempimenti di cui al paragrafo 3 dell’articolo 12 della stessa direttiva;
-- la modifica di cui alla lettera e) si rende necessaria al fine di superare un’ulteriore contestazione avanzata dalla Commissione europea nella procedura di infrazione 2007/4680. In particolare, si propone di recepire, nell’ambito della parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, l’articolo 11, paragrafo 3, lettera f), della direttiva 2000/60/CE;
-- la modifica di cui alla lettera f) si propone di recepire, nell’ambito della parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, l’articolo 11, paragrafo 8, della direttiva 2000/60/CE;
-- la modifica di cui alla lettera g) consente di recepire, nell’ambito della parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, l’articolo 13, paragrafo 7, della direttiva 2000/60/CE che si riferisce al processo con cadenza sessennale di riesame ed eventuale revisione dei piani di gestione;
-- la modifica di cui alla lettera h) si rende necessaria al fine di recepire, nell’ambito della parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, l’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 2000/60/CE;
-- la modifica di cui alla lettera i) si propone di recepire, nell’ambito dell’allegato 1 alla parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, il punto 2.2.2 dell’allegato V alla direttiva 2000/60/CE;
-- la modifica di cui alla lettera l) si propone di recepire, nell’ambito dell’allegato 1 alla parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, il punto 2.2.3 dell’allegato V alla direttiva 2000/60/CE;
-- la modifica di cui alla lettera m) si rende necessaria al fine di superare un’ulteriore contestazione della Commissione europea nella procedura di infrazione 2007/4680. In particolare, si propone di recepire, nell’ambito dell’allegato 3 alla parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, il punto 1.5 dell’allegato II alla direttiva 2000/60/CE;
-- la modifica di cui alla lettera n) si rende necessaria, da un lato, al fine di recepire, nell’ambito dell’allegato 3 alla parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, il punto 2.1, sesto trattino, dell’allegato II alla direttiva 2000/60/CE e, dall’altro, al fine di superare una delle contestazioni avanzate dalla Commissione europea nella procedura di infrazione 2007/4680. In particolare, si propone di recepire, nell’ambito dell’allegato 3 alla parte III del decreto legislativo n. 152 del 2006, il punto 2.2 dell’allegato II alla direttiva 2000/60/CE.
Nello specifico, le modifiche di cui alle lettere g) ed h), riguardanti l’aggiornamento sessennale dei piani di gestione e del registro delle aree protette, sono state inserite, come richiesto della Commissione europea nell’ambito della procedura d’infrazione 2007/4680, per recepire espressamente gli articoli 6, paragrafo 3, e 13, paragrafo 7, della direttiva 2000/60/CE e rendere, così, perfettamente aderente alle norme comunitarie la legislazione nazionale.
In particolare, la revisione dei piani e dei registri era già prevista dalle norme vigenti (articoli 117 e 121 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni), benché riferita ai piani di tutela regionali. Tali piani di tutela costituiscono, a tutti gli effetti, lo strumento di pianificazione contenente le misure necessarie alla tutela dei sistemi idrici a scala regionale e, come tali, sono propedeutici ai piani di gestione dei quali rappresentano parte integrante. Quanto all’aggiornamento del registro delle aree protette, esso costituisce un’attività già a regime, implicitamente già prevista in quanto parte del contenuto dei piani di gestione.
Ciononostante, per superare i rilievi della Commissione è stato necessario prevedere una modifica formale delle disposizioni in questione che espliciti gli obblighi e non dia luogo a dubbi interpretativi.
Si ribadisce, pertanto, che l’attività di revisione dei piani di tutela e dei registri delle aree protette non comporta alcun ulteriore onere finanziario a carico delle autorità competenti, dato che tali attività erano già previste dai citati articoli 117 e 121 del decreto legislativo n. 152 del 2006, nell’ambito del piano di tutela.
L’articolo 26 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, per superare le contestazioni formulate dalla Commissione europea nell’ambito della procedura d’infrazione 2007/4679.
Più precisamente, il 23 novembre 2009 la Commissione, con parere motivato ai sensi dell’articolo 258 del TFUE, ha formulato le seguenti contestazioni:
a) la mancata trasposizione nell’ordinamento italiano degli articoli 3 e 6 della direttiva 2004/35/CE, che stabiliscono un regime di responsabilità oggettiva per il danno ambientale causato dalle attività professionali elencate in allegato III ed un regime di responsabilità per dolo o colpa per il danno alle specie ed agli habitat naturali protetti, causato da attività professionali non inserite in tale elenco;
b) la limitazione del campo di applicazione del regime di responsabilità disciplinato dalla direttiva, per la previsione dell’eccezione di cui all’articolo 303, comma 1, lettera i), del decreto legislativo n. 152 del 2006, che esclude l’applicabilità della parte VI del medesimo decreto alle situazioni di inquinamento per le quali siano effettivamente avviate le procedure relative alla bonifica e sia stata avviata o sia intervenuta bonifica dei siti nel rispetto delle norme vigenti in materia;
c) la previsione di strumenti di risarcimento per equivalente pecuniario o patrimoniale, in luogo dell’individuazione e dell’attuazione di adeguate misure di riparazione complementare e compensativa.
Le Autorità italiane hanno risposto al parere motivato con note del 1° e del 2 dicembre 2009 e con nota del 2 febbraio 2010, mediante le quali hanno notificato provvedimenti legislativi intesi a risolvere alcuni dei problemi di conformità sollevati dalla Commissione.
Dopo aver analizzato le suddette risposte al parere motivato, la Commissione ha trasmesso al Governo italiano, con un parere complementare del 26 gennaio 2012, nuove osservazioni dirette a fornire ulteriori delucidazioni in merito agli addebiti mossi nel parere motivato del 23 novembre 2009 e alla luce degli argomenti addotti dal Governo italiano.
Segnatamente, nel parere motivato complementare, nel ribadire quanto già rilevato nella precedente fase della procedura, la Commissione contestava:
a) la violazione della regola generale della responsabilità oggettiva (articolo 3, paragrafo 1, e articolo 6 della direttiva). La Commissione ha rilevato come l’articolo 311, comma 2, del decreto legislativo n. 152 del 2006 ancori la responsabilità per danno ambientale ai requisiti del dolo e della colpa, anche nel caso in cui il danno sia stato causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato III della direttiva;
b) violazione degli articoli 1 e 7 e dell’allegato II della direttiva, per la previsione del risarcimento pecuniario in luogo della riparazione. La Commissione osserva come le modifiche all’articolo 311, commi 2 e 3, apportate dall’articolo 5-bis del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009, sebbene abbiano migliorato la conformità della normativa italiana con le previsioni comunitarie, continuano a lasciare aperta la possibilità che ai sensi della normativa italiana un operatore che abbia causato un danno ambientale possa essere tenuto al risarcimento pecuniario in luogo della riparazione primaria, complementare e compensativa. Ai sensi della direttiva, invece, si può usare il metodo della valutazione monetaria per determinare quali misure di riparazione complementare e compensativa siano necessarie, ma non si possono sostituire le misure di riparazione mediante risarcimenti pecuniari;
c) la violazione degli articoli 3 e 4 della direttiva, per la previsione dell’esclusione di cui all’articolo 303, comma 1, lettera i) del decreto legislativo n. 152 del 2006, non contemplata dalla direttiva. Al riguardo, in particolare, la Commissione ha osservato come a tutt’oggi le Autorità italiane non abbiano fornito alcun chiarimento sull’effettiva portata dell’articolo 303, comma 1, lettera i), con particolare riferimento al rapporto tra la disciplina in materia di bonifica dei siti inquinati e quella sulla tutela risarcitoria dei danni ambientali.
Tutto ciò premesso, si evidenziano le proposte di modifica della normativa in esame finalizzate a migliorare la conformità della normativa nazionale a quella europea e, comunque, al definitivo superamento della procedura di infrazione.
Viene introdotto l’articolo 298-bis, che enuncia i princìpi generali di applicazione della disciplina di cui alla parte VI, in aderenza alle indicazioni della Commissione.
L’articolo 299 viene asciugato dei riferimenti ad aspetti organizzativi del Ministero non coerenti con l’assetto vigente.
L’articolo 303 prevede una serie di categorie di danno escluse dal campo di applicazione della parte VI. Più precisamente nella lettera f), nel prevedere che tale disciplina non si applichi «al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatisi prima della data di entrata in vigore della parte sesta del presente decreto» è stato espunto il riferimento all’applicazione dei criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria, stabiliti dall’articolo 311, commi 2 e 3, anche alle ipotesi in cui le domande di risarcimento siano proposte o da proporre in luogo dei commi 6, 7 e 8 dell’articolo 18 della legge n. 349 del 1986, ai sensi del titolo IX del libro IV del codice civile oppure sulla base di altra normativa avente carattere speciale. Tale modifica ha lo scopo di conformarsi a quanto espresso nella normativa comunitaria, e precisamente nell’allegato II della direttiva 2004/35/CE, laddove si prevede la possibilità di usare il metodo di valutazione monetaria solo al fine di determinare quali misure di riparazione complementare e compensativa siano necessarie, ma non di sostituire tali misure con risarcimenti di natura pecuniaria.
Nel medesimo articolo è stata espunta l’eccezione prevista dalla lettera i). Tale proposta emendativa, conformandosi con quanto previsto dall’articolo 4 della direttiva, prevede l’applicazione della disciplina contenuta nella parte VI anche alle situazioni di inquinamento per le quali siano avviate le procedure di bonifica dei siti.
Nell’articolo 311, tanto nella rubrica quanto nel comma 1, è stato eliminato ogni riferimento al risarcimento per danno equivalente. Con la modifica apportata al comma 2, inoltre, si prevede che qualora l’effettivo ripristino delle condizioni ambientali allo stato in cui si trovavano all’origine, oppure l’adozione di misure di riparazione complementare o compensativa, siano stati in tutto o in parte omessi, o comunque attuati in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare provvede ad una valutazione monetaria dei costi necessari per dare effettiva attuazione al ripristino e alle misure anzidette. Inoltre, al fine di procedere alla realizzazione degli stessi e in particolare per la realizzazione degli interventi di cui all’articolo 317, comma 5, il Ministero può agire nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti. Al comma 3, secondo periodo, dello stesso articolo 311 si evidenzia nuovamente come, al fine di ottemperare alle osservazioni espresse dalla Commissione europea in ordine al risarcimento per equivalente, tale riferimento è stato eliminato e si ribadisce che i criteri di valutazione monetaria servono a determinare esclusivamente la portata delle misure di riparazione.
Ai fini di un coordinamento con le modiche apportate all’articolo 311, è stato esteso anche all’articolo 313, comma 2, ovvero alle ordinanze ministeriali, adottate a seguito dell’accertato inadempimento dell’operatore, il riferimento alle misure di riparazione complementare o compensativa. Qualora queste ultime non vengano attuate dall’operatore, il Ministro dell’ambiente provvederà a determinare i costi delle attività necessarie a conseguire la completa attuazione delle stesse. Inoltre, al fine di garantire la loro realizzazione e in particolare provvedere a realizzare gli interventi di cui all’articolo 317, comma 5, il Ministro stesso, con ordinanza, ingiunge il pagamento, entro il temine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme corrispondenti. Con riferimento al contenuto dell’ordinanza di cui all’articolo 314, comma 3, è stato eliminata la previsione che il danno sia calcolato proporzionalmente alla somma corrispondente alla sanzione applicata o al numero di giorni di pena detentiva irrogati. Tale modifica permette di vincolare maggiormente il pagamento all’entità effettiva del danno ambientale arrecato, in conformità del principio «chi inquina paga».
Le modiche apportate all’articolo 317, comma 5, infine, rispondono alle esigenze di effettività mosse dalla Commissione europea in ordine alla possibilità che le misure di riparazione di volta in volta adottate, qualora omesse in tutto o in parte dal soggetto obbligato, siano comunque portate a termine dall’autorità pubblica. Effettività che rischia di essere messa seriamente in discussione dal momento che il particolare meccanismo previsto dalla citata disposizione (secondo la quale le somme ottenute con i risarcimento affluiscono ad un fondo gestito dal Presidente del Consiglio e dal Ministro dell’economia e delle finanze, nel mentre il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare svolge un ruolo residuale di mera proposta di attuazione degli interventi) ha nella pratica consentito di utilizzare una porzione del tutto marginale delle risorse formalmente a disposizione (6 milioni di euro su 52 versati alle casse dello Stato). Di qui l’esigenza di modificare la disposizione, prevedendo in particolare che le somme affluiscano direttamente ad apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell’ambiente, sì da conferire concretezza ed immediatezza al processo di reimpiego delle somme nella direzione indicata dagli organismi comunitari.
Con riferimento alle osservazioni del Ministero dell’economia e finanze relative a tale riformulazione dell’articolo 317, comma 5, si evidenzia che la disposizione ha l’obiettivo di rendere effettiva la possibilità di disporre delle somme derivanti dalla riscossione dei crediti in favore dello Stato per il risarcimento del danno ambientale, stante l’eccessiva farraginosità della precedente disciplina che non ha consentito il raggiungimento di proficui risultati.
Quanto al rilievo circa la necessità di una delega legislativa per poter procedere alla modifica del comma 5 dell’articolo 317 del decreto legislativo n. 152 del 2006, si sottolinea preliminarmente che lo stesso comma è già stato modificato con un decreto-legge «salva infrazioni» (seppur in sede di conversione): ci si riferisce in particolare all’articolo 5-bis, comma 1, lettera d), del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166. A parte ciò, non si rileva la necessità di una delega legislativa essendo la disposizione in oggetto contenuta in una norma primaria.
L’articolo 27 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di protezione della fauna selvatica omeoterma e di prelievo venatorio (legge 11 febbraio 1992, n. 157), al fine di adeguare la normativa italiana di recepimento della direttiva 2009/147/CE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, alla sentenza di condanna della Corte di giustizia europea del 15 luglio 2010 nella causa C/573/08 (procedura di infrazione 2006/2131).
In particolare, le modifiche apportate al decreto legislativo 11 febbraio 1992, n. 157, propongono le seguenti disposizioni correttive:
-- modifica dell’articolo 1, comma 5: consente di superare la censura della Commissione secondo la quale la normativa italiana non prevede che, all’atto dell’emanazione dei provvedimenti di cui all’articolo 3 della direttiva 2009/147/CE, le autorità competenti debbano tener conto dei requisiti menzionati all’articolo 2 di quest’ultima. Viene infatti eliminato qualsiasi riferimento alla preferenza ora accordata alle specie di cui all’allegato I della direttiva nell’adozione delle misure necessarie per preservare, mantenere o ristabilire, per tutte le specie di uccelli di cui all’articolo 1, una varietà e una superficie sufficienti di habitat;
-- introduzione, nell’articolo 1, del comma 7.1: consente di superare la censura della Commissione secondo la quale la normativa italiana non ha trasposto l’articolo 7, paragrafo 4, ultima frase, della direttiva 2009/147/CE per la parte che dispone che gli Stati membri trasmettano alla Commissione tutte le informazioni utili sull’applicazione pratica della loro legislazione sulla caccia;
-- sostituzione dell’articolo 19-bis: consente di superare la censura della Commissione secondo la quale il sistema di controllo di legittimità delle deroghe emanate a livello regionale, previsto all’articolo 19-bis attualmente in vigore, continua ad essere sostanzialmente inefficace e intempestivo, in violazione dell’articolo 9 della direttiva.
Nella rubrica e nel comma 1 sono riportati gli adeguamenti testuali all’attuale numerazione della direttiva uccelli.
Il comma 2 dell’articolo 19-bis dispone che le deroghe sono adottate dalle regioni con provvedimento amministrativo. Ciò al fine di impedire che l’adozione delle deroghe con legge regionale renda inutilizzabile il potere di annullamento previsto in capo al Governo, la cui pratica è stata sanzionata dalla Corte costituzionale.
Il comma 4 dell’articolo 19-bis è volto a dare risposta al principale profilo di non conformità all’ordinamento comunitario sollevato dalla Commissione nella procedura d’infrazione 2006/2131 e che più di tutti espone l’Italia al rischio concreto di applicazione di sanzioni pecuniarie. La prevista pubblicazione anticipata del provvedimento di deroga sul Bollettino Ufficiale regionale e la relativa comunicazione al Ministero dell’ambiente sono volte a consentire l’esercizio efficace e tempestivo del potere di annullamento.
L’articolo 28 abroga il comma 7-quater dell’articolo 36 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, in materia di protezione delle acque dall’inquinamento provocato da nitrati, con il quale è stato consentito agli agricoltori, per un periodo transitorio di dodici mesi, di cospargere fertilizzanti a base di nitrati in zone ritenute vulnerabili, al pari di quanto era loro consentito fare nelle zone non vulnerabili. L’abrogazione di tale norma si è resa necessaria a seguito dell’avvio da parte della Commissione europea della procedura di infrazione 2013/2032 per violazione dell’articolo 5, in combinato disposto con gli allegati II e III, della direttiva 91/676/CEE del Consiglio, del 12 dicembre 1991, relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato da nitrati (cosiddetta direttiva nitrati).
Il Capo VI reca altre disposizioni non riconducibili alle precedenti materie.
L’articolo 29 reca modifiche alla normativa nazionale in materia di sicurezza ferroviaria, prevista dal decreto legislativo 10 agosto 2007, n. 162, di recepimento della direttiva 2004/49/CE, con particolare riferimento al tema delle indagini sugli incidenti ferroviari.
Nell’ambito del caso EU Pilot 1254/10/MOVE, la Commissione ha rilevato il non corretto recepimento della direttiva da parte degli articoli 20 e 21 del decreto legislativo 10 agosto 2007, n. 162, nella misura in cui tali norme improntano a criteri di subordinazione, anziché di collaborazione, i rapporti tra l’Autorità giudiziaria competente a svolgere indagini in caso di incidenti ferroviari e gli investigatori incaricati di relazionare alla Commissione europea in ordine ai medesimi incidenti. Le novelle legislative, quindi, mirano, a costituire tra tali soggetti un rapporto di stretta collaborazione, secondo l’impegno preso con la Commissione per l’archiviazione del suddetto caso EU Pilot.
L’articolo 30 è volto a recepire la direttiva 2012/4/UE, del 22 febbraio 2012, recante modifiche alla direttiva 2008/43/CE relativa all’istituzione, a norma della direttiva 93/15/CEE del Consiglio, di un sistema di identificazione e tracciabilità degli esplosivi per uso civile.
Per il mancato recepimento della direttiva entro il 4 aprile 2012, la Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione 2012/0433.
La direttiva prevede:
a) l’esclusione delle micce (comprese quelle di sicurezza) e degli inneschi a percussione dal sistema di identificazione e tracciabilità degli esplosivi per uso civile, in ragione del loro prevalente utilizzo per fini pirotecnici piuttosto che esplosivi e per il loro basso livello di rischio in caso di utilizzo abusivo;
b) un rinvio dell’applicazione della direttiva 2008/43/CE (precedentemente stabilita al 5 aprile 2012) al 5 aprile 2015, in relazione al maggior tempo richiesto per consentire alle imprese di sviluppare adeguatamente e rendere sicuri i sistemi informatici necessari per attuare il sistema di identificazione e tracciabilità degli esplosivi, di apporre la marcatura sugli esplosivi medesimi, nonché di assolvere gli obblighi relativi alla raccolta dei dati e alla tenuta dei registri;
c) particolari criteri per l’apposizione della marcatura per l’identificazione univoca di alcuni esplosivi per i quali, in relazione alle loro dimensioni troppo ridotte, alla loro particolare forma o progettazione, l’apposizione dell’identificazione univoca è effettuata sulle relative «confezioni elementari» piuttosto che sul singolo articolo.
Al fine di recepire tali disposizioni occorre apportare delle modifiche al decreto legislativo 25 gennaio 2010, n. 8, concernente l’attuazione della richiamata direttiva 2008/43/CE, adesso modificata dalla direttiva n. 4/2012/UE in argomento, con specifico riferimento alla semplificazione ed accelerazione delle procedure relative all’identificazione univoca degli esplosivi da parte delle aziende.
La lettera a) dell’articolo 30 in oggetto integra l’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo n. 8 del 2010, al fine di prevedere -- come stabilito dall’articolo 1, paragrafo 1, lettere d), e) ed f), della direttiva 4/2012/UE, l’esclusione dall’applicazione delle disposizioni del medesimo decreto legislativo di talune tipologie di «micce» ed «inneschi».
La lettera b) apporta alcune modifiche all’articolo 2, concernente l’identificazione univoca.
Con le modifiche di cui ai numeri 1 e 2) si provvede a sostituire il rinvio ad un decreto interministeriale con quello ad un decreto dirigenziale del Ministero dell’interno, ai fini dell’attribuzione ad ogni singola azienda di un codice indispensabile per la definizione del codice di identificazione univoca dei prodotti.
Con le modifiche di cui al numero 3) si provvede a sopprimere i riferimenti alle «micce», agli «inneschi» e ai detonatori comuni «a fuoco», esclusi, in attuazione della direttiva 4/2012/UE, dall’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 8 del 2010.
La lettera c) apporta delle modifiche all’articolo 3, concernente il sistema informatico di raccolta dei dati.
Con le modifiche ai commi 1, 2 e 8, si provvede ad adeguare la disciplina della raccolta dati e tracciabilità degli esplosivi per uso civile al nuovo termine del 5 aprile 2015 stabilito dalla direttiva 2012/4/UE, differendo, quindi, il termine per l’attivazione del sistema informatico di raccolta dati del Ministero dell’interno di cui possono avvalersi le imprese, nonché consentendo alle stesse imprese, in alternativa, anche il ricorso ad un sistema di raccolta dati gestito in proprio, fermi restando gli obblighi di comunicazione dei dati al Ministero dell’interno.
La lettera d) apporta alcune modifiche all’articolo 5, concernente le disposizioni finali.
Con la modifica di cui al numero 1) si introduce il comma 01, necessario per recepire i nuovi termini di entrata in vigore di alcune disposizioni, previsti dalla direttiva 4/2012/UE per il 5 aprile 2015.
Con la modifica di cui al numero 2) si provvede a circoscrivere il ricorso al decreto del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze e dello sviluppo economico, alle sole disposizioni che entrano in vigore nel 2015, relative alla verifica periodica del sistema di raccolta e trasmissione dei dati, nonché alle spese di funzionamento del sistema informatico di raccolta dati del Ministero dell’interno.
La lettera e) inserisce talune integrazioni all’allegato 1 del decreto legislativo n. 8 del 2010, al fine di adeguare lo stesso alle modifiche previste dalla direttiva 4/2012/UE, relative a specifiche modalità di identificazione univoca concernenti i prodotti di ridotte dimensioni.
L’articolo 31 reca modifiche, in tema di Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, al fine di superare la procedura di infrazione 2012/2189.
In particolare, il comma 2 dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 25 del 2008 prevede che le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale siano fissate, con decreto del Ministro dell’interno, nel numero massimo di dieci. In attuazione di tale disposizione, nel 2008 sono state istituite le dieci Commissioni e individuate le relative sedi e circoscrizioni territoriali.
Con ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3703/2008, adottata sulla base della dichiarazione dello stato di emergenza di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 marzo 2002, diretta a fronteggiare l’eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari sul territorio nazionale, il Ministro dell’interno è stato autorizzato a istituire, nell’ambito di ciascuna Commissione territoriale, una sezione composta dai membri supplenti della corrispondente Commissione territoriale, con oneri a carico dei pertinenti capitoli dello stato di previsione del Ministero dell’interno.
Ai sensi di tale ordinanza sono state quindi istituite dieci sezioni corrispondenti alle relative Commissioni territoriali, che possono continuare a operare fino al 31 dicembre 2012, considerata la proroga dello stato di emergenza citato disposta, da ultimo, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 novembre 2011.
Poiché in base alla nuova disciplina della protezione civile di cui al decreto-legge n. 59 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 100 del 2012, gli effetti della citata ordinanza n. 3703 sono destinati a venire meno, si ritiene necessario introdurre a regime la facoltà per l’Amministrazione di istituire, ove si verifichi un eccezionale incremento delle domande di asilo connesso all’andamento dei flussi migratori, una o più sezioni presso ciascuna Commissione territoriale, nel numero massimo complessivo di dieci, in modo da tenere conto delle esigenze istruttorie delle Commissioni in cui si concentrano il maggior numero di istanze.
Ove tale facoltà non venga prevista in via ordinaria, sono agevolmente prevedibili gli effetti negativi sull’attuale organizzazione imperniata sulle Commissioni territoriali e sulle relative sezioni, chiamate a gestire, su tutto il territorio nazionale, l’istruttoria di migliaia di istanze che ogni anno vengono avanzate, nonché le pericolose ricadute sul versante del riconoscimento e della tutela dei fondamentali diritti del rifugiato disciplinati da convenzioni internazionali e direttive europee in materia e tutelati dall’articolo 10 della Costituzione.
Si soggiunge che, lo scorso 24 ottobre, la Commissione europea ha inviato una lettera di messa in mora, ai sensi dell’articolo 258 del TFUE, invitando le autorità nazionali a presentare le proprie osservazioni in merito alle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia, con riferimento anche all’insufficiente capacità di esaminare le domande di asilo in tempi ragionevoli.
Concludendo, l’intervento proposto si configura come uno strumento di flessibilità organizzativa volto a consentire al Ministero dell’interno di far fronte ad eventi eccezionali, come quelli che hanno riguardato l’emergenza Nord-Africa, accelerando la definizione delle istanze di asilo e della posizione giuridica degli interessati, con una conseguente razionalizzazione dell’impiego delle risorse destinate all’accoglienza.
L’articolo 32 mira a superare i rilievi, mossi dalla Commissione europea, nell’ambito del caso EU Pilot 4176/12/MOVE, circa la non corretta attuazione da parte dell’Italia della direttiva 2004/52/CE, concernente l’interoperabilità dei sistemi di telepedaggio stradale nella Comunità, e la mancata attuazione della decisione di esecuzione 2009/750/CE secondo cui gli Stati membri devono, tra l’altro, designare o istituire un organismo di conciliazione per la risoluzione di eventuali controversie tra gli esattori dei pedaggi e i fornitori del Servizio europeo di telepedaggio (S.E.T.).
In particolare l’organismo di conciliazione è incaricato di esaminare se le condizioni contrattuali imposte da un esattore di pedaggi a vari fornitori del S.E.T. siano non discriminatorie e rispecchino correttamente i costi e i rischi delle parti contrattuali.
In caso di controversie inerenti ai loro rapporti o negoziati contrattuali, gli esattori di pedaggi od i fornitori del S.E.T. possono richiedere l’intervento dell’organismo di conciliazione.
Al comma 1 si prevede l’istituzione dell’organismo di conciliazione.
Viene stabilito inoltre, al comma 2, che l’organismo di conciliazione sia indipendente, nella sua struttura organizzativa e giuridica, dagli interessi commerciali degli esattori di pedaggi e dei fornitori del S.E.T. (come espressamente indicato al paragrafo 2 dell’articolo 10 della decisione 2009/750/CE).
È altresì prevista, al comma 3, la successiva emanazione, mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro degli affari europei e del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con i Ministri degli affari esteri, della giustizia e dell’economia e finanze, delle disposizioni per l’individuazione della procedura di mediazione alla quale le parti possono ricorrere ai sensi della decisione n. 750 del 2009.
Il comma 4 prevede che dalla attuazione dell’articolo non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e che le amministrazioni interessate provvedano all’adempimento dei compiti ivi previsti con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente. Le spese per l’eventuale attivazione della procedura di mediazione, infatti, saranno da attribuirsi a carico dei soggetti (quali esattori di pedaggi e fornitori del S.E.T.) che si rivolgeranno all’organismo di conciliazione per la risoluzione della controversia.
L’articolo 33, relativo alla fornitura dei servizi accessori di telecomunicazioni, è volto a risolvere la procedura d’infrazione n. 2012/2138, ormai allo stadio di parere motivato ex articolo 258 del TFUE. Nell’ambito di tale procedura, la Commissione europea ha contestato la non conformità dell’articolo 47, comma 2-quater, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, agli obblighi previsti dall’articolo 8 della direttiva 2002/21/CE (cosiddetta direttiva quadro), che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica e la non conformità agli obblighi previsti dagli articoli 8, paragrafi 2 e 4, 9, paragrafo 2, e 12, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2002/19/CE (cosiddetta direttiva accesso), relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime.
La suddetta norma nazionale, infatti, imponendo all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) di intervenire entro centoventi giorni per adottare misure di regolamentazione che garantiscano la giusta concorrenza nel mercato delle telecomunicazioni, priverebbe l’AGCOM delle prerogative di indipendenza e imparzialità con le quali, secondo la suddetta normativa europea, le autorità nazionali di regolamentazione dovrebbero poter agire sulla base delle risultanze delle analisi di mercato.
Pertanto, la modifica proposta elimina l’obbligo in capo all’AGCOM di adottare misure stringenti di regolamentazione del mercato delle telecomunicazioni, prevedendo invece, coerentemente alla normativa europea, una sua facoltà di adottare, sulla base delle risultanze delle analisi di mercato, misure volte ad assicurare che i servizi di accesso all’ingrosso di rete fissa, quali il servizio di attivazione della linea stessa ed il servizio di manutenzione correttiva, siano offerti agli operatori concorrenti in maniera disaggregata, indicando separatamente il costo per l’affitto della linea ed il costo delle attività accessorie. Potrà, inoltre, essere garantito agli operatori di poter acquistare i servizi accessori da imprese diverse dall’incumbent (Telecom Italia), purché di comprovata esperienza ed operanti sotto la vigilanza e secondo le modalità indicate dall’Autorità medesima.
L’articolo 34 è finalizzato a chiudere il caso EU Pilot 3955/12/MARK riguardante la protezione del diritto di autore dei disegni e dei modelli industriali.
Tale caso è stato avviato in quanto l’attuale formulazione dell’articolo 239 del codice della proprietà industriale (introdotta dal decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14), sospendendo per un periodo transitorio di tredici anni la protezione del diritto di autore per i modelli di design industriale divenuti di pubblico dominio anteriormente alla data del 19 aprile 2001, si pone in contrasto col diritto dell’Unione come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza pregiudiziale del 27 gennaio 2011 (causa C-168/09, noto come caso FLOS c/o SEMERARO). In particolare, la Corte ha ritenuto che un corretto bilanciamento tra l’interesse del titolare del diritto di autore, da un lato, e, dall’altro, gli interessi dei terzi che in buona fede avevano fabbricato e commercializzato prodotti caduti in pubblico dominio prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina europea in materia di diritti di autore, non possa consentire alle imprese di sfruttare modelli di design industriale senza pagare i relativi diritti di autore per un periodo superiore ai cinque anni.
Pertanto, la Commissione europea, a seguito della modifica normativa dell’articolo 239 del codice della proprietà industriale, introdotta con il citato decreto-legge n. 216 del 2011, ha avviato il suddetto caso EU-Pilot per sollecitare l’adozione di interventi normativi da parte dell’Italia conformi al principio di proporzionalità sancito dalla Corte di giustizia.
Con la norma che si propone viene, quindi, ripristinato l’originario periodo transitorio quinquennale di mancata protezione del diritto d’autore sui disegni e modelli industriali, in sostituzione del vigente periodo di tredici anni, nel rispetto anche del principio di proporzionalità sancito dalla Corte di giustizia.
L’articolo 35 è volto a dare sollecita e coerente esecuzione alla decisione di esecuzione della Commissione europea del 17 ottobre 2012, con riferimento alle calamità naturali che hanno colpito Marche e Umbria nel 1997, Molise e Puglia nel 2002 e l’Abruzzo nel 2009.
La Commissione europea ha infatti avviato un’indagine per verificare se le agevolazioni fiscali e previdenziali introdotte dall’Italia a favore delle imprese localizzate in alcune zone colpite da calamità naturali rispettino la normativa dell’Unione sugli aiuti di Stato. Con decisione del 17 ottobre 2012 la Commissione ha comunicato all’Italia l’ingiunzione di sospensione di tutti gli aiuti di Stato riconducibili ai casi SA.33083 (2012/NN) e SA. 35083 (2012/NN) «fintantoché la Commissione non abbia preso una decisione in merito alla compatibilità dell’aiuto con il mercato interno».
In ragione di ciò la proposta normativa, in particolare, ai commi 1 e 3 prevede che la riduzione del 40 per cento del carico fiscale e contributivo stabilita dalla normativa vigente trova applicazione a favore di quelle imprese che dimostrino di avere subìto danni diretti in conseguenze delle calamità e solo nei limiti degli stessi. La misura della riduzione dovrà tenere conto anche di ogni altra tipologia di aiuti previsti attraverso altre misure e, in particolare, dovrà essere proporzionale all’importo dei danni senza comportare alcuna sovracompensazione.
A tal fine, al comma 2, sono disciplinate le modalità per stabilire i danni e dimostrare il nesso di causalità diretto con le calamità: entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge i beneficiari devono presentare all’Agenzia delle entrate, all’INPS e all’INAIL una dichiarazione sostitutiva corredata di una perizia redatta da un professionista autorizzato che attesti i requisiti per la concessione delle agevolazioni.
Il comma 4 prevede che, attraverso una convenzione tra gli Istituti, siano definite le modalità tecniche del monitoraggio e del controllo dei dati acquisiti.
I commi 5 e 6 individuano le ipotesi di sospensione della riduzione del carico tributario e contributivo.
Il comma 7 richiama la nozione di «impresa» secondo l’indirizzo europeo.
L’articolo 36 è volto a dare attuazione alle disposizioni del regolamento (UE) n. 648/2012 relativo agli strumenti derivati OTC, alle controparti centrali e ai repertori di dati sulle negoziazioni (cosiddetto EMIR -- European Market Infrastructure Regulation), in osservanza delle raccomandazioni del G20 finalizzate a mitigare il rischio di controparte e a rendere trasparenti le transazioni sui derivati negoziati fuori borsa OTC (over the counter). Esso disciplina sia gli obblighi di compensazione in controparte centrale per i contratti derivati OTC suscettibili di standardizzazione, sia gli obblighi di reporting delle transazioni ai repertori di dati che saranno autorizzati e vigilati dall’AESFEM (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati). Il regolamento prevede inoltre una disciplina armonizzata per l’autorizzazione e la vigilanza sulle controparti centrali (CCP).
Il regolamento è entrato in vigore il 16 agosto 2012 ed esplicherà pienamente la sua efficacia con l’adozione degli standard tecnici da parte della Commissione europea nei prossimi mesi. Il regolamento richiede agli Stati membri di designare l’autorità o le autorità competenti per l’autorizzazione e la vigilanza sulle controparti centrali stabilite sul proprio territorio, informandone la Commissione europea e l’AESFEM, nonché di stabilire le norme in materia di sanzioni, che devono essere effettive, proporzionate, dissuasive, secondo le linee guida adottate dall’AESFEM per promuovere la convergenza dei regimi sanzionatori nel settore finanziario.
In attuazione, quindi, delle disposizioni previste dal regolamento è stato predisposto un articolo composto di tre commi, relativi, tra l’altro, all’individuazione delle autorità nazionali competenti, mediante modifica di alcuni articoli del decreto legislativo n. 58 del 1998 (testo unico sull’intermediazione finanziaria-TUF), e alla previsione delle sanzioni da applicare a livello nazionale per le violazioni del regolamento stesso.
Si esaminano nel dettaglio le singole disposizioni.
Il comma 1, alla lettera a), introduce la definizione di controparte centrale ai sensi del regolamento in questione, aggiungendo all’articolo 1, comma 1, del TUF la lettera w-quinquies).
Alla lettera b) la novella prevede la modifica parziale dell’articolo 4, comma 5, lettera c), del TUF, al fine di rendere coerente tale norma con il regolamento (UE) n. 648/2012.
La lettera c) introduce il nuovo articolo 4-quater, il quale prevede che:
-- la Banca d’Italia e la Consob sono le autorità competenti per l’autorizzazione e la vigilanza delle controparti centrali, secondo quanto stabilito anche dall’articolo 69-bis;
-- la Consob è l’autorità competente per la cooperazione e lo scambio di informazioni con la Commissione europea, l’AESFEM, le autorità competenti degli altri Stati membri, l’ABE e i membri interessati del SEBC, nonché per la vigilanza delle controparti non finanziarie;
-- la Banca d’Italia è l’autorità che presiede il collegio previsto dall’articolo 18 del regolamento in questione e vigila sul corretto riconoscimento delle controparti centrali dei Paesi terzi.
La lettera g) introduce il nuovo articolo 69-bis che disciplina la procedura di autorizzazione e l’attività di vigilanza sulle controparti centrali prevedendo che:
-- la Banca d’Italia presiede il collegio dei supervisori (articolo 18 del regolamento UE) chiamato ad esprimere pareri avendo riguardo alla stabilità delle CCP e al contenimento del rischio sistemico (parametri per calcolare i margini, i contributi al default fund, gli accordi di interoperabilità delle CCP e piani di risposta a situazioni di emergenza);
-- la Consob vigila sui profili di trasparenza e tutela degli investitori.
La lettera h) riformula l’articolo 70 stabilendo che i margini e le prestazioni di garanzia acquisite dalle controparti centrali non possono essere oggetto di azioni esecutive o cautelari da parte dei creditori del singolo partecipante o del gestore della controparte centrale, anche in caso di procedure concorsuali.
Le lettere i), l), m) ed n) apportano alcune modifiche agli articoli 70-bis, 70-ter, 72 e 77 per coordinare le disposizioni del TUF con quelle del regolamento, in materia di accesso alle controparti centrali, accordi conclusi dalle società di gestione dei mercati regolamentati con le controparti centrali e vigilanza sui sistemi di garanzia dei contratti di liquidazione.
La lettera p) introduce il comma 2-bis all’articolo 166 estendendo la sanzione prevista in tale norma a chiunque eserciti il ruolo di controparte centrale, di cui al regolamento in questione, senza aver ottenuto la relativa autorizzazione ivi prevista.
La lettera r) introduce il nuovo articolo 193-quater che stabilisce le sanzioni per tutte le violazioni delle disposizioni previste dal regolamento (UE) n. 648/2012.
Il comma 2 dello stesso articolo 36 del disegno di legge introduce la norma transitoria secondo la quale il provvedimento adottato dalla Banca d’Italia e dalla Consob il 22 febbraio 2008 e le relative sanzioni previste dall’articolo 190 del TUF continuano ad applicarsi ai sistemi di garanzia a controparte centrale, conformemente a quanto previsto dall’articolo 89 (Diposizioni transitorie) del regolamento (UE) n. 648/2012.
Il comma 3 specifica infine che dall’attuazione delle disposizioni contenute nel presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e che le autorità interessate provvedono agli adempimenti da esso previsti, avvalendosi delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
L’articolo 37 contiene la clausola di invarianza finanziaria delle disposizioni inserite nel disegno di legge, con esclusione dell’articolo 14, che reca oneri alla copertura dei quali si provvede con le modalità illustrate nella relazione tecnica.
Riguardo alle procedure AIR, posto che la necessità delle varie disposizioni normative proposte è stata indicata analiticamente nelle suesposta illustrazione e che le opzioni regolatorie contenute nelle singole disposizioni sono necessitate dall’adempimento di obblighi europei emersi, per la maggior parte dei casi, nell’ambito di procedure di infrazione e pre-infrazione, non è stato possibile ipotizzare opzioni regolatorie alternative.
Non si è peraltro proceduto a richiedere alle varie amministrazioni singole AIR su norme di specifica competenza, in quanto le stesse norme sono state formulate sulla base delle osservazioni della Commissione europea, come sopra accennato, nell’ambito di casi EU Pilot o di procedure d’infrazione, e, pertanto, non è stato possibile fare scelte in ordine ad eventuali altre opzioni regolatorie.
Il provvedimento è stato approvato «salvo intese» in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 27 marzo 2013. A seguito delle successive intese raggiunte con le amministrazioni interessate, sul testo concordato è stato acquisito, in data 11 aprile 2013, il parere, favorevole, con condizioni, della Conferenza Stato-Regioni -- sessione comunitaria, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 281 del 1997, come sostituita dall’articolo 29, comma 6, della legge n. 234 del 2012.
Le condizioni poste dalla Conferenza Stato-Regioni sono tre, tutte all’articolo 27, due delle quali, al comma 2, sono state accolte nei termini in cui erano state poste, mentre sulla condizione posta al comma 3 il Governo ha proposto una riformulazione che è stata accolta dalle Regioni.
Pertanto, nella formulazione dell’articolo 19-bis della legge n. 157 del 1992, come sostituito dal comma 2 dell’articolo 27:
-- al comma 2, sono state eliminate le parole: «d’intesa con gli ambiti territoriali di caccia (ATC) e i comprensori alpini»;
-- allo stesso comma 2, dopo l’espressione «ai soggetti abilitati è fornito un tesserino sul quale devono essere annotati i capi», la parola «abbattuti» è stata sostituita con «oggetto di deroga»;
-- al primo periodo del comma 3, dopo la parola «ISPRA», le parole «o gli istituti regionali dotati di analoga autonomia tecnico-scientifica ed organizzativa ove istituiti» sono state sostituite con le seguenti «o altri istituti indipendenti all’uopo titolati, anche regionali laddove istituiti, dotati di analoga autonomia tecnico-scientifica ed organizzativa».
Le regioni hanno proposto inoltre emendamenti non condizionanti all’articolo 15, che si è ritenuto di non poter accogliere, in quanto in ordine ai limiti edittali delle sanzioni è necessario mantenere gli importi già previsti al fine della dissuasività delle stesse, mentre quelli proposti dalle regioni, sia per quanto riguarda le sanzioni pecuniarie, sia per quanto riguarda la sanzione di cui al comma 6, sono evidentemente inidonei sotto questo profilo.
Peraltro, la revisione del sistema sanzionatorio di cui all’articolo 15 è divenuta ineludibile per la forte refrattarietà degli allevatori di galline ovaiole ad adeguare i propri allevamenti, preferendo esporsi al rischio di pagamento delle sanzioni amministrative di importo modesto.
Le regioni infine hanno formulato una forte raccomandazione al Governo, che l’ha accolta, di proseguire il confronto al fine di raggiungere una posizione ponderata e condivisa sulla disciplina delle guide turistiche.