Legislatura 16ª - Disegno di legge N. 1476

Onorevoli Senatori. – Nel corso degli anni il patrimonio faunistico è stato stravolto da un gran numero di attività antropiche, tra cui in maniera particolare quelle legate alla caccia. Complice il bracconaggio, queste ultime hanno causato l’estinzione più o meno localizzata di diverse specie di interesse venatorio e di altre percepite come scomodi competitori di specie cacciabili. Agli inizi del secolo scorso l’attività venatoria ha favorito l’estinzione di molti ungulati in gran parte del loro areale di distribuzione: tra questi lo stambecco, il camoscio d’Abruzzo, il cervo, il capriolo e il cinghiale. Per i predatori le cose non sono andate meglio: l’orso e il lupo sono sopravvissuti solo in piccoli nuclei isolati. Tuttavia la caccia ha compromesso l’integrità dell’ambiente naturale anche in maniera più indiretta, attraverso ad esempio la promozione di ogni genere di immissioni faunistiche. Per arricchire il carniere dei cacciatori ne sono stati effettuati numerosi fin dall’antichità, molti dei quali fortunatamente (o per mancanza di adeguate conoscenze tecniche e scientifiche) caratterizzati da clamorosi insuccessi. Avremmo altrimenti rischiato di saturare le campagne con una moltitudine impressionante di selvaggina esotica: quaglie e pernici asiatiche, faraone e francolini africani, lepri, coturnici e tacchini nordamericani, martinette sudamericane e così via.

    Il tutto sempre a scapito della sopravvivenza della già precaria fauna nostrana. Ad ogni modo sono molte le specie che dopo ripetuti tentativi sono riuscite ad insediarsi con successo. Tra queste il fagiano e il daino, introdotti fin dai tempi dei Romani in tutto il Paese, e il muflone, introdotto nella Penisola alla fine del XVIII secolo a partire dai nuclei presenti in Sardegna dove, come altre specie di mammiferi, fu introdotto in epoca antica. Oppure il colino della Virginia e la minilepre, invasori nordamericani insediatisi più recentemente nelle colline dell’Italia settentrionale.
    I ripopolamenti e altri generi di immissioni per «rinsanguare» le specie indigene e di interesse venatorio hanno comportare in un primo momento un discutibile «aumento» della biodiversità locale (come talvolta scorrettamente pubblicizzato per ottenere consensi politici), ma hanno anche determinato gravi episodi di inquinamento genetico, di competizione ecologica e di diffusione di malattie e parassiti.
    Le immissioni di specie originarie del nostro Paese effettuate con esemplari appartenenti a popolazioni non indigene, oltre a causare l’irrimediabile perdita di biodiversità a livello genetico, hanno interferito pesantemente anche sul loro adattamento locale. Il caso più emblematico è quello del cinghiale dell’Italia centrale e meridionale. Un tempo questo animale era di dimensioni più modeste, meno fecondo e meno vorace di quanto lo sia oggi, ed il suo impatto sull’ambiente era minore. La conservazione dell’integrità genetica del nostro cinghiale avrebbe forse limitato gli ingenti danni all’agricoltura e gli aspri conflitti di interesse che tanto complicano la gestione di questa specie, spiacevoli conseguenze dei ripetuti incroci effettuati con esemplari originari dell’est europeo.
    Per un legittimo risarcimento, ai sensi della legge 11 febbraio 1992, n. 157, e relative disposizioni regionali attuative, dei danni alle produzioni agricole provocati dalla specie cinghiale (Sus scrofa), le province italiane destinano consistenti risorse economiche stimabili annualmente nell’ordine di centinaia di migliaia di euro.
    Se è vero che la prolificità del cinghiale centro-europeo, immesso sul territorio sin dagli anni ’60-70 a fini di ripopolamento venatorio, è una delle principali fonti del problema, desta stupore che ancora negli anni successivi al 2000 diverse amministrazioni pubbliche, ad esempio in Campania, Calabria, Molise, Basilicata, abbiano emanato bandi di gara per l’acquisto di cinghiali da immettere in natura. Così facendo si concorre ad una paradossale tela di Penelope burocratica e gestionale: da una parte si invocano misure di contenimento più drastiche, mentre dall’altra si perpetua la sciagurata politica di espansione indotta della specie, anche laddove questa è parzialmente assente o presente con popolazioni ben più ridotte che in altre parti d’Italia.
    Il presente disegno di legge redatto con la collaborazione dell’Associazione lega per l’abolizione della caccia (LAC), si propone pertanto di vietare ogni immissione in natura per esemplari della specie cinghiale, prevedendo contestualmente adeguate sanzioni amministrative, sull’esempio di quanto già previsto da altre legislazioni regionali (esempio: Liguria, Piemonte).