GIUNTA DELLE ELEZIONI
E DELLE IMMUNITA' PARLAMENTARI


MARTEDI' 6 APRILE 2004


58a Seduta


Presidenza del Presidente
CREMA

La seduta inizia alle ore 15,45.

MATERIA DI COMPETENZA

Comunicazioni del Presidente sugli articoli 6 e 7 della legge 20 giugno 2003, n. 140

Il PRESIDENTE comunica che l’Assemblea del Senato, l’11 marzo scorso, ha approvato una sua proposta di rinvio in Giunta della richiesta di conflitto di attribuzione con i giudici di Roma in merito alla cosiddetta “operazione Cleopatra”; la proposta, sulla quale l’Assemblea ha convenuto, è stata quella di proseguire nella ricostruzione normativa già iniziata nel novembre 2003 in ordine alla disciplina delle intercettazioni indirette posta dall’articolo 6 della “legge Boato”. Adempiendo a questo mandato dell’Assemblea, sottopone alla Giunta una proposta di relazione che intende affrontare la questione della costituzionalità della norma, alla luce del fatto nuovo rappresentato dall’ordinanza di rimessione emanata dalla quarta sezione penale della Corte di cassazione.
L’ordinanza 4 febbraio-9 marzo 2004, n. 10772 della Cassazione, con cui è stata sollevata questione di costituzionalità sugli articoli 6 e 7 della legge n. 140 del 2003, disattende l’interpretazione dei giudici romani, secondo cui era possibile dare un’applicazione “selettiva” della disciplina sulle intercettazioni indirette dei parlamentari. Per la Quarta sezione della Cassazione quella disciplina si può interpretare esclusivamente come l’aveva interpretata il Senato, nel documento XVI, n. 9 approvato a larga maggioranza dall’Assemblea del Senato nel novembre scorso: con l’obbligo, cioè, di richiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare indirettamente intercettato, nel caso in cui si intendesse utilizzare i contenuti di quell’intercettazione come avvenne nel caso concreto.
La Quarta sezione della Corte di Cassazione, però, aggiunge un ulteriore elemento: la legge, interpretata nell’unico modo in cui può essere interpretata, è incostituzionale. Essa ha deciso quindi “di sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6 comma 2 (con l’ovvia estensione a quelli successivi) e dell’articolo 7 della legge 140/03 in riferimento agli articoli 3, 24 e 112 della Costituzione; il dubbio di costituzionalità si estende anche all’articolo 7 della legge perché (…) alcune delle telefonate intercettate sono state effettuate prima dell’entrata in vigore della legge”.
Questa Presidenza, che non ha avuto remore ad affermare che erravano i giudici romani nella loro interpretazione della legge, non ha ora remore nel sostenere che sbaglia la Cassazione nell’interpretare la Costituzione: e, come avvenne a novembre, la Presidenza della Giunta confida che anche stavolta il concorso libero di tutte le forze politiche conforti la sua interpretazione e trovi la sede, il modo e la forma per poterla autorevolmente esprimere come la posizione del Senato nella sua interezza.
La ricostruzione della Cassazione si incentra su un presupposto che emerge dalle parole finali dell’ordinanza: “non è (…) inibito al legislatore ordinario estendere l’ambito di applicazione di una norma costituzionale, che preveda speciali diritti o tutele, al di là dei limiti previsti purché questa estensione, oltre a trovare giustificazione nella diversità delle situazioni, non si ponga in contrasto con diversi e rilevanti principi costituzionali come invece, a parere della Corte, si è verificato nel caso in esame”.
Non si intende riaprire in questa Giunta la travagliata questione sul se possano esistere estensioni delle immunità (parlamentari e non) fatte per legge ordinaria: basti dire che il senatore Crema ha opinioni ben precise (ripetute in tutte le sedi ed anche in Assemblea di recente) che sono assai più restrittive di quanto afferma ora la Corte di cassazione.
Ma anche se fosse possibile estendere per legge ordinaria un’immunità parlamentare, qui non si versa in un caso di estensione: le intercettazioni indirette sono già disciplinate direttamente in Costituzione, e precisamente nell’articolo 68 terzo comma introdotto nel 1993 con norma di rango sovraprimario. La ricostruzione che questa Presidenza propone alla Giunta non si fonda soltanto sul dato letterale, ma anche sul dato risultante dai lavori preparatori, da cui emerge inequivocabilmente che il Revisore costituzionale era ben consapevole del fatto che stava disciplinando anche le intercettazioni indirette. Lo dichiarò in molti qualificanti punti del dibattito, e ciò sia ad opera di chi vi si dichiarava favorevole (la maggioranza che alla fine approvò la nuova norma costituzionale) sia di chi vi si opponeva (l’opposizione che peraltro venne parzialmente meno in seconda lettura, ed evitò il referendum confermativo).
Il dato testuale, anzitutto, è questo: “Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”.
“Analoga” è riferito alle autorizzazioni che al comma secondo dell’articolo 68 sopravvissero all’abolizione dell’autorizzazione a procedere: quella alle misure cautelari e quella agli altri atti cosiddetti “invasivi”, cioè le perquisizioni personali e domiciliari. Non è detto che, almeno in rapporto alle misure cautelari, l’interesse tutelato sia lo stesso del secondo comma, cioè quello dell’esistenza del fumus persecutionis, soprattutto se manca un procedimento penale a carico del parlamentare: l’autorizzazione è “analoga” nel meccanismo che opera, ma non necessariamente nell’interesse che tutela. Nei casi di intercettazione “indiretta” delle conversazioni o comunicazioni del membro del Parlamento, questo interesse - come correttamente riconosce la stessa Cassazione - è rappresentato dal valore della riservatezza.
La riservatezza è un interesse giuridicamente rilevante per tutti i cittadini, grazie al Codice della privacy. Ma nel 1993 esso venne in rilievo in una veste particolare, che merita apposita tutela e che può riguardare solo chi contribuisce alla determinazione delle linee di indirizzo della politica nazionale. Il relatore Carlo Casini sostenne, all’Assemblea della Camera, nella seduta del 7 luglio 1993: “La funzione del parlamentare è di giudicare, ragionare, costruire ipotesi, valutare persone, interpretare fatti, e si svolge nell’Aula e fuori dall’Aula, anche attraverso il telefono, strumento ormai indispensabile nella società moderna dell’informazione per avere rapporti. Attraverso il telefono, allora, il parlamentare deve essere libero di esprimersi, sapendo che nessuno lo ascolta; se manifesta un giudizio negativo di tipo familiare, magari come battuta, su un collega, sul Presidente della Repubblica, sul Presidente del Consiglio, su un avversario politico, su un amico di partito, non deve correre il rischio che il giudizio in questione, valorizzato, enfatizzato, diventi argomento contro di lui, motivo di ricatto”.
L’interesse alla riservatezza del parlamentare era dunque ben presente a chi modificò la Costituzione nel 1993; proprio gli atti preparatori lo dimostrano, e dimostrano anche che il meccanismo dell’autorizzazione fu la modalità da essi individuata per tutelare quell’interesse.
La richiesta di una “formula che comprendesse tutti i tipi di comunicazione”, per il relatore, non poteva esaurirsi nel termine “intercettazione ambientale”: occorreva, per il relatore, sia focalizzare la norma sulla comunicazione e non sul documento finale, sia comprendere anche le intercettazioni inter praesentes (è il caso della microspia, o del confronto all’americana simulatamente senza ascoltatori, ma in realtà con persone che ascoltano e via dicendo). Tale formula - riassunta nelle parole “intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni” - secondo il relatore avrebbe reso comprensibile “anche l’autorizzazione che invece, così come è formulata, non ha senso pratico rispetto alle intercettazioni telefoniche che devono essere attuate a sorpresa. Se l’autorizzazione è invece riferita alla globalità delle comunicazioni che intercorrono fra il parlamentare e terzi, in ragione della libertà del parlamentare – lo ripeto ancora – credo che essa acquisterebbe un senso e sarebbe comprensibile”.
Non è quindi corretto quanto sostiene la Quarta sezione della Cassazione, e cioè che «non potrebbe affermarsi che la locuzione “in qualsiasi forma” usata dal comma 3 dell’articolo 68 si riferisca alle intercettazioni indirette». Questo era invece proprio quello che sosteneva il relatore alla Camera e - come si potrà notare dalla disamina degli atti parlamentari operata nella proposta di relazione, che è a disposizione dei componenti della Giunta - questo era ciò per cui dichiaravano di votare i gruppi di maggioranza. Non solo: questo era ben chiaro ai parlamentari che espressero voto contrario. Il deputato Galasso lamentò che il nuovo testo facesse riferimento “ad intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni o comunicazioni, il che significa che qualunque sperimentazione di qualunque possibilità di intercettare una telefonata, probabilmente anche nei confronti di altri soggetti (infatti la norma riguarderà non solo i membri del Parlamento, visto che si fa riferimento ad intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni e di comunicazioni) verrà meno”. Il deputato Paggini ricordò al relatore che in ogni caso “l’intercettazione può essere già effettuata attraverso terzi. L’argomento usato stamane dall’onorevole Casini è infatti a doppio taglio, poiché possono essere intercettati i parlamentari ponendo sotto controllo i telefoni di coloro con cui il parlamentare comunica”.
Era infatti evidente che il Legislatore costituzionale – proprio mentre aboliva l’autorizzazione a procedere – intendeva focalizzare la nuova frontiera del sistema delle immunità sul “potenziale controllo della vita di relazione del parlamentare” in sé considerata. È allora estremamente riduttivo, da parte della Cassazione, affermare che le parole “in qualsiasi forma” si riferiscono solo “alle diverse modalità con le quali la captazione può avvenire e ai diversi mezzi di comunicazione intercettati (intercettazioni telefoniche, ambientali, di sistemi informatici e telematici ecc.)”. Se un’intercettazione ambientale, secondo gli atti parlamentari del 1993, va inequivocabilmente autorizzata anche se condotta con una microspia piazzata su terzi coi quali venga in relazione un parlamentare, non si vede perché le intercettazioni telefoniche su utenze di terzi, nelle medesime circostanze, dovrebbero avere un trattamento deteriore ed essere escluse dall’ambito di operatività dell’autorizzazione.
Quando per la prima volta il legislatore ordinario cercò (col decreto-legge n. 555 del 1996, mai convertito) di prevedere che la loro utilizzazione potesse avvenire solo quando la Camera autorizzasse, il Relatore all’Assemblea della Camera dei deputati, onorevole Soda, nella seduta del 2 dicembre 1996 sostenne che “la garanzia prevista dal terzo comma dell'articolo 68 della Costituzione tutela la libertà di comunicazione del parlamentare non solo quando essa si eserciti attraverso la propria utenza telefonica o comunque su un apparecchio in sua disponibilità, ma anche quando il parlamentare comunichi attraverso un apparecchio ad altri intestato o nell'altrui generale disponibilità. Per dirla con un'apparente banalità, non è lo strumento della comunicazione ad usufruire della prerogativa, bensì il componente del Parlamento. È dunque necessario, proprio al fine di salvaguardare il principio costituzionale, in relazione alle garanzie di libertà di conversazione e di comunicazione del parlamentare, dettare la disciplina di utilizzabilità e, quindi, di incidenza nel processo penale delle manifestazioni di pensiero e di volontà espresse dal parlamentare anche attraverso utenze non proprie e, come tali, suscettibili di essere oggetto di intercettazione senza richiesta di autorizzazione. Immaginare una assenza totale di disciplina legislativa, come pure è stato adombrato con emendamenti soppressivi di queste disposizioni, equivale a vanificare il principio costituzionale del divieto di intercettazione, senza autorizzazione della Camera di appartenenza, delle conversazioni del parlamentare”.
Quello che si deve alla legge 20 giugno 2003, n. 140, allora, è di aver coerentemente ripreso e portato a conferma di diritto positivo questo assunto: il testo dell’articolo 68 della Costituzione come risultante dalla revisione del 1993 rendeva necessitata una scelta di prevalenza della guarentigia parlamentare su altri valori pure contemplati in Costituzione, alla quale il legislatore ordinario avrebbe dovuto attenersi nel dettare le disposizioni di attuazione. Come già avvenuto nel 1970 con una legge ordinaria meramente riproduttiva di un’immunità che trovava il suo fondamento in Costituzione, la Corte costituzionale non può che respingere il dubbio di costituzionalità alla stessa stregua di quanto fece con la sentenza 16 gennaio 1970, n. 9: all’epoca gli articoli invocati dal giudice rimettente furono gli stessi oggi addotti dalla Cassazione (3, 24 e 112), eppure la Corte costituzionale affermò che “il parlamentare deve essere sottratto a limitazioni o ad ostacoli nella esplicazione della sua funzione provenienti da poteri che non facciano capo alla Camera cui appartiene, e che potrebbero assumere il carattere di interferenza nello svolgimento della funzione dell'organo sovrano”.
Il Senato è legittimato ad intervenire nel giudizio di costituzionalità su una norma di legge che incide sulle sue funzioni. Non va nascosto che non vi sono precedenti di intervento di una delle due Camere in un giudizio di costituzionalità: ma la legge n. 87 del 1953 all'articolo 20 secondo comma, prevede che “gli organi dello Stato e delle Regioni hanno diritto di intervenire in giudizio”: tale previsione consente ad un soggetto portatore di interessi qualificati, collegati a funzioni riconosciute da apposite norme giuridiche, di offrire alla Corte costituzionale un apporto argomentativo pur non essendo una parte del giudizio a quo. Deve farlo entro un termine di venti giorni che, a differenza delle parti del giudizio a quo, non può essere conteggiato dalla notificazione dell’ordinanza; esso decorre dal momento in cui dell’ordinanza si dà pubblicità legale a tutti i soggetti dell’ordinamento, cioè dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’ordinanza di rimessione.
Il Senato, come titolare del potere autorizzatorio oggetto del caso all’esame della Cassazione, ha quindi il diritto e la possibilità di difendere la scelta effettuata dall’articolo 6 della legge n. 140 del 2003: la Presidenza della Giunta propone che questo diritto sia esercitato, dimostrando che l’obbligo di autorizzazione delle intercettazioni indirette affonda le sue radici su inequivocabili dati testuali di rango costituzionale, confortati dai lavori preparatori del 1993.
Un contemperamento migliore degli interessi in gioco è sempre possibile; lo stesso Presidente del Tribunale di Roma, raccogliendo il sollecito espresso dal Senato con l'approvazione del documento XVI n. 9 in merito ai problemi applicativi presentatisi, ha ritenuto auspicabile porvi rimedio mediante apposito disegno di legge. Le soluzioni di tecnica normativa possono essere le più disparate, ma sul presupposto che il bene giuridico affermato dalla norma costituzionale riceva adeguata considerazione. Il riconoscimento della reciproca volontà di perseguire un esito satisfattivo – ciascun potere dello Stato nell'ambito delle rispettive funzioni – rappresenta il conseguimento più sincero del principio di leale collaborazione che, nell'insegnamento della giurisprudenza costituzionale, è la via maestra per evitare di ricadere nella patologia ordinamentale rappresentata dal conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

Intervengono brevemente i senatori CONSOLO, FASSONE, ZICCONE e MANZIONE.

Stante il concomitante inizio dei lavori d'Assemblea, il Presidente dichiara che la proposta da lui avanzata sarà posta ai voti nella prima seduta che si svolgerà alla ripresa dei lavori parlamentari.

Prende atto la Giunta.

La seduta termina alle ore 16,30.