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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 34 (Nuova Serie), agosto 2016

"Il libro, la televisione, i giornali", intervento di Giovanni Valentini

Abstract

Nel rapporto fra libri e mondo dell'informazione (Valentini vi comprende anche la radio e il web, pur non citati nel titolo del convegno) i mezzi di comunicazione di massa compiono l'errore, anche dedicando ai libri trasmissioni e dibattiti, di ghettizzarli, soffocandone le potenzialità. Andrebbe, invece, favorita la ibridazione del libro in tutti i programmi, soprattutto in quelli del servizio pubblico. Alla scuola spetta il compito di infondere nei giovani l'abitudine alla lettura, ai media quello di coltivarla. Saper leggere insegna a saper scrivere, ad analizzare i problemi, a rapportarsi civilmente agli altri. Perciò il giornalista lancia un appello contro la bulimia comunicativa che impazza sui social ma anche in libreria, nuocendo al confronto e alla costruttiva discussione.

foto valentiniContinuiamo nel nostro "Speciale" del 2016 a dare spazio ai seminari dedicati, per impulso del Sen. Zavoli, Presidente della Commissione per la Biblioteca e l'Archivio Storico, al tema del libro e della lettura. Dopo aver ospitato l'intervento svolto da Peppino Ortoleva al seminario del 26 gennaio sul libro digitale, quello di Giovanni Solimine, introduttivo della sessione del 23 ottobre 2015, incentrata sui rapporti fra libro ed editoria e quello di Giulio Giorello all'incontro del 27 novembre scorso, intitolato "Il libro, la televisione, i giornali", riportiamo l'intervento di Giovanni Valentini, svolto nel medesimo incontro del 27 novembre.

Giornalista, già direttore di testate quotidiane e settimanali, Valentini è autore di diversi libri; ne ricordiamo il più recente, La scossa (2015).

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«Un mio amico editore, che era anche un grande intellettuale e che ho avuto la fortuna di frequentare nei miei anni di vita milanese, cioè Mario Spagnol, che è stato poi l'anima di tante iniziative editoriali e da ultimo della Longanesi, casa editrice con la quale mio onoro di collaborare, amava ripetere con il suo humor che per il successo di un libro è più importante una citazione in un articolo di giornale che una recensione su un giornale. Memore di questa indicazione, per circa quindici anni ho premesso alla mia rubrica settimanale su "Repubblica" Il Sabato del Villaggio - che poi ho dovuto sospendere perché ho cambiato un po' mestiere - un distico, una breve citazione tratta da un libro, non dai manuali delle citazioni. Cioè non una citazione polverosa, ingessata, artificiale, ma una citazione da un libro in uscita, da un libro "in corso", di saggistica prevalentemente politica, economica o diciamo mediatica, ma anche di narrativa, quando mi sembrava che potesse armonizzarsi con il tema dell'articolo, e anzi introdurlo invitando il lettore a proseguire oltre il distico.

Ho fatto questa premessa perché condivido molte delle cose interessanti e intelligenti che sono state già dette dal presidente Zavoli, da Sinibaldi, dal professor Giorello e da ultimo dalla presidente Maggioni. E ritengo anch'io che nel titolo di questo convegno manca la radio, manca il web, ma penso che dobbiamo dare per scontato che siano compresi anche questi canali, questi mezzi, nell'impostazione del nostro dibattito. Credo però che, per quanto riguarda il rapporto fra i libri, la produzione letteraria e il sistema dell'informazione nel suo complesso, il peccato principale che i giornali innanzitutto, la radio, la televisione e poi da ultimo anche il web, commettono nei confronti dei libri sia quello di ghettizzarli, di chiuderli in alcuni recinti, vale a dire trasmissioni, dibattiti, presentazioni e così via, che però soffocano la potenzialità di un libro, di un bel libro ovviamente. Potenzialità che spesso sfugge al calcolo di chi ne parla, perché il libro comunica di per sé e comunica in base a interessi, esigenze, aspettative e ovviamente in base alla ricchezza dei propri contenuti; in base dunque a quella alchimia che si stabilisce tra chi scrive e chi legge e che il professor Giorello prima definiva con una sola parola, e cioè conoscenza, ovvero bisogno della conoscenza. Sui giornali abbiamo troppe sezioni culturali in cui si parla dei libri, troppi inserti, troppi programmi radiofonici o televisivi in cui il libro viene chiuso in quel recinto. A mio parere, invece, dovremmo fare tutti quanti lo sforzo di favorire e alimentare la ibridazione del libro in tutti i programmi, vorrei dire perfino nei telegiornali, per forzare il concetto. Tutto questo perché stiamo parlando del libro, della lettura, della conoscenza e dell'informazione; stiamo parlando di un valore fondamentale come la cultura: e non lo dico in senso elitario, bensì vorrei declinarla nel senso più popolare del termine; quella cultura che oggi, secondo me, rappresenta il miglior antidoto contro il tempo della barbarie che stiamo vivendo. Il professor Giorello ci ricordava prima quello che diceva Lutero o quello che diceva Galileo; io, molto più modestamente, vorrei dire che senza cultura non c'è libertà. La lettura, in modo particolare, è uno strumento essenziale per favorire la capacità di analisi, la capacità di riflessione, quello che si chiama vaglio critico. E perciò noi dovremmo difenderla indipendentemente dalla necessaria, opportuna, vorrei dire fisiologica evoluzione multimediale che sta già avendo.

Da questo punto di vista, a me pare chiaro che la televisione, e il servizio pubblico radiotelevisivo in particolare, abbia un ruolo fondamentale. La mission della Rai, ovvero - se vogliamo dirlo in termini più aziendali - il core business della televisione e della radio pubblica, è proprio l'informazione nel senso più ampio del termine. È necessario perciò, a mio giudizio, insistere sul piano della integrazione, della complementarietà dei mezzi di comunicazione - libri, giornali scritti, visivi o audiovisivi - partendo da un presupposto, da una constatazione. Uso qui una citazione di Federica D'Alessio che dice: "Le persone leggono sempre meno perché sono sempre meno capaci di leggere e conseguentemente di scrivere". Il fatto è che soprattutto le giovani generazioni hanno perso, o stanno pericolosamente perdendo, la capacità di scrivere e quindi di comunicare, perché sono abituate a usare i 140 caratteri di Twitter, perché la scrittura sta praticamente abolendo la punteggiatura: così com'è vero che ormai tutti vogliono scrivere e nessuno vuole più leggere. Allora, se vogliamo cercare di rilanciare la lettura al di là degli aspetti più contingenti - la crisi economica, la mancanza di tempo, la proliferazione mediatica, tutti fattori che tolgono tempo e spazio alla lettura (di questo dobbiamo esserne consapevoli) - e se siamo convinti che la cultura sia il miglior antidoto contro la barbarie che stiamo vivendo, che la lettura sia un esercizio fondamentale di analisi e di riflessione, se tutto questo è vero, dobbiamo alimentare come un fuoco che si sta spegnendo il gusto di leggere, il piacere di leggere. E questo piacere, a parte il ruolo che i media e il sistema dell'informazione nel suo complesso possono e devono svolgere, secondo me lo può e lo deve svolgere fondamentalmente la scuola. Perché si impara a leggere a scuola, si impara a studiare, si impara a imparare, o perlomeno si dovrebbe imparare a imparare. È lì che deve cominciare questo discorso. Sappiamo tutti che a scuola si leggono i libri di testo per accrescere le proprie cognizioni nelle varie materie, ma si legge male: ricordo di aver detestato ai miei tempi I Promessi Sposi perché eravamo costretti a leggerlo e a studiarlo, ma poi in vita mia l'avrò riletto almeno 4 o 5 volte per il piacere di leggerlo. È dalla scuola che bisogna inoculare nelle giovani generazioni il virus della lettura, introdurre il "vizio della lettura". Poi, certo, spetta ai media, al sistema mediatico, coltivare questa abitudine, questo "vizio": se non si comincia sui banchi di scuola a imparare a leggere, non solo non si impara a scrivere, ma non si impara a confrontarsi con gli altri, a ragionare, ad analizzare i problemi. E non si impara a convivere in modo più o meno civile».

Come già abbiamo letto nello scorso numero di MinervaWeb da parte del Professor Giorello, anche Giovanni Valentini ha risposto in chiusura di dibattito (anzi, il suo intervento è stato il primo di quelli conclusivi) alla richiesta del moderatore, Sen. Lucio Romano, di esprimere attraverso due parole chiave il senso del proprio precedente intervento e la sintesi del convegno tutto:

«Mi vorrei riallacciare a quello che ha detto prima l'onorevole Bogi poco fa. È vero che al vertice della Rai l'inserimento di una figura editoriale accanto a una figura di amministratore delegato va nella direzione giusta; una direzione che peraltro - per quel poco che vale - ho sempre auspicato in pubblico, per iscritto e a voce: nel senso cioè di coordinare e di guidare sul piano editoriale la produzione di informazione e di cultura del servizio pubblico. E quindi su questo punto sono completamente d'accordo. Ma al di là delle persone (che sono più che degne e rispettabili: l'attuale direttore generale che diventerà amministratore delegato e il neo-direttore editoriale) tutto ciò va bene se deriva da un soggetto legittimato a farlo. Se deriva invece dal Governo, mi preoccupa. Ma non mi preoccupa solo per questo Governo. Proprio ieri sera ho lanciato un Tweet che è stato ripreso più volte, in cui per esprimere un giudizio su quello che sta avvenendo nel servizio pubblico (posto che siamo tutti d'accordo sulla sua centralità nel sistema mediatico, vorrei dire più in generale nell'assetto sociale del nostro Paese), ho avvertito: pensiamo che cosa avremmo detto e scritto se questi interventi li avesse fatti il Governo Berlusconi o un eventuale Governo Salvini. Stiamo attenti allora a non semplificare troppo i meccanismi decisionali, perché altrimenti rischiamo di non controllarli più.

Per accogliere poi l'invito del nostro moderatore, dico due, non keywords ma due sound bite. Primo: vorrei che si parlasse un po' meno di televisione sui giornali e un po' più di libri e di giornali in televisione. Seconda notazione: c'è chiaramente una bulimia di esternazioni da parte dei cittadini. In questo momento, come ho già ricordato prima, c'è più gente che vuole scrivere di quelli che vogliono leggere. Questo è sicuramente un fatto positivo, ma dobbiamo stare attenti a non produrre troppi libri. Ho trovato un dato su Wikipedia - non so quanto sia fondato e attendibile - secondo cui nell'anno 2011 sono stati prodotti 64.000 titoli, con 175 nuovi libri pubblicati ogni giorno. Francamente, a occhio, mi sembra un numero eccessivo. Questa proliferazione - a mio parere - nuoce non solo alla qualità, ma anche alla percezione del pubblico, il quale entra in libreria, si smarrisce e non sa più che cosa scegliere. Ultima osservazione a proposito della bulimia comunicativa: oggi - prendiamone atto e cerchiamo di trarne le conseguenze - questa bulimia è amplificata dai social network, che si frequentano non tanto per discutere o per confrontarsi, ma piuttosto per litigare: cioè per contraddire, per criticare, per opporsi, per insultare, per offendere. Questo è un elemento di cui dobbiamo tenere conto, perché non c'è solo Twitter, non c'è solo Facebook, ormai ci sono mille piattaforme (per dire un numero iperbolico) attraverso cui questa bulimia comunicativa si propaga e si diffonde, nuocendo appunto alla regola del confronto, della discussione e della riflessione. Io sono un grande appassionato di radio, l'ascolto dalla mattina alla sera (quando posso, ovviamente: mentre guido, viaggio, mi faccio la barba o la doccia, eccetera, eccetera), perché penso che - rispetto alla televisione - sia più interattiva e capillare e abbia appunto queste qualità analitiche e riflessive. Per cui, ai fini del nostro discorso sul libro, sulla lettura e sulla cultura, ha un ruolo, una responsabilità ancora maggiore. Ma non la sopporto più quando sento, anche su alcune reti del servizio pubblico, quella che chiamo volgarmente - chiedo scusa alle signore - "Radio cazzeggio", con i due conduttori che parlano fra di loro, si pestano i piedi, uno parla sull'altro, tu dall'altra parte non capisci niente, non capisci più di che cosa si sta discorrendo, ti senti escluso. Sono l'equivalente un po' più nobile di certe emittenti sportive che alimentano non il tifo, ma la violenza degli ultras, fomentano l'inciviltà. Da questo punto di vista, penso quindi che bisognerebbe fare una riflessione molto seria, finalizzata certamente a favorire la lettura, ma soprattutto a ristabilire regole minime elementari di convivenza».

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